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Berlinale 2017: i film in concorso

Sabato 21 Gennaio 2017 18:08
Berlinale 2017 ci dà qualche anticipazione su quello che sarà il programma ufficiale rivelandoci i nomi dei film in concorso che parteciperanno alla kermesse dall' 9 al 18 febbraio prossimi. 
Tra gli autori più attesi Aki Kaurismaki e la presenza di Richard Gere, Penelope Cruz e Samuel L. Jackson ma spicca la mancanza di opere italiane nel programma. 
 
 
Ana, mon amour di Călin Peter Netzer (Romania, Germania, Francia)
On the Beach at Night Alone di Hong Sangsoo (Corea del Sud)
Beuys di Andres Veiel (Germania) documentario 
Colo di Teresa Villaverde (Portogallo, Francia)
The Dinner di Oren Moverman (USA)
Django di Etienne Comar (Francia) opera prima
El bar di Álex de la Iglesia (Spagna) – fuori concorso
Félicité di Alain Gomis (Francia, Senegal, Belgio, Germania, Libano)
Final Portrait di Stanley Tucci (UK, Francia) fuori concorso
Have a Nice Day di Liu Jian (Repubblica Popolare Cinese) - animazione 
Helle Nächte di Thomas Arslan (Germania, Norvegia)
Joaquim di Marcelo Gomes (Brasile, Portogallo)
Logan di James Mangold (USA) – fuori concorso 
Mr. Long di Sabu (Giappone, Hong Kong, Taiwan, Germania)
The Party di Sally Potter (UK)
Spoor di Agnieszka Holland (Polonia, Germania, Repubblica Ceca, Svezia, Repubblica Slovacca)
Return to Montauk di Volker Schlöndorff (Francia, Germania, Irlanda)
Sage femme di Martin Provost (Francia, Belgio) fuori concorso 
T2 Trainspotting di Danny Boyle (UK) fuori concorso 
On Body and Soul di Ildikó Enyedi (Ungheria)
The Other Side of Hope di Aki Kaurismäki (Finlandia, Germania)
Una mujer fantástica di Sebastián Lelio (Cile, Usa, Germania, Spagna)
Viceroy’s House di Gurinder Chadha (India, UK) fuori concorso
Wilde Maus di Josef Hader (Austria) – opera prima
 
Il Presidente della Giuria, che succederà a Meryl Streep, sarà il regista, nomination agli Oscar, Paul Verhoeven. 
 
Tra gli autori più attesi spicca il finlandese Aki Kaurismaki, padre del ‘Miracolo a Le Havre’, con un film dalla tematica attualissima incentrata sull’incontro tra un semplice cittadino e un uomo in cerca di asilo. Tra le star spiccano invece Richard Gere, in ‘The Dinner’ di Oren Moverman, Penelope Cruz in ‘La Reina de Espana’ di Fernando Trueba e Samuel L. Jackson in qualità di voce narrante in ‘I am not your negro’. 
 
Maggiori informazioni sul sito www.berlinale.de

POKOT (SPOOR)

Lunedì 27 Febbraio 2017 10:58
La regista e sceneggiatrice Agnieszka Holland (Europa Europa, In Darkness) irrompe nel concorso di Berlino 2017 con il suo nuovo e discusso lavoro. Pokot è un thriller animalista ben diretto, che evidenzia però degli eccessi discutibili. La regista polacca si spinge oltre la normale comprensione dello spettatore e perde la bussola. Visione eccessivamente personale. Una vendetta degli animali che stride, sublimata in un paradiso inverosimile. Di questa parabola pro vegana rimane un’apprezzabile direzione tecnica. Le scene naturalistiche girate in stile documentaristico sono egregiamente mixate con quelle di tensione all’interno della trama. A giovarne è il ritmo della pellicola, che non si addormenta mai, nemmeno nei lenti e ciclici movimenti della natura.
 
