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Il Codice del Babbuino

Lunedì 14 Maggio 2018 13:04
Ultimo lavoro della Donkey's Movie, arriva dopo otto anni dal precedente Ad Ogni Costo.
La cifra stilistica del gruppo, conosciuto in passato con il nome di Amanda Flor, è stata da subito chiara dagli esordi di Venezia 2006, quando venne presentato La Rieducazione, un film singolare nel suo genere sia dal punto di vista produttivo che formale.
Un cinema quello di Davide Alfonsi e Denis Malagnino fatto con pochissimi mezzi ma ciò non costituisce affatto un limite di fronte ad una straordinaria potenza di immagini e contenuti, dal sapore di un neorealismo 3.0 che si nutre di disagi delle periferie e di personaggi borderline, temi attualmente molto in voga per grosse produzioni patinate, ma qui affrontati in maniera del tutto originale perché reale, andando dritti al punto.
Il nuovo progetto muove i primi passi nel 2012 e mediante un'accurata sfrondatura di sceneggiatura, vede la luce in forma completa solo ora, portato in sala da Distribuzione Indipendente che ci regala ancora una volta un piccolo grande film, perla nell'attuale panorama cinematografico italiano. 
Dialoghi serrati in unità di tempo e luogo, perfetti e convincenti, in un crescendo di tensione e pathos, smorzati in giustificati respiri, pause ma anche sorrisi in una vicenda che prende spunto da un fatto realmente accaduto. 
Siamo a Guidonia, nell'interland romano, le vite di tre uomini molto diversi tra loro si incrociano, confondendosi in un gioco delle parti dove i ruoli vengono costantemente messi in discussione, dove ogni cosa non è mai come sembra. Il tutto accade in un'unica notte, all'interno di un'auto scassata che vaga senza sosta come i suoi passeggeri. 
Ciò che innesca la vicenda è un tentativo di vendetta, come in ogni western che si rispetti, è il concetto di giustizia privata che qui trova sfogo e che muove l'intera storia: una giustizia fai da te scaturita dal desiderio di vendicare la violenza subita dalla donna di uno dei tre protagonisti. Anche i generi si mischiano garantendo sempre la sospensione dell'incredulità, senza alcuna sbavatura, facendo risultare il tutto sempre troppo vero, sempre troppo crudo. Dialoghi serrati cadenzano lo scorrere del tempo, oscuro come la notte e fluido come le strade, illuminate solo da bar e sale slot, alla ricerca di un colpevole che non si svelerà mai fino alla fine, riservando comunque continui colpi di scena. É tutto così reale, personale, e noi siamo letteralmente trascinati dentro la storia senza capire come, a caccia di qualcosa che ci risarcisca di quel torto subito. Un costante interrogarsi sui concetti sempre troppo labili di giustizia, legge, chi sia la vera vittima e chi il carnefice di chi. 
In nome della più estrema adesione ai fatti anche gli stessi interpreti, tutti attori non professionisti (ad eccezione di Malagnino in doppia veste in vari lavori del collettivo) ma abilissimi come Stefano Miconi Proietti nei panni di un pessimo Tibetano, scelgono di chiamarsi con i nomi propri della vita reale, giocando ad immaginarsi immersi in un contesto di straordinari accadimenti e il gioco sembra riuscirgli davvero bene e, noi con loro, diventiamo il quarto passeggero di quella macchina, incastrati assieme alle loro vite sul sedile posteriore, col fiato spezzato, fino alla fine. 
 
Chiara Nucera