Méte (Andrea Bosca) è un trentenne irrisolto, esperto di grafologia, della quale ne ha fatto una professione, la sua crisi esistenziale inizierà quando il padre, che da molti anni ha una nuova famiglia spagnola, decide di ufficializzare il suo lungo sogno d'amore. Belinda (Miriam Giovannelli), è la bellissima e conturbante sorellastra che, giunta all'improvviso, provocherà in Méte inconfessabili fantasie. Con l'avvicinarsi della data delle nozze, il giovane si troverà a dover fare i conti con le proprie insicurezze, con un genitore assente per gran parte della sua vita e con una tempesta ormonale dagli incestuosi risvolti.
A poco tempo di distanza dall'uscita del film “Diaz” abbiamo incontrato il regista Daniele Vicari che, assieme al produttore Domenico Procacci e ad alcuni principali interpreti, ci spiega le motivazioni e le necessità alla base di un'opera così discussa.
Da cosa nasce l'esigenza di fare un film su quel particolare episodio?
Daniele Vicari: Dopo il processo di primo grado sui fatti della scuola Diaz, conclusosi a novembre 2008, abbiamo cercato di capirne di più di questa sentenza. Ci furono dei commenti in merito che non ci potevano lasciare indifferenti, a cominciare da quel grido “Vergogna!” che si udì in aula di tribunale. Una ragazza tedesca dichiarò addirittura di non voler mai più rimettere piede in questo paese. Studiando gli atti processuali, abbiamo fatto un'esperienza umana, ricostruendo un tessuto narrativo che ci chiarisse l'intera vicenda, trasportandoci in un universo così arretrato riguardo il concetto di rispetto dei diritti civili, un'arcaicità che avremmo dovuto superare da oltre 150 anni. Lo Stato, in questi terribili frangenti, ci ha invece dimostrato di violare in maniera coordinata e continua i diritti di liberi cittadini, senza alcuna precisa accusa, in un modo che non ha precedenti.
Avete scelto di utilizzare dei fatti rispetto ad altri confezionando una specie di bouquet, questo apre alla considerazione che la finzione a volte dà maggiore veridicità. Riorganizzando gli accadimenti li avete resi più emblematici, su cosa è ricaduta la vostra attenzione e cosa avete tralasciato?
D.V. : Avevamo a disposizione una quantità di materiale processuale e una tale vastità di figure coinvolte che rende i processi di Bolzaneto assimilabili in termini numerici ai grandi processi per mafia. Abbiamo rinunciato per forza a qualcosa. Dentro la caserma di Bolzaneto sono transitate circa 200/300 persone. Abbiamo fatto in modo di condensare molti accadimenti riversandoli in pochi protagonisti del nostro film. Ad esempio, attraverso la figura di Alma (Jennifer Ulrich), abbiamo tentato di riassumere fatti accaduti a circa una 15ina di ragazze. Il momento umiliante vissuto da Alma nella sala medica ha visto nella realtà dei fatti coinvolte, in qualità di vittime, diverse persone all'interno del carcere. Un'altra scena, quella di un ragazzo costretto ad abbaiare come fosse un cane, accaduta all'interno della caserma, toccò ad una decina di fermati. In tutto il film non c'è una battuta non documentata. Tutta una serie di cose però sono rimaste fuori dal racconto da far affermare, dopo la proiezione genovese, al PM Zucca che la realtà fu molto peggio di ciò che abbiamo raccontato nel nostro film.
Il livello di tradimento rispetto alla realtà delle storie è legato unicamente a necessità drammaturgiche elementari. Ad esempio ciò che capita all'anziano sindacalista Arnaldo Cestaro, personaggio interpretato da Renato Scarpa, fermatosi alla Diaz per poter portare dei fiori al cimitero il giorno successivo, l'abbiamo anticipato preferendo che fossero le immagini a raccontare la sua storia piuttosto che spiegarla a parole, rendendola meno efficace. Questa è l'unica invenzione scenica, tutto il resto è scrupolosamente tratto da atti processuali, testimonianze, interviste, non c'è una sola invenzione. La nostra intenzione era quella di non spostarci neppure di un millimetro dai fatti. Cambiando i nomi dei poliziotti abbiamo unificato gli avvenimenti su un personaggio solo, come ad esempio è accaduto per l'agente interpretato da Alessandro Roja.