In un’innevata località, al confine tra Repubblica Ceca e la Polonia e precisamente nel cuore dei monti Sudeti, l’anziana signora Duszejko (Agnieszka Mandat-Grabka) si prende cura dell’istruzione anglofona dei ragazzi del paese. L’eccentrica donna ama pazzamente l’astrologia e le sue due cagne. Un giorno i suoi cari animali scompaiono. Non riuscendo a darsene pace intraprende una personale investigazione. Duszejko, in villaggio, non è proprio ben vista. La sua battaglia contro i cacciatori della zona è perenne. Il giallo si infittisce quando la stessa donna scopre il corpo senza vita di un vicino. Adesso anche la polizia locale si muove con forza per districare i misteri che stanno travolgendo la cittadina. Le tracce del misfatto riconducono solo a degli zoccoli di capriolo. In questo clima indecifrabile, l’attempata signora ha anche il tempo di interessarsi delle sorti di una coppia di giovani in balia della comunità. 
 
Pokot (Spoor), che tradotto vuol dire “Traccia”, si porta a casa dalla Berlinale il Premio Alfred Bauer per l'innovazione. Scritto dalla stessa Holland e Olga Tokarczuk e tratto dal romanzo “Drive your Plough over the Bones of the dead” (Guida il tuo aratro sulle ossa dei morti), il film presenta degli sbilanciamenti evidenti. Peccato perché il soggetto era molto interessante e corposo. La giusta distanza tra uomo e animale qui non c’è. Punto a sfavore che poi degenera fino ad arrivare ad una visione onirica di un paradiso naturalista troppo lontano dalla realtà. Amorale, borioso ed eticamente discutibile, Pokot e la sua regista sprecano l’occasione per parlare con realismo della Polonia odierna. Nazione che si è chiusa nella propria ricostituzione, lasciando tutte le finestre serrate all’Europa. Il contesto dei monti Sudeti, che ha segnato la nazione tra le due Guerre Mondiali, è il luogo adatto per evidenziare le rivalità all’interno del paese. Ma la deriva, al limite del fondamentalismo, che prende il film, vanifica l’ottimo pretesto per ribellarsi all’attuale governo. 
La Holland, da sempre attenta alle categorizzazioni sociali, nei suoi lavori passati ha dato sempre voce ai diversi, ma ha anche sempre anche spaccato la critica. Qui la storia si ripete. Pokot però va oltre la politica ed il cinema della regista polacca ha un ferreo punto di arresto. Peccato perché la camera da presa la sa usare benissimo, sapendo creare dinamismo, suspense e non dimenticando mai l’intimità dei personaggi.
 
David Siena
 
 
 
 
 
 
 

Final Portrait

Sabato 25 Febbraio 2017 22:00
Parigi, 1964. James Lord (Armie Hammer, The Social Network - 2010), giovane scrittore americano, viene invitato dall’amico Alberto Giacometti (Geoffrey Rush, Il discorso del Re - 2010), a posare per un ritratto. Lusingato dalla proposta dell’artista svizzero/italiano, accetta di buon grado. James, amante dell’arte, si presenta due giorni nel laboratorio del pittore, convinto che bastino per compiere l’opera. Ma non ha fatto i conti con l’animo tormentato dell’autore. Non bastano venti giorni per terminare il dipinto e James è costretto a posticipare il ritorno in patria. Durante queste settimane di continui rifacimenti della tela, lo scrittore vive tutte le contraddizioni che albergano nel cuore di Giacometti. Processi artistici che sono frutto di un pronunciato ascetismo e della ricerca maniacale di una realtà totale. Final Portrait racconta una piccola porzione di vita del grande artista Giacometti (non solo pittore, ma anche scultore). James si presta da Virgilio, accompagnando lo spettatore nei meandri dell’esistenzialismo e del surrealismo di questo indiscusso maestro. Tra le vie di Parigi, nei suoi bar, nei suoi bordelli e tra le mura grigie della casa dello scultore conosciamo anche le sue persone. Figure che incrementano, mitigano e soffocano il suo genio: l’amante Caroline (Clémence Poésy), l’indulgente fratello Diego (Tony Shalhoub) e la moglie Annette (Sylvie Testud).   
 
