Sabato 17 dicembre, presso la Casa del Cinema di Roma, si è conclusa la seconda edizione di DOC/it Professional Award, premio della categoria al miglior documentario dell'anno, realizzata da Doc/it Associazione Documentaristi Italiani con il sostegno del Ministero per i Beni e le Attività Culturali, in collaborazione con la Casa del Cinema, Zétema Progetto Cultura e Roma Lazio Film Commission.
Cinque le opere in concorso per un montepremi complessivo di oltre 14.000 euro.
El Sicario Room 164 di Gianfranco Rosi vince il DOC/it Professional Award 2011 del valore di 3.000 euro che va ad aggiungersi ai numerosi altri premi vinti nel corso dei 43 festival a cui ha partecipato.
Il Castello di Massimo D’Anolfi e Martina Parenti vince il Premio AAMOD, 3 minuti di archivio per un valore complessivo di 5.250 euro.
Cielo senza Terra di Giovanni Davide Maderna e Sara Pozzoli vince il Premio FAKE #FACTORY, consistente in servizi di produzione o coproduzione di un film documentario, per un valore di 2.500 euro.
This is my land… Hebron di Giulia Amati e Stephen Natanson si aggiudica il Premio AMG INTERNATIONAL equivalente in mezzi tecnici per le riprese di un film documentario, per un valore di 2.000 euro.
Sempre a This is my land Hebron va anche il Premio UCCA del valore di 10.000 euro per la distribuzione del film nel circuito UCCA.
A Left by the Ship di Emma Rossi Landi e Alberto Vendemmiati va il Premio AUGUSTUSCOLOR, ovvero sviluppo e telecinema per mt. 2.000 di neg. S16mm oppure per mt. 5.000 di neg. 35mm, per un valore di 1.500 euro.
Una giuria composta da oltre 100 professionisti del settore fra autori, produttori, direttori di festival, critici e tecnici, ha avuto modo di visionare i 26 titoli finalisti e votarli on-line tramite la piattaforma www.italiandoc.it.
Per maggiori informazioni www.documentaristi.it
Chiara Nucera
Mercoledì 11 Luglio alle ore 18, presso la Sede della Direzione Generale per il Cinema del MiBAC, Piazza s. Croce in Gerusalemme 9a di Roma, avrà luogo la cerimonia di consegna dei Nastri d'Argento al documentario per l'anno 2012.
La breve cerimonia sarà aperta dalla proiezione, dedicata a Miriam Mafai, del documentario di Alessandro Piva Pasta nera in omaggio ad una grande giornalista e scrittrice, recentemente scomparsa, autrice, tral'altro, del libro "Pane nero".
Pasta nera è uno dei titoli coprodotti e distribuiti nella stagione 2011-2012 da Istituto Luce Cinecittà, marchio al quale va, tra i premi decisi dal Sngci, un riconoscimento
speciale per l'impegno che ha coniugato quest'anno cinema e storia.
I Nastri d'Argento, Premio di interesse culturale nazionale organizzato dal Sngci con il sostegno del MiBAC, sono stati consegnati, per i cortometraggi a Cortina d'Ampezzo il 26 Marzo e, per i lungometraggi, a Taormina il 30 Giugno
scorso. Con la consegna dei premi per il Documentario si conclude l'edizione 2012.
Esistono almeno sei o sette modi diversi, in italiano, di appellare un uomo per il suo orientamento sessuale. Alcuni semplicemente descrittivi – gay, omosessuale – altri con connotazione dichiaratamente dispregiativa - recchione, checca, frocio… Se pensiamo, invece, alle varianti, anche offensive, che potremmo utilizzare per una donna omossessuale, rimaniamo a corto di parole alternative al canonico “lesbica”.
Convinte che l’omofobia inizi in questo caso con la negazione, le filmakers toscane Laura Landi e Giovanna Selis imbastiscono un documentario che intende fare breccia nel muro di invisibilità che ancora circonda il lesbismo; un’invisibilità che si presenta come forma di discriminazione più subdola e potente di molti falsi stereotipi. Infatti, se l’omosessualità maschile è ancora vittima di aggressività verbale e fisica, quella femminile spesso semplicemente non esiste (da qui il titolo provocatorio che collega ciò che è invisibile a ciò che non è).