Ha trovato una sua risposta in merito a quelle tragiche giornate?
D.V. : Ho voluto rispettare i fatti nella maniera più assoluta, costruire teorie non compete al cinema, sono sempre stato contrario alla creazione di un “cinema civile”. Il mio unico obiettivo è stato quello di raccontare il modo in cui sono stati sospesi i diritti delle persone. Quando nel cinema si costruiscono teorie, i film invecchiano in 3 minuti, ho tentato di sottrarmi a questo destino ineluttabile, le teorie possono sempre essere confutate da nuovi elementi che sopraggiungono e che fanno di queste qualcosa di assolutamente non più valido. L'obiettivo è l'irrompere di una domanda radicale che emerge in maniera violenta: cos'è la nostra democrazia? Se avessimo azzardato una teoria ci saremmo spostati dal focus e per me sarebbe stata una sconfitta.
Ci sono state delle polemiche quest'estate perché avete scelto di far leggere la sceneggiatura alla Polizia e non ai membri del Genoa Social Forum, come mai questa volontà?
Domenico Procacci: abbiamo cercato un dialogo con le Forze dell'Ordine, più volte ho cercato di incontrare il capo ufficio stampa della Polizia in maniera da sottoporgli la sceneggiatura, senza alcuna risposta. Abbiamo avuto grande disponibilità nel corso della lavorazione ma un grande silenzio da parte di tutte le istituzioni che comprendono una gerarchia di ruoli che hanno tutti il dovere di dire qualcosa. In questi 10 anni è stato rimosso l'accaduto, insabbiato, facendo in modo che la prima vera grande vittima sia stata la legge, la libertà delle persone, la democrazia. Se non viene fatta giustizia nessuno si può poi lamentare se la gente poi non crede più nelle istituzioni. La cosa ancora più grave è che tutto è avvenuto in un contesto internazionale, durante il summit mondiale del G8, quindi fuoriesce dai confini Italiani, non è una questione che riguarda solamente il nostro Paese.
Ciò che è mancato è stata un'assunzione di responsabilità che arrivasse ancor prima della sentenza della Cassazione. Siamo in un paese che tende a confondere prescrizione con assoluzione. Il comportamento criminoso manifestato è un fatto molto grave e solamente questo meriterebbe che qualcuno facesse e dicesse qualcosa in proposito, prima ancora di una qualsiasi sentenza. Inoltre va ricordato che c'è una convenzione dell'ONU che parla di tortura e va sottolineato come tale reato non sia ancora stato inserito nel nostro Codice di Procedura Penale. Perché? Perché non c'è un codice di riconoscimento alfanumerico interno alla Polizia? Non si sa chi siano i colpevoli e oltretutto è la Polizia che investiga su se stessa con uno spirito di corpo che sconfina nell'omertà. Lo spirito di corpo si dimostra molto più forte rispetto al senso dello Stato invece di esserne il baluardo e sommo valore da difendere.
Non abbiamo fatto leggere il copione al Social Forum, nonostante la loro richiesta, per evitare che le loro voci ci condizionassero, sapevamo inoltre che dei pareri contrari da parte del Capo della Polizia non avrebbero fatto cambiare la sceneggiatura di una virgola. Chi ha vissuto i fatti ti mette sempre in discussione e non volevamo confrontarci con eventuali condizionamenti, dopo tutto il lavoro di raccolta dati che avevamo cercato di fare nel modo più scrupoloso e obiettivo possibile. Perciò abbiamo incontrato solamente i coniugi Giuliani.
