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Visualizza articoli per tag: disney

Aladdin

Mercoledì 22 Maggio 2019 10:12
“Le notti d’oriente con la luna nel blu” nella versione “live action” Disney, diretta da Guy Ritchie di Aladdin, un classico d’animazione del 1992 che portò in occidente nelle case di tutti, uno dei racconti più celebri de “Le mille e una notte” (datati circa 900 d.C.) “Aladino e la lampada meravigliosa”. La storia, per chi non la conoscesse, narra di un ladruncolo di strada, buono di cuore, che viene incaricato da un malvagio gran visir, di rubare una Lampada Magica. Al suo interno vive un genio altrettanto generoso da lui svegliato per errore, che gli promette di esaudire 3 desideri. Nel cuore del ragazzo, c’è la principessa Jasmine, la figlia del Sultano che respinge ogni pretendente, destinata solo a sposare un uomo di sangue reale. Questo remake sembra un vestito cucito addosso a lei (interpretata da Naomi Scott) che in questa rivisitazione mette in ombra tutti gli altri personaggi. Non sempre a beneficio della trama: c’è una regola non scritta, che prevede ogni qual volta bisogni mettere mano alla riscrittura di un classico Disney (e non) che la protagonista debba essere esasperatamente messa in luce. Così Jafar (interpretato da Marwan Kenzari) l’antagonista, viscido serpente ma allo stesso tempo acuto e indiscutibilmente carismatico nell’originale, viene ridotto ad una figura debole, simbolo del maschilismo e della misoginia. Aladdin (il simpatico e atletico Mena Massoud) si dimostra degno delle attenzioni della futura regnante, tuttavia non fa nulla di eccezionale per la principessa, perché lei non ha bisogno di nessun uomo a cui “affidarsi”. Il Genio, il migliore delle figure maschili, Will Smith da il meglio di sé nella sua versione “umana”. La sua veste digitale Genio della Lampada blu enorme e muscoso, è stato aspramente criticato dagli appassionati ancor prima dell’uscita del film, eppure, in qualche modo, funziona. È un peccato che i suoi “Fenomenali poteri cosmici” non possano nulla contro, la volontà di Jasmine. Viene introdotto anche un altro personaggio femminile Dalia (Nasim Pedrad) una simpatica ancella frivola e indipendente che serve da spalla comica. Percorrendo un passo indietro, dispiace perché la principessa dolce e ribelle del film d’animazione era realmente forte, non necessitava nessuna modifica, all’interno del contesto della storia, risultava importante come tutte le sue controparti maschili e ognuno giocava un ruolo fondamentale. Dopotutto ha sempre avuto una tigre come animale domestico. Plauso agli adattatori delle canzoni in lingua italiana: alcune strofe sono diverse tuttavia mantengono il senso che devono avere. Anche Gigi Proietti nel cast dei doppiatori: da la sua voce come doppiatore al Sultano. Il film è fatto a modo di Musical. Nota di merito alla coreografia e la messa in scena di alcune sequenze, che ricalcano l’originale come il momento trionfale in cui Aladdin fa il suo ingresso in città come Principe Alì. I costumi, sfarzosi e ricchi sono stati spudoratamente “rubati” al cinema di Bollywood più indiani che arabeggianti, sorprendentemente alcuni abiti sono più castigati di quelli della versione su carta che restano addirittura più “sexy”. Il target di questo film è difficile da definire, gli adulti cresciuti con il classico, avranno difficoltà ad apprezzarlo (il confronto è schiacciante) ma il film è assolutamente adatto ad ogni età e i bambini forse al contrario apprezzeranno i colori frizzanti e la vitalità dei personaggi senza farsi condizionare dal passato.  
 