Per riportarla alla luce il documentario racconta, con il metodo classico dell’intervista con intervistatore nascosto, le vite di alcune lesbiche italiane che rivendicano la propria sessualità senza forzare troppo l’azione di definizione e differenziazione, semplicemente offrendo frammenti di esperienze che testimoniano le loro storie, a partire dal nucleo familiare di provenienza fino all’impatto sulla società che le circonda. Dai pensieri incrociati che il montaggio ci restituisce – e che le registe hanno cercato di realizzare evitando accuratamente di far sentire la loro mano - emerge un mondo fatto di donne reali che studiano, lavorano, convivono, e che con assoluta naturalezza hanno deciso di raccontarsi per regalare una visione altra e realistica di cosa significhi essere donne e omosessuali oggi in Italia, con tutte le problematiche che la nostra società chiusa ed eteronormativa può presentare. Perché, sostengono le autrici, per le donne sussiste un fattore di difficoltà in più : essere state per certi versi più “accettate” o semplicemente meno prese in considerazione ha portato alla convinzione che il silenzio protegga, quando invece nega, rende invisibili, cancella.
Al di là degli aspetti contenutistici, l’interesse che il documentario suscita riguarda anche e soprattutto le modalità di finanziamento e produzione. Stando alle regole dell’industria cinematografica un documentario dovrebbe essere venduto ancor prima dell’inizio della sua realizzazione; ciò implica la presenza di un finanziatore che crede fermamente nel progetto e, pertanto, è disposto a rischiare i propri soldi. I progetti che si discostano dalle produzioni collaudate del mercato comportano un rischio troppo grande che quasi nessuno, soprattutto in tempi di crisi, è disposto ad assumere. Per questo le registe hanno deciso di rivolgersi alla produzione del basso (vedi www.produzionidalbasso.com ) piattaforma gratuita di crowdfunding che permette agli utenti finali di contribuire ai costi di produzione di qualsiasi tipo di progetto – materiale ed immateriale - partecipando con una piccola quota (nel caso del documentario in oggetto tale quota era stata fissata a 10 euro) e diventandone a tutti gli effetti i produttori. Grazie a questa innovativa modalità di sottoscrizione popolare il documentario ha potuto vedere la luce riscuotendo gli apprezzamenti della critica del Florence Queer Festival dove è stato in prima battuta presentato e continuando la sua diffusione nei festival di genere e non. La modalità della produzione dal basso - ecco un’altra sua potenzialità - ha infatti permesso al pubblico di assumere un ruolo attivo e consapevole, sganciandosi dalla semplice figura di fruitore. Al tempo stesso, si è potuto evitare un coinvolgimento a senso unico delle sole associazioni Lgbt – che hanno comunque sostenuto il progetto – per parlare ad uno spettatore “queer” che si interessa trasversalmente alle tematiche di genere di cui cerca di decostruirne le modalità preconfezionate di rappresentazione. Le registe rivelano infatti come molti dei finanziatori non siano omosessuali e non appartengano a nessuna associazione che si occupa di diritti delle persone Lgbt bensì persone interessate e sensibili alla tematica, che hanno creduto nel valore e nella forza dell’idea originaria.
Nella sua totalità il documentario, impreziosito da un’efficace animazione iniziale, realizzata dall’illustratrice Francesca Bolis e da frammenti dello spettacolo teatrale “La metafisica dell’amore” (Le Brugole) che creano le giuste pause fra un’intervista e l’altra, è un mediometraggio ben riuscito sia sul versante formale che su quello sostanziale, capace di raggiungere gli obbiettivi che si era posto: dar voce alle variegate vite che hanno voluto raccontarsi, operando un passaggio fondamentale che dal privato giunge al pubblico, o meglio al politico (“il privato è politico”), e decostruendo al contempo il supposto “prototipo lesbo”, a dimostrazione che non esiste un solo modo di vivere la sessualità
L’interrogativo fondamentale in relazione al suo spunto iniziale resta tuttavia aperto: le lesbiche sono veramente invisibili oppure, a fronte di un generale silenzio, si può supporre che godano di una maggiore accettazione da parte della società? Ma soprattutto: c’è ancora bisogno di identificarsi e raccontarsi per esistere?