Final Portrait, in concorso al Festival di Berlino 2017, è scritto e diretto da Stanley Tucci (attore da anni sulla breccia, grazie alla sua spiccata versatilità). La pellicola si basa sul libro di memorie dello scrittore americano James Lord. Spiccatamene teatrale (lo studio di Giacometti è il palcoscenico dove si svolge buona parte dell’opera), Final Portrait è una sorta di biopic, con luci ed ombre. 
 
Le luci, inversamente proporzionali, le troviamo nello studio del grande artista. Lì risiede tutto il concetto e l’arte di Giacometti: nella riuscita scenografia di James Merifield (Le regole del Caos – 2014, Mortdecai – 2015). Il respiro del film, che rispecchia nel totale il maestro, esce grazie al design scelto per descrivere il suo ambiente di lavoro. I muri grigi, le grandi finestre sporcate di pioggia, le tele impolverate, i pennelli ferrigni e l’argento del denaro disseminato a caso, rendono tutto così viscerale e sono in perfetta simbiosi con l’onnipresente sigaretta tra le labbra dello scultore e le sue originali figure allungate. Un grigio perenne e claustrofobico, che inghiotte l’anima e brucia dentro. Nel suo laboratorio troviamo Giacometti, il suo modus operandi tumultuoso, caotico e a tratti disastroso.
 
Le ombre sono evidenti nella sceneggiatura e soprattutto nella regia. Tucci dimostra tecnica, ma poco estro. La sua è una direzione spenta, che si ostina ad inquadrare intimamente senza realmente estrarre dai personaggi. Non troviamo l’uomo Giacometti e solo a sprazzi l’artista. Si perché, il regista si limita ad etichettare e non ad esaltare, candendo nello stereotipo dell’artista bevitore e donnaiolo. L’arte di Alberto Giacometti è molto di più e qui esce solo in parte.            
 
Un film spaccato in due. Quel senso di incompiuto, in realtà non è legato al dipinto di James, ma piuttosto al film, che lascia lo spettatore privo della meraviglia, gridando così all’occasione sprecata. Final portrait non dipinge un quadro memorabile su quella grande tela che è la pellicola cinematografica. Non basta un immenso Geoffrey Rush per salvare la pellicola, dove sono presenti tangibili e visibili imperfezioni. L’attore australiano è come sempre immenso, un genio attoriale ruvido e burbero, che strappa meritati sorrisi e consensi.
 
 
David Siena

Bright Nights

Sabato 25 Febbraio 2017 22:07
Il lunedì è sempre stato e sempre sarà il giorno più odiato della settimana. Ma quando partecipi ad un Festival, il lunedì segna l’inizio della seconda settimana di kermesse. Il film del mattino, che inaugura il giro di boa, ha l’obbligo di rinvigorire il palinsesto e dare quel brio in più per affrontare le numerose pellicole ancora in programma. Quindi, il lunedì da Festival si contrappone con vigore a quello della quotidianità, fa purtroppo eccezione il lunedì della Berlinale 2017, che apre il suo concorso con il deludente Bright nights. Seduti sulle poltrone del cinema quasi quasi rimpiangiamo l’ufficio o l’aula scolastica. Poco coinvolgente ed a tratti tedioso, il film tedesco di Thomas Arslan (Gold – 2013), non lascia traccia. Evidente l’utilizzo di piani sequenza per aumentare la tensione drammatica, ma questi sono fini a se stessi, appesantiscono il film, che invece di rinvigorirsi si svuota. 
 
La storia, decisamente classica, ma sempre appetibile, meritava un risultato finale più consono al Festival di appartenenza. Michael (Georg Friedrich, a Berlino anche con Wild Mouse), che nella vita fa l’ingegnere ed è separato dalla moglie, apprende della morte improvvisa del padre. I funerali avranno luogo in Norvegia, dove il genitore viveva ormai da parecchi anni. A seguirlo in terra scandinava sarà il figlio Luis (Tristan Göbel), che vive con la madre. L’adolescente non ha un buon rapporto con il padre. Michael convince il figlio a restare con lui qualche giorno di più in Norvegia. I due intraprendono un viaggio on the road immersi nella splendida natura di un paese dove non si dorme mai. L’estate regala luce fino a mezzanotte. In questo contesto, molto simbolico, il loro legame si rafforza, senza però prima scontrarsi con decisione. Il bagliore continuo, portatore di pace, aiuta a far luce e chiarezza negli animi del padre e del figlio; un po’ meno nello spettatore, che rimane sbigottito dal minimalismo della trama, dove veramente non succede nulla.
 