Quanto alla predicata aderenza alla realtà dei fatti, quali scelte tecniche e narrative sono state funzionali?
D.V. : In tutto il film, circa 120 minuti di durata, abbiamo utilizzato solo 3 minuti di immagini di repertorio in maniera tale che si passi dalla fiction al repertorio in modo quasi inavvertibile, senza che lo spettatore ne resti disorientato.
La sequenza della Diaz durò all'incirca 9 minuti, nel film abbiamo deciso di raccontarla con un tempo non sincronico per riportare la sensazione di dilatazione temporale provata da chi ha vissuto il trauma. Abbiamo applicato in questa sequenza una scelta di carattere drammaturgico, per permettere di riviverla da più angolazioni e punti di vista differenti, proprio per rendere l'idea della percezione allungata del tempo dell'azione. Siamo arrivati a conteggiare circa un 18 minuti, poi ridotti in fase di montaggio a 13. Importantissima è stata l'influenza del genere documentario ma soprattutto del lungometraggio BLACK BLOCK di Carlo Bachschmidt, prodotto dalla Fandango poco tempo fa, che ha aiutato i protagonisti a calarsi nella parte. Abbiamo girato quasi tutto in Romania per ridurre i costi della lavorazione e abbiamo scelto di non raccontare un prima e un dopo perché non ritengo di essere portato per gli affreschi storici. Mi sarei ritrovato altrimenti tra le mani con una sorta di interminabile riproposizione di Heimat, il film di Edgar Reitz di 11 episodi. Trovavo questa volontà storicistica inutile, quanto il fatto di voler far emergere teorie particolari piuttosto che altre. La mia intenzione non è mai stata quella di cercare il significato storico politico degli avvenimenti ma semplicemente il senso.
Come credete reagiranno le Forze dell'Ordine vedendo Diaz?
D. V. : Mi auguro che le divise vadano a vedere il film perché sono convinto che molti di loro non abbiano condiviso ciò che accadde all'epoca dei fatti. Questa è un'occasione per riflettere sul ruolo e sulla funzione che certi corpi hanno assunto all'interno di una democrazia da anni. Il fulcro del nostro lavoro gira proprio attorno al concetto di democrazia.
D. P. : Il 15 marzo scorso è stato ribadito dal Ministero degli Interni un comunicato che consiglia l'astensione dal fare dichiarazioni, da parte delle Forze dell'Ordine, su film che le vedono protagoniste, a meno che non ci sia precisa autorizzazione. Questo comunicato, creato negli anni passati è stato riproposto proprio a pochi giorni dall'uscita del film e il fatto pare abbastanza curioso.
Mi dispiace quindi che il Corpo di Polizia al momento preferisca astenersi da qualsiasi dichiarazione anche se in questi anni ci sono state esternazioni che fanno capire che qualcosa non è andato come voluto. Permane un'ambiguità di fondo che vorrei finisse e il comunicato sembra purtroppo non andare in questa direzione.
Per quanto riguarda i protagonisti, quali sentimenti personali sono intervenuti nella costruzione dei personaggi?
Claudio Santamaria: Da attore giustifico il mio personaggio anche se è stato un compito durissimo ma il mio rispetto ad altri era forse il “meno peggio”. Non considero Max un eroe, ma l'ho sempre visto nell'ottica di un uomo che ha applicato il suo mestiere alla regola, più gestibile probabilmente rispetto al personaggio interpretato da Roja. È stata un'esperienza emotiva davvero molto forte perché abbiamo riproposto qualcosa che è accaduto realmente, nel farlo ci ha sostenuto lo spirito comune di raccontare una storia necessaria.
Alessandro Roja: c'è uno sdoppiamento dell'attore rispetto al mio personaggio che riassume in sé il caos. Una profonda vergogna nel raccontare una pagina così disonorevole che il nostro Paese ha scritto ma, allo stesso tempo, l'orgoglio per aver fatto questo film.
Chiara Nucera