Elisa Fiorucci
“Era il 1985. In uno dei nostri viaggi, dentro un cinema di Reykjavik, Guido ed io restammo imbambolati di fronte alle riprese dell’ultimo 007. Bond terribilmente a suo agio in ogni situazione, noi sempre in difficoltà nei posti più improbabili. Decidemmo la rivalsa: girare un film su noi e lui, dove alla fine Guido ed io avremmo avuto la meglio”.
Un incipit in perfetta sintonia con un titolo bizzarro che, tuttavia, non rivela nulla del nucleo centrale del documentario. Perché Noi non siamo come James Bond è, prima di tutto, il racconto di un’amicizia autoironica e commovente che cita James Bond come modello di perfezione per la vita imperfetta dei due protagonisti. “Per noi Bond rappresentava il prototipo di come dovrebbe essere il mondo…e alla fine si è rivelato che non è mai stato così”, spiega Guido Gabrielli, protagonista e coautore. L’avventura che intraprendono Guido e Mario (Balsamo, scrittore, autore e regista di documentari, corti, videoclip e pubblicità progresso) è un viaggio intimo intorno alle riflessioni, alle decisioni, alle difficoltà che hanno accompagnato le loro vite. I dialoghi serrati fra loro – nella spiaggia isolata di Sabaudia, in un bar, in un treno, negli spazi domestici di ciascuno dei due - sovrappongono al presente alcuni echi del passato attraverso i quali ripercorrono momenti della loro amicizia che vibra tutt’oggi della stessa intensità.
Diversi fattori contribuiscono a fare del documentario una testimonianza lucida e al contempo appassionata, delicata ma forte, di un rapporto duraturo che riempie di significato quegli anfratti dell’esistere in cui spesso l’angoscia ci sospinge. In primo luogo la volontà di raccontarsi, di mettersi a nudo di fronte ad un pubblico, di mostrare le debolezze – umane, troppo umane – che spesso, per vergogna o per paura, vengono relegate alla solitudine dell’isolamento (“mettersi in scena soggettivamente vuol dire giocare a carte scoperto col pubblico”, afferma Mario). Anche Guido, refrattario a parlare di sé e della sua malattia, si affida alla mano dell’amico che lo conduce in questa biografia a due senza mai lasciarlo, rispettando i suoi bisogni e le sue volontà (significativa in questo senso è la scena del litigio, durante la fase di lavorazione, dovuto ad alcune parti del montato che Guido si rifiuta categoricamente di includere nel montaggio finale; scena che Mario lascia fluire con una telecamera fissa, posta al di fuori della stanza in cui i due discutono ed in cui vengono proiettate proprio le scene che Guido vorrebbe eliminare, per poi tornare a riprendere i volti dei due nello scambio acceso di idee). In secondo luogo, proprio la messa in scena della malattia – sconfitta da entrambi ma con strascichi pesanti e visibili – diventa uno strumento per esorcizzare la paura della morte, per elaborare la malattia stessa ed approcciarsi alla quotidianità con la voglia rinnovata di andare sino in fondo all’intensità dell’attimo.
Come nell’episodio Medici di Caro Diario e nel film rivelazione dell’ultimo festival di Cannes La guerre est declaré (che si apre con la stessa scena iniziale, quella di una tac) vi è anche qui quell’esplicita scelta autoriale di filmare i discorsi e i pensieri che danno vita ai primi - indugiando sovente sui primi piani dei protagonisti, raccontando le loro emozioni - piuttosto che le azioni, in un intreccio inestricabile fra vita vissuta e vita filmata che testimonia la sottile barriera esistente fra cinema di finzione e cinema reale. Anche la scelta del genere documentario è informata dall’idea che non c’è una realtà sola così come non c’è una finzione sola. In questo modo il loro racconto – che è un racconto privato e personale – assume i connotati di un discorso universale che fa appello a quella capacità umana di condivisione e sostegno reciproco che non ha tempo né luogo. Alla domanda di Guido “Perché ci siamo ammalati?” risponde l’interrogativo di Mario “Perché siamo guariti?”, entrambe rimaste prive di risposte possibili, tranne un’unica certezza: “essere in due aiuta. L’amicizia quantomeno ti permette di vivere bene.”