Bright Nights, conferma la tendenza del cinema tedesco ad essere estremamente impegnato. Un film che scava, proponendoci silenzi eccessivi. Il suo è un “voluto” andamento muto, fatto di sguardi ed atteggiamenti e di momenti naturali della vita. Una direzione troppo delicata, che trova nelle piccole cose la strada cicatrizzante del rapporto: un tenda in riva ad un lago, una camminata tra gli alberi e un dialogo cinematografico guardando le montagne. Ma questa coerenza narrativa non basta per salvare la pellicola, priva di una vera spina dorsale, con poca carne al fuoco e scarsamente concreta. Nel magma psicologico dei protagonisti ci si addentra, ma non ci si trova mai.  Una narrazione piatta e senza vere svolte rende il film poco invogliante.
 
Bright Nights cerca nella sottrazione il proprio risultato. Purtroppo questo non arriva. Il film rimane perennemente sulla sua linea d’ombra e i raggi di sole non si scorgono neanche in lontananza. Gli attori, ed in primis il protagonista Georg Friedrich, offrono una prova poco carismatica, adagiandosi sulle pochezze dello script. Qui a Berlino si vocifera di un possibile Orso d’Argento come migliore attore proprio per l’attore austriaco. Sarebbe alquanto discutibile, viste le sontuose performance dell’intero cast di The Party della britannica Sally Potter. (su tutti il monster di bravura Timothy Spall).
 
David Siena

Como Nossos Pais

Domenica 26 Febbraio 2017 22:13
Just like our parents, titolo nella versione anglofona, riassume alla perfezione quella che sarà la spina dorsale del film: viviamo influenzati dalla famiglia e nella nostra esistenza, nel bene o nel male, ripercorreremo parte della vita dei nostri genitori. A questo non c’è scampo. Fin da subito il film brasiliano si strappa di dosso i luoghi comuni legati al proprio paese: favelas, povertà, delinquenza e ignoranza, offrendoci una storia diversa, moderna e appassionante. Film tutto in rosa, come il nome della protagonista, che ci porta tra gli alti e i bassi della sua vita borghese, influenzata dal rapporto burrascoso con la madre e il matrimonio in stato di crisi. Tradimenti, scoperte ed una sana innocenza, senza cadere mai nel moralismo, avvicinano molto il film di Laìs Bodanzky alla visione del maestro Pedro Almodovar.
 
La sequenza iniziale ci propone tutta la famiglia di Rosa (Maria Ribeiro) intorno ad una tavola per un assolato pranzo di famiglia. Durante la presentazioni di tutti i personaggi principali, focalizzate in pochi dialoghi che ben identificano le personalità ed i caratteri, la madre Clarice (Clarisse Abujamra) svela uno scabroso segreto a tutti i partecipanti. La destinataria di tutto questo è proprio Rosa. Scopre alla soglia dei quarant’anni di avere un padre diverso da quello che conosce. Clarice aveva tradito il suo compagno durante un viaggio di lavoro. Marito anch’esso poco incline alla fedeltà. Ormai da molto tempo separati, quello che Rosa pensava fosse essere il vero padre ha bisogno del suo supporto quasi giornaliero. Non si nega tuttavia di conoscere l’uomo che realmente l’ha messa al mondo: un politico di successo. Gli sconvolgimenti non cessano, anzi, vengono amplificati dalla notizia che Clarice sta morendo di cancro. Rosa vede davanti a se muri altissimi, cementati con armatura pesante, visto che anche la sua vita privata non va a gonfie vele. Sostiene lei il suo matrimonio e le due figlie, dato che il marito Pedro (Felipe Rocha) ha un lavoro precario. In più, l’ombra di un tradimento da parte del compagno si fa sempre più largo nella sua mente. La tremenda tempesta davanti a se e dentro il suo cuore la metterà alla prova. Su questi esami si basa la narrazione di Como nossos pais, opera impegnata, ma allo stesso tempo delicata, in competizione nella sezione Panorama al Festival di Berlino 2017.
 