Francesca Tulli
 

Il Re Leone

Domenica 18 Agosto 2019 10:31
Scordatevi il concetto di “Remake” che conoscete, “Il Re leone” di Jon Favreau non è un semplice rifacimento del capolavoro di animazione Disney del 1994, è l’esempio lampante di quanto stia cambiando il gusto visivo del pubblico, pone, seppure su una scala di differenti valori, la stessa domanda che il mondo si è fatto dopo la creazione della pecora Dolly. 
È una questione morale. 
Le versioni “live-action” dei classici Disney, proposte negli ultimi anni (l’ultima uscita Aladdin, 2018) figlie dell’operazione iniziata nel 1996 con “La carica dei 101-Questa volta la magia è vera” ci propongono le stesse storie rivedute e corrette, interpretate da attori in carne ed ossa, visibilmente preoccupati di rendere giustizia alle controparti in cellulosa, spesso affossati dal confronto con l’originale, generano dibattito e si accodano negli anni, dietro alle miriadi di discussioni generate dai franchise, sebbene siano “inutili” per certi versi, hanno un peso diverso. Questo non è un “live-action” è lo stesso film realizzato con la computer grafica fotorealistica, una diversa tecnica di “animazione”, non è un documentario del National Geographic, non è un film con attori che interpretano personaggi già esistenti e amati (l’umanità lo fa da secoli e mi riferisco anche al teatro) è un esperimento nuovo. Come tale, genera impressioni diverse. Simba è il principe della foresta, l’amato cucciolo è figlio di Mufasa, il Re, saggio e buono che veglia sul cerchio della vita. Scar, lo zio invidioso, vuole rovesciare le sorti della dinastia, prendere il posto di suo fratello e impedire all’erede legittimo di salire sul trono. La storia, a tutti gli effetti, è un dramma dinastico Shakespeariano, liberamente tratto dall’Amleto, funziona in qualsiasi modo venga proposta, tuttavia, si resta perplessi davanti alla totale inespressività degli animali, la forzatura nel far parlare creature che sembrano vere e non lo sono, si rabbrividisce sfiorando l’effetto di nausea provocato da quella che si definisce “zona perturbante” (o effetto “uncanny valley”) quando il nostro occhio si accorge che non sta guardando degli esseri viventi ripresi da una telecamera ma qualcosa di ibrido e finto, costruito così bene che sembra disgustosamente “reale”. Non si discute sull’efficienza dei motori grafici né la bravura degli animatori per certi versi, sebbene peccasse della stessa identica mania di perfezionismo “Il libro della Giungla” (2016) dello stesso Favreau, gli valse l’oscar per i migliori effetti speciali nel 2017 e questo è una sua evoluzione, tuttavia, resta la perplessità generata dagli altri fattori, una su tutte la componente “musical” presente in entrambe le versioni, se la versione precedente, rcca di colori offriva brividi e scene corali, questa può solo contare su fondali monotematici, scenari secchi e aridi, personaggi di contorno superflui (c’è un galagone con Timon e Pumba!) e zero credibilità. Le musiche sono dello stesso compositore Hans Zimmer, nella versione originale Nala è la famosa cantante pop Beyoncé, Simba è Donald Glover, in Italia gli stessi personaggi sono interpretati da Elisa e Marco Mengoni, il resto del doppiaggio italiano, curato con le migliori voci in circolazione tra cui Luca Ward e Massimo Popolizio ha combattuto una guerra impari: il primo “Re Leone” vantava un cast di attori e doppiatori d’eccellenza tutt’oggi viene considerato uno dei migliori mai realizzati (basti citare Vittorio Gassman e Tullio Solenghi come Mufasa e Scar). Si contano le scene soffocate (“Sarò Re” la canzone di Scar è ridotta ad un coro striminzito e un ritornello) le scene eliminate (il “Politically Correct” ci sta rovinando, mi riferisco al rapporto tra Scar e Sarabi) le citazioni forzate (no non avete riso, durante il siparietto di Timon alla fine, quando vuole proporre Pumbaa come portata principale. Vero?) e gli innumerevoli altri difetti, primo fra tutti quello più imperdonabile la ricerca spasmodica delle nostre “lacrime facili” costringendoci ad emozionarci per il ricordo di un film fatto 25 anni fa, come fosse un loro successo. I bambini di oggi amano le nuove tecniche, probabilmente questo film è dedicato a loro a quelli che si annoiano davanti al cartone animato (esistono davvero?) ma una buona fetta di appassionati, piange l’insuccesso. 
 