La complicità tragicomica delle coppia – due giovani gemelli diversi, uno carrierista e l’altro anarchico, accomunati dal desiderio di mordere la vita, chi in un senso chi nell’altro – guida lo spettatore in questo documentario on the road, sospeso fra buddy-movie e bromance, che tocca i luoghi dell’anima piuttosto che quelli fisici (anche quando i due, vestiti come dei perfetti James Bond, attraversano le strade di Perugia colorata di musica durante l’Umbria Jazz, improvvisandosi artisti di strada) in una danza fra autore e testimone che è una costante del cinema di Mario Balsamo.
La ferma volontà di evitare la tristezza, la retorica e le lacrime, riempie il racconto di un umorismo leggero e toccante, che giunge fino alla spiaggia di Sabaudia, in un finale, sospeso anch’esso fra realtà e finzione, dove i nostri, nella stessa tenda malconcia con cui da giovani squattrinati giravano il mondo, riescono finalmente a mettersi in contatto con Sean Connery, il vero James Bond. Il quale, inaspettatamente, ammette di trovarsi in un momento difficile, dimostrando la sua umanità nella fragilità che coglie anche lui, come qualsiasi altro essere umano. Un capovolgimento totale del discorso iniziale che trasforma l’eroe in una persona comune e i protagonisti in veri eroi moderni – o postmoderni: uomini comuni che affrontano le difficoltà che la vita presenta loro con un rinnovato attaccamento alla vita e con il bisogno di continuare a lottare per tutto ciò in cui credono, sia nelle loro esistenze private che collettivamente.
Vincitore del Gran Premio della Giuria al Torino Film Festival 2012, Noi non siamo come James Bond sta tutto nelle parole di Giancarlo Pannone: “un film originale, poetico, straziante fino a far male, in una parola bello, perché maledettamente sincero e sofferto.”
Elisa Fiorucci
Giovanni Lindo Ferretti mi risulta simpatico dalla prima volta che lo vidi. Eravamo a metà anni 80 e così mi apparve in tv: cresta punk e canto sgraziato, ondeggiante tra i volteggi di Annarella e i deliri di Fatur. Una bomba. Da allora ne ho seguito il percorso artistico e umano: la fine dei CCCP, il grosso successo di pubblico e critica coi CSI, la “misteriosa” e insanabile separazione da Massimo Zamboni (l’amico, il collega, il socio, il complice di una vita), il nuovo percorso musicale e umano coi PGR, la svolta mistico religiosa e il suo esilio montanaro. Poi devo confessare di averlo perso di vista. Adesso me lo ritrovo davanti in questo documentario a firma Germano Maccioni, che cerca di delinearne un ritratto sia umano che artistico, “per restituire la complessità di un personaggio che ancora oggi scatena sentimenti e opinioni contrastanti”, come egli stesso sostiene. Il lavoro è assolutamente impeccabile dal punto di vista tecnico: splendida fotografia (le scene montane restituiscono dei colori davvero unici), un buon lavoro di archivio (alcune chicche video faranno felici i fans della prima ora), bellissime inquadrature (soprattutto nella parte finale dedicata ai cavalli). Alcuni momenti sono davvero gustosi: l’incredibile aneddoto del piccolo Ferretti allo Zecchino D’Oro, il sorriso col quale il protagonista affronta l’argomento riguardante la sua salute, i video di alcune straordinarie esibizioni dei CCCP, fantastici stralci del viaggio in Mongolia, l’amore che traspare quando si parla dei suoi purosangue. Però a questa ottima estetica di fondo non mi pare corrisponda un'analisi che vada davvero a scavare nel profondo dell’artista, o perlomeno, tenti di coglierne qualche sfumatura ancora inesplorata. Non vengono affrontati alcuni nodi