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EU 2013, L'ultima Frontiera

Giovedì 27 Marzo 2014 21:57
L’Ultima Frontiera è il primo documentario realizzato all’interno dei Centri di Identificazione ed Espulsione italiani. Con le testimonianze di chi è trattenuto là dentro, concedendosi ad interviste e ai racconti delle loro storie e della loro vita fino ad allora, fino a quando sono stati privati della loro identità e rinchiusi nei C.i.e..
Nei Centri di Identificazione ed Espulsione (C.i.e.), ci finiscono in linea generale i cosiddetti clandestini. I clandestini appena sbarcati dalla loro terra, o gli overstayers, rimasti oltre la scadenza del permesso di soggiorno. Molti hanno vissuto e costruito la loro vita in Italia, parlano la lingua e i dialetti della zona che li ospita, ma per la legge italiana non sono regolari.
I C.i.e., promettono un rimpatrio definitivo agli stranieri che non ottengono regolari permessi di soggiorno in Italia. I tempi di identificazione sono lunghissimi, o nella maggior parte dei casi infiniti, la permanenza può arrivare fino a diciotto mesi. Alcuni vengono rimpatriati, ma molti di loro non vengono riconosciuti dal consolato di provenienza, e come “cittadini di nessuno” sono rispediti in Italia e trattenuti nei C.i.e. . 
Il regista Alessio Genovese, ci mostra la questione vista da ambedue le parti: dal lato della legge e dal lato individuale. 
Ad introdurre al reportage, è una nave proveniente dalla Grecia, che approda al porto di Ancona. Le autorità portuali eseguono i regolari controlli di frontiera, ispezionando chiunque scenda sul molo: passeggeri, veicoli, ed eventuali nascondigli o doppifondi.
Nel dipartimento portuale, si spiegano i processi di controllo dei singoli soggetti visti nell’insieme, ribadendo il fatto che chi non ha i presupposti necessari per l’ingresso nello stato italiano, non può accedere liberamente, perché la legge italiana, inseguito all’accordo di Schengen non lo permette.
La prima visita è al C.i.e. di Ponte Galeria, a Roma. C’è silenzio, desolazione e attesa. Ma anche proteste e risse. Sono queste ultime, ad animare le giornate che sembrano non passare mai. Mani appese alle sbarre, di cortili paragonabili a quelli di un carcere, tra le mura crepate, si nota una svastica incisa e sulle pareti varie scritte tra cui tanti nomi. I loro nomi, dimenticati, e non pronunciati, perché là dentro sono solo dei numeri. Non ci sono camere ma dormitori multipli, alcuni con finestre in alto. Ognuno ha pochissimi effetti personali o nulla, aldilà di qualche indumento. 
Nel C.i.e. di Bari, i corridoi ricordano quelli di un grande ospedale. Su ogni porta di ferro c’è una minuscola finestrella di circa 20 centimetri, più simile ad una fessura, che a porte chiuse è il punto di comunicazione con l’esterno, ovvero con gli operanti del settore, c’è chi chiede l’accendino, chi il caffè, chi urla libertà. Hanno orari di uscita prestabiliti, c’è un sensore sonoro e luminoso, che permette di avvisare per un’urgenza o necessità di acqua e farmaci. 
C.i.e. di Milo, Trapani. I lamenti di un uomo steso a terra disperato, richiedono l’intervento di un infermiere. Qualcun’altro chiede di fare la barba, viene accompagnato in una stanza da un uomo che a parer suo ha una situazione più agiata rispetto agli altri, è nel C.i.e. da quattro mesi, si presta come volontario, fa da tramite tra i clandestini (come lui) e le forze dell’ordine, gli hanno appena prorogato altri 60 giorni di permanenza nel C.i.e., con la promessa che al termine otterrà il visto.
Nei C.i.e., hanno tutti le idee molto chiare. Le stesse. Idee sul sistema italiano e sulla vita dell’uomo. Cioè che a pagare è sempre la povera gente, favorendo l’arricchimento dei più ricchi. Una netta linea separa i ricchi dai poveri, i potenti dai deboli, che sono costretti a vivere in condizioni che violano i diritti umani.
La loro voce chiede la possibilità di rifarsi una vita, di trovare un lavoro onesto, e chiede solo un foglio, quel documento che li tiene in bilico. 
 
Francesca Savoia