Anno 1986: Adelaide, una bambina di nove anni in gita con i genitori, si perde in un luna
park a Santa Cruz e finisce nella casa degli specchi dove incontra una bambina identica a
lei: il suo doppio. Da questa esperienza rimarrà traumatizzata, tanto che, anni dopo,
quando tornerà nello stesso posto con marito e figli, sarà pervasa costantemente dalla
paura del ricordo, che si materializzerà con la presenza di una famiglia identica alla sua e
che, armata di forbici dorate, cercherà di uccidere i loro doppi.
“Noi” è un horror che fa paura. Già questa caratteristica rende interessante la seconda opera di Jordan Peele, attore comico cimentatosi da pochi anni con la regia cinematografica di genere thriller-horror.
La gestione della tensione è puntellata da battute ironiche che delineano una scrittura originale e riescono, a tratti, a detendere il laccio emotivo che nel corso del film rende lo spettatore cosciente del pericolo, non subitaneamente manifesto, che correranno i protagonisti della storia.
La storia è incentrata su Adelaide, interpretata dalla superba Lupita Nyong’o che ci regala una doppia performance entusiasmante, tanto credibile da far dimenticare allo spettatore che il ruolo è interpretato dalla stessa attrice.
Se in Get Out la tematica affrontata da Peele era razziale, in “Noi” la questione diventa di classe sociale in cui la politica si intreccia all’esegesi psicologica della personalità dello stereotipo americano.
“Siamo americani” dice Adelaide al marito Gabe (Winston Duke) in una battuta. E sono americani anche i doppi che abitano nel sottoterra e cercheranno di ribellarsi a una vita in cui i privilegi sono dei loro ricchi gemelli in superficie. Così come sono americani i vicini di casa, contraltare della famiglia protagonista: bianchi, ricchi, superficiali, vacui.
“Perciò, così parla l’Eterno: ecco, io faccio venir su loro una calamità, alla quale non potranno sfuggire. Essi grideranno a me, ma io non li ascolterò”. E’ il verso di Geremia 11:11 che compare più volte e che è insieme prodromo e nodo della storia. La lotta tra noi e loro, tra i ricchi e i poveri, tra i borghesi e i derelitti, tra chi vive alla luce del sole e chi nei fetidi sotterranei. Una lotta che sarà lo strumento e il risultato di una rivoluzione che avrà i tratti di tute rosse e forbici dorate.
Questi cloni però non vivono con la coscienza dei loro gemelli originali, hanno una propria identità, delle esigenze, sono persone con una propria sinistra coscienza dalle trame infime, che esacerba le caratteristiche peculiari dei propri doppi. Questa dicotomia ha un senso squisitamente introspettivo. Non nutre il gusto del cinema del genere privando il film del senso del messaggio che il regista vuole significare. Non c’è una scena splatter fine a se stessa, non una lotta, anche violenta, tra i doppelganger, non funzionale alla trama e all’allegoria.
Peele sembra volerci dire che ogni essere umano ha in sé un proprio doppio, un’anima cupa, foriera di inganni, colpe e peccati che cerca di non far affiorare in superficie. E’ quindi una colpa essere umani? E ancor più specificatamente americani? Forse sì. Forse la colpa sta proprio nella discriminazione, nella ricchezza in un mondo in cui la politica trascura i più deboli.
“Noi” e il suo regista rendono quindi merito a un filone del genere horror ancora inesplorato, in cui elementi iconografici come la danza, ironia, tensione, paura, introspezione, emotività (l’amore materno, l’amore di coppia, le dinamiche familiari e interpersonali espressi a resa evidente dell’intima natura dei personaggi), psicologia e politica s’intrecciano in un plot che riesce a tenere alta la tensione senza strumentalizzare elementi orrorifici visionari, ma inserendoli nella realtà più familiare anche per lo spettatore, che si sente trasportato nella narrazione e inevitabilmente finisce per analizzare le sue emozioni e i sui comportamenti paragonandoli a quelli dei protagonisti sullo schermo.
E poco importa se la credibilità della conclusione (inaspettata e anch’essa doppiamente allegorica) è in effetti debole e messa in discussione dal raziocinio che non trova totale soddisfazione nella sua spiegazione. Ciò che conta è che quello che vediamo sullo schermo ci fa reagire ed emozionare non per la paura di un mondo onirico, ignoto e mefistofelico, ma per il trauma di sentirci persi nel mondo reale, in cui la costante minaccia della rivoluzione degli oppressi fa capolino tra le nostre più abiette e ancestrali colpe di esseri umani.
Valeria Volpini
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Dal creatore del successo mondiale Scappa - Get Out, arriva un nuovo lungometraggio annoverabile nel filone del thriller psicologico.
La storia ruota attorno agli eventi vissuti dalla benestante famiglia Wilson: madre (Lupita Nyong’o), padre (Winston Duke) e dai due esuberanti figli (Evan Alex e Shahadi Wright Joseph).
Nonostante il livello generale di recitazione del cast non sia sorprendente, le espressioni facciali e le reazioni emotive di cui fanno sfoggio gli attori sono estremamente evocative. Il film, difatti, si distingue dai suoi simili per i plot-twist mai banali e ben inseriti: c’è una ricerca graduale dello spavento, piuttosto che giocare sul sicuro con dei jump-scare poco originali.
Una costante atmosfera rilassata e tranquilla permane in stridente contrasto anche nelle scene di estrema tensione, facendo di questo straneamento percettivo un crescendo di pathos, che avviene in modo del tutto naturale e funzionale ad un'esperienza godibile e mai noiosa.
Il finale aperto ed una sceneggiatura non pienamente compiuta sembrerebbero preannunciare un possibile sequel. L’opera di Peele potrebbe essere soggetta a molteplici interpretazioni; da una critica sociale e politica ad un manifesto contro la discriminazione razziale. Tuttavia se ci si aspettava di vedere qualcosa sui toni cruenti che il trailer aveva preannunciato, si finisce col rimanerne in qualche modo delusi.
Interessante invece il punto di vista dell’intreccio narrativo che sembra farci credere di giocare tutto sul concetto di un Black Mirror, dove ci specchiamo, ottenendo indietro un’immagine di noi corrispondente, ma sporca, oscura e contorta. Quello che vediamo nello specchio siamo noi, o almeno quel lato scabroso, che giace dormiente, al nostro interno.
L'approcciarsi ad un simile lavoro sarà fondamentale per capire che tipo di corde riesce a toccare e a quali paure ancestrali riesce ad attingere, rimanendo prima di ogni altra cosa un'esperienza del tutto personale per poterne valutare o meno l'efficacia.
Valeria Marra