cruciali del suo percorso artistico: perché i CCCP si sciolsero? Quali le cause del suo straziante “divorzio” da Zamboni? Ferretti pare voler evitare alcuni discorsi: si parla molto della sua infanzia e dei CCCP, ma si affrontano con molta fretta i CSI, si trascurano quasi totalmente i PGR, per poi dare molto spazio alla nuova formazione musicale del cantante. Insomma a una splendida “forma” non corrisponde una altrettanta corposa “sostanza”; a una estetica impeccabile non segue il necessario e annunciato pathos. Sulla tanto discussa svolta religiosa di Ferretti è forse il caso di fare la necessaria chiarezza: osservandone sia il percorso umano che il percorso artistico, la componente mistica è stata sempre fortemente presente. Addirittura in tempi non sospetti, il terzo disco dei CCCP (band che faceva fortemente leva sul punk, sull’oltraggio e sulla provocazione) proponeva preghiere a Maria e lettere al Papa. La tanto chiacchierata “conversione” è semplicemente un punto di arrivo di un viaggio che se esteticamente è potuto apparire anticonformista, è stato invece sempre perennemente ancorato ai sani valori che il piccolo Giovanni Lindo aveva imparato da bambino: cattolicesimo e comunismo. In questa ottica, è fondamentale il racconto della riconciliazione con la madre, forse la prima persona ad aver compreso questo fatto, e ad aver visto negli occhi di un punk una fortissima fiamma di spiritualità, decisamente rivolta verso una cristianità intransigente. E se Ferretti è definibile controcorrente, non è per i suoi trascorsi furiosamente punkettoni (in fondo cavalcava la moda del periodo), ma appunto per questa sua scelta di esilio montanaro, tra natura e preghiera. Ma proprio quando finalmente il film pare voler affrontare questi discorsi più “ardui” (vedi l’imbarazzante scena in cui Ferretti cerca di spiegare il suo concetto di Dio, chiaramente non riuscendovi), la macchina filmica frena bruscamente e appaiono in scena i tanto attesi destrieri. Da qui in poi è tutto uno spot al nuovo progetto dell’artista: la messa in scena di un teatro “barbarico” di uomini, cavalli, e montagne. Alla fine Ferretti risulta essere davvero molto simile ai suoi adorati animali: esseri dallo sguardo all’apparenza incredibilmente profondo ma incapaci di lasciar trasparire davvero le più intime emozioni.
Andrés Di Tella rappresenta sicuramente una delle punte di diamante di un Festival dei Popoli che, giunto alle sua 53esima edizione, riesce a mantenere un livello qualitativo elevato, svincolandosi dal circolo dell’etno-antropologico tout court per proporre la forza di un genere documentaristico “d’autore”.
Cineasta, scrittore e giornalista, Di Tella si avvicina al documentario come ad uno strumento funzionale alla riappropriazione intima dell’evento, rappresentato per lui dall’incontro con l’altro. Questo incontro permette la sperimentazione di una prossimità umana che esce dall’orizzonte dei discorsi e della rappresentazione nuda di un fatto, per coagularsi in immagini che ci restituiscono l’intimità creatasi fra lo sguardo dei personaggi e quello della macchina da presa, ovvero dell’autore. La fedeltà rispetto a questo incontro è, per Di Tella, l’essenza dell’etica del documentarista, assunto a giudice unico di tale fedeltà, responsabile della sua riproduzione per lo spettatore.
Per reagire alla falsa oggettività del documentario, lo sperimentalismo di Di Tella informa il patto intimo che lega il racconto allo spettatore (la c.d. “suspension of disbelief”) della dichiarazione della sua presenza di fronte agli sguardi e alle voci dei personaggi.