Francesca Tulli

Raya e l'ultimo drago

Giovedì 04 Marzo 2021 11:14
Prima della comparsa delle forze malefiche, cinque draghi, con straordinari poteri cosmici, crearono una pacifica e armoniosa terra chiamata Kumandra. Poi vennero i Druun degli esseri malvagi, una piaga, senza forma con il potere di tramutare in pietra ogni avversario. I draghi si sacrificarono per difendere l’umanità, per sconfiggerli, lasciando a loro guardia un ultimo drago, dipendente da una pietra magica, che spezzata e ricomposta può ridonargli l’antico splendore perduto (il potere dei suoi fratelli e sorelle) e restituire la vita alle vittime dell’incantesimo. Cinquecento anni dopo, la combattiva principessa Raya a cavallo della sua singolare bestia da soma Tuk Tuk, si mette alla ricerca di Sisu il leggendario ultimo drago per restituire la pace al suo popolo e salvare suo padre dalla piaga dei Druun mai davvero scomparsi. A lei si unisce una compagnia strampalata formatasi per puro caso. Sulle tracce della creatura c’è anche la principessa Naamari, una sua vecchia amica di infanzia, forzata dalle circostanze a voltargli le spalle, decisa a trovare il drago e i pezzi della sfera magica prima di lei. Comincia un viaggio parallelo, per ricostruire un regno e un amicizia perduta. I registi di Raya el’ultimo drago, Don Hall e Carlo Lòpez Estrada, in tempi difficili hanno deciso di terminare questo film con tutte le difficoltà del caso dovuti alla pandemia, mirando alla semplicità e rivolgendosi principalmente ad un pubblico di bambini, davvero piccoli, una direzione interessante lontana anni luce dalle tematiche “forti” e commoventi quali la vita e la morte, presente negli ultimi Walt Disney Animation Studios (a Don Hall Big Hero 6, del 2014 valse l’oscar) e dei colleghi Pixar (tra gli altri Onward e Soul ne sono un esempio). Raya è un film sulla diversità. I cinque regni che visita la principessa sono palesemente ispirati a diverse reali locations principalmente del sud est asiatico, Vietnam e Thailandia, ma troviamo anche influenze cinesi, inuit, maori, giapponesi, africane e fantascientifiche. Un gusto orientale in salsa occidentale, l’ironia americana e latina si fonde con il tratto demenziale dei film fantasy cinesi, specialmente laddove Sisu (la cui estetica si basa su i serpenti Naga) rivela una scempiaggine che è propria di ogni continente. Il drago, femmina, si trasforma in una donna pazzarella erede del Mushu di Mulan (1998). Cosa non ha funzionato all’interno del film è evidente, la storia procede lenta a tratti si fatica ad aspettare il passaggio da uno step all’altro durante l’evoluzione della storia. Le premesse erano più che interessanti e in qualche modo, restano a fare da sfondo. Come sottolineato dai registi durante la conferenza stampa, al centro della vicenda c’è un tema poco trattato negli altri film di genere l’amicizia al femminile, proponendo dei modelli completamente differenti da quelli proposti dalle sorelle di Frozen, che sfidano il pregiudizio, così troviamo due principesse imperfette che gli fanno da specchio perché rappresentano due caratteri opposti, anche qui una “scema” ma buona, una intelligente e all’apparenza fredda cattiva e distante, ma con tutto un altro mood. Esplosioni colorate, costumi diversi, portano una ventata di positività, laddove ne abbiamo bisogno. 
 
Francesca Tulli
 
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