È ciò che avviene in Montoneros, una historia (Argentina, 1994), narrazione del movimento “tercerista” dei Montoneros argentini, e della loro repressione, attraverso i ricordi di Ana Testa e di altri ex combattenti superstiti. Il racconto si costruisce attraverso la tecnica tradizionale di ripresa ravvicinata della narrazione che i personaggi-attori offrono di fronte alla telecamera fissa, come se parlassero al pubblico posto di fronte a loro. Tuttavia, a questa impostazione che solo per chiarezza definiamo “classica” si aggiunge uno scarto quasi emozionale rappresentato dal lavoro (di ricerca prima e di montaggio poi) di un autore che si inserisce nella storia tirando fuori il riflesso degli eventi nei volti dei testimoni piuttosto che gli eventi stessi. Questo lavoro si inserisce pertanto nel confine fra racconto collettivo e racconto individuale, restituendoci frammenti di storia attraverso le pause, i cambiamenti di tono, i silenzi di coloro che quella storia l’hanno vissuta e che tentano ora di ridarle vita con le parole. Tale percorso non segue un particolare filo cronologico quanto piuttosto una coerenza tematica, resa più evidente dall’accostamento con filmati in bianco e nero che si collegano agli eventi a cui i testimoni danno voce. Centro di questa costruzione è Ana, la cui figura si erge attraverso la voce ferma e intensa che cuce insieme i brandelli di una vicenda che smette di essere solo la sua nel momento in cui la condivide con lo spettatore. Accanto a lei, Ignacio Vélez, Graciela Daleo, Mario Villani ed altri rivelano i dettagli del loro vissuto dentro al movimento, lasciandoci addosso il sapore di una commozione e l’impatto della testimonianza di momento duro inscritto nella storia dell’Argentina contemporanea.
Se Montoneros, una historia, abbraccia il periodo che va dalle prime azioni di guerriglia del movimento, nel 1970, al colpo di stato militare del Generale Videla, con la conseguente repressione dei militanti e la fine dell’esperienza rivoluzionaria, Prohibido (Argentina, 1997) prosegue il recupero della storia argentina a partire proprio da quel 1976 che segna l’avvento dell’ultima, sanguinosa dittatura militare. Qui il materiale ricercato e filmato da Di Tella dà voce ad una resistenza più silenziosa, ma non per questo meno tenace, di tutti quegli artisti, giornalisti ed intellettuali che hanno lottato per dare visibilità alla loro espressione contro la cultura del terrore. La domanda a cui cerca di rispondere nei 106 minuti di pellicola è: “Che cosa è successo alla cultura argentina durante la dittatura militare fra il 1976 e il 1983?” Sono i vari esponenti della cultura di quel periodo – da Beatriz Sarlo a Ricardo Piglia, da Jacobo Timmerman a Norma Aleandro (fra gli altri) – a restituirci l’atmosfera di paura di quel passato difficile, di quella storia collettiva che si fa racconto intimo lasciando trapelare molto di più di quanto un’indagine storica permetterebbe. Il loro racconto è la confessione di una generazione che ha cercato con gesti quotidiani e discreti di reagire a quella paura e che ora offre la propria soggettività allo sguardo di uno spettatore che ascolta quelle parole e quei silenzi. Di fronte a lui il passato emerge, si fa palpitante, chiede uno sforzo di comprensione contro l’oblio.
Montoneros, una historia e Prohibido sono stati presentati all’interno della retrospettiva “El documental y yo: il cinema di Andrés Di Tella” organizzata dal Festival dei Popoli di Firenze in collaborazione con l’INCAA (Instituto Nacional de Cine y Artes Audiovisuales), e curata da Daniele Dottorini. La rassegna ha riproposto l’intero percorso della carriera cinematografica di Di Tella con la proiezione, oltre ai due film discussi, di: Reconstruyen crimen de la modelo (Argentina, 1990), Macedonio Fernández (Argentina, 1995), La Televisión y yo (Argentina, 2003), Fotografias (Argentina, 2007), El País del Diablo (Argentina, 2008) e Hachazos (Argentina, 2012).
Elisa Fiorucci
Il primo workshop sulla scrittura del reale interamente organizzato all'interno di un festival capitolino che si terrà 22/23 e 29/30 giugno, Cinema dei Piccoli, in collaborazione con MedFilm Festival 2013
Scrivere un documentario sembra un ossimoro, ma non lo è. Anche la sceneggiatura della fiction quanto più è solida tanto più permette al regista di muoversi con maggior libertà, di smontarne persino alcune parti. L’indeterminatezza, invece, quasi mai aiuta il regista a trovare un percorso più efficace. Piuttosto per il documentario si può parlare di scrittura aperta. C’è, tuttavia, un momento in cui il frutto della propria ricerca va raccolto in un passaggio che rappresenta anche un bilancio. Lo script o, più televisivamente, il dossier, sarà di sicuro utile al produttore o al broadcaster, ma è anche una verifica che serve all’autore per mettere ordine nella propria testa.
Gianfranco Pannone, L’officina del reale.
Nella splendida cornice di Villa Borghese, all'interno della suggestiva location del Cinema dei Piccoli e con la collaborazione del MedFilm Festival, Cinema del Mediterraneo a Roma giunto ormai alla sua 19esima edizione, prenderà il via Scrivere il Documentario: il primo workshop sulla scrittura del reale interamente organizzato all'interno di un festival capitolino.
24 ore totali di lezione ed esercitazioni lungo due intensivi week end, per un numero massimo di 20 partecipanti che, divisi per coppie, realizzeranno uno script/dossier per un documentario di mezzora, il tutto sotto la guida di docenti d'eccezione: il regista Gianfranco Pannone e lo scrittore e autore di documentari Cosimo Calamini.
Un confronto che terrà conto di approcci anche diversi alla scrittura, considerando un’adeguata ricerca sul campo e una necessaria chiarezza di esposizione in fase di scrittura.
Dopo l'orario di lezione sarà possibile partecipare ai numerosi eventi proposti dal MedFilm Festival.
Il programma si articola secondo le seguenti modalità:
Durante il primo week end (sabato 22 e domenica 23 giugno, dalle 9.30 alle 16) ci si relazionerà con :
analisi degli approcci metodologici, strutturali e tematici per la realizzazione di un documentario
presentazione e valutazione delle idee dei partecipanti e formazione di coppie di lavoro
analisi di script di lavori degli stessi docenti e confronto con i film documentari realizzati a partire da quegli stessi elaborati
Nel secondo week end (sabato 29 e domenica 30 giugno, dalle 9.30 alle 16):
Mediante uno scrupoloso lavoro di approfondimento e confronto, verranno esaminati gli scritti realizzati dai partecipanti
Ricerca e riconoscimento di potenzialità e limiti della scrittura di un documentario all'interno del proprio progetto
Quota di partecipazione: 250 euro (nella classe sono ammessi anche semplici uditori al costo di 100 euro per l'intero ciclo di lezioni)
Le iscrizioni scadranno il 19 giugno
Gianfranco Pannone (Napoli 1963) è laureato in Lettere a Roma e diplomato in Regia al Centro Sperimentale di Cinematografia. Tra il 1990 e il 1998 ha prodotto e diretto la trilogia composta da Piccola America, Lettere dall’America, L’America a Roma e nel 2001 Latina/Littoria, quest’ultimo miglior film documentario al Torino Film Festival 2001. Tra i suoi medio e lungometraggi Pomodori (1999), Sirena operaia (2000), Pietre, miracoli e petrolio (2004), Io che amo solo te (2005), Cronisti di strada (2006) Il sol dell’avvenire (2008), ma che Storia…(2010) Scorie in libertà (2011-‘12), Ebrei a Roma (2012). I suoi film documentari gli sono valsi partecipazioni e riconoscimenti in molti festival italiani e internazionali, oltre che la messa in onda sulle principali televisioni europee. Insegna Cinema documentario al Dams dell’Università Roma Tre e regia al Csc – Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma e dell’Aquila. Saggista e autore, ha tra l’altro scritto il libro L’officina del reale.(ed. Cdg) con M. Balsamo e Docdoc – dieci anni di cinema e altre storie (Mephite Cinemasud).
Cosimo Calamini (Firenze 1975) è laureato in lettere a Firenze e diplomato in sceneggiatura presso il Centro Sperimentale di Cinematografia. Lavora a Roma come sceneggiatore cinematografico (Mar Nero), di film - documentario (Tra due Terre, Non Tacere, Scorie in Libertà) ed è autore di documentari storici per La7, History Channel e RAI3. Con Garzanti ha pubblicato i romanzi: Poco più di niente (2008), vincitore del premio internazionale Feudo di Maida per la narrativa e Le Querce non fanno limoni (2010), finalista al premio Chianti.
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