La pellicola è scritta con accuratezza dalla stessa regista con l’aiuto di Luiz Bolognesi. Il film non giudica la donna Rosa, ma la segue semplicemente nella sua vita, fatta di salite e discese. Resistente e forte come una nave durante la peggiore delle tempeste. Senza mai perdersi d’animo, giova sia dei dolori che delle gioie. Nel suo andamento prettamente drammatico ci sono dei momenti di ironia e brio, che regalano al film, con arguzia, una sorta di leggerezza, un anima comprensibile e leggibile da tutti. Argomenti trattari con naturalezza senza calcare troppo la mano, senza mai perdere la tensione drammatica.
 
Un viaggio nelle dinamiche della donna moderna: madre, figlia, moglie, amante, sorella e professionista. Oberata di impegni e scelte. Trovare la propria dimensione in una società prettamente maschilista non è facile. Il film riesce a mettere in evidenza quanto la donna abbia una forza sovrumana per far fronte alle battaglie e uscirne vincitrice dalla guerra. E anche quando viene sconfitta non perde mai completamente la dignità del proprio essere, rispetto all’annullamento che molti uomini si procurano. 
 
Como nossos pais ci mostra come sia arduo trovare un punto di equilibrio nell’esistenza. Il film ci prova, non risolvendo l’enigma, ma portandoci dentro ad esso. Forse la vita stessa è qualcosa da risolvere. Siamo sempre in balia degli eventi. Non sappiamo se troverà una distribuzione sul mercato italiano e questo è un peccato perché è un film ben controllato, piacevole e gratificante. 
 
David Siena

The Dinner

Lunedì 20 Febbraio 2017 22:18
Tutti aspettavamo con curiosità The Dinner, ultimo lavoro di Oren Moverman, in concorso qui a Berlino per l’Orso d’Oro. Tratto del best seller omonimo di Herman Koch e secondo adattamento cinematografico dopo il riuscito I nostri ragazzi (2014), del nostro Ivano De Matteo. Come accade di sovente quando le aspettative sono alte, il prodotto non sempre le mantiene. Purtroppo questo The Dinner non fa eccezione. Lo stuzzicante contesto nel quale si svolgono i fatti e vengono sviscerati i ricordi è gestito con un po’ di esteriorità e non usato come valore aggiunto. L’anima del libro è dimenticata e il film risente di una regia monotona e greve, che ci fa rimanere la cena indigesta. 
 
Teatro nel quale si svolgono i fatti è un prestigioso ristorante. Cena organizzata per discutere affari famigliari tra due fratelli con carriere e passati diametralmente opposti, accompagnati dalle mogli. Stan Lohman (Richard Gere) è un famoso politico candidato al ruolo di governatore. Paul Lohman (Steve Coogan) è un insegnante di storia con alle spalle problemi di depressione. Tra loro il rapporto è sempre stato teso, visto che la madre ha sempre preferito Stan, portando così Paul a sentirsi inferiore e di conseguenza a soffrire di insicurezze. Katelyn (Rebecca Hall) e Claire (Laura Linney), la prima moglie di Stan con poca personalità, la seconda invece compagna complice ed affettuosa, assistono all’acceso dialogo dei relativi compagni, contribuendo a raffreddare l’aspro diverbio che divampa come un’incontrollabile falò. I rispettivi figli hanno commesso un atto riprovevole: è questo il piatto forte della cena. Un segreto che mette le due famiglie alla prova. Una sorta di Carnage (2011), peccato che la riuscita del film sia inappagante rispetto all’ottima opera di Roman Polanski. 
 
Moverman, dopo il promettente The Messenger (2009), aveva già dato segno di flessione con Time out of mind (2015); ora prende in mano un egregia base narrativa, dalla quale non riesce ad estrapolarne tutta l’essenza. La sua è una regia monocorde, poco creativa e senza una vera visione. Perde per strada anche l’iniziale sarcasmo; figura retorica che è il fulcro del romanzo. E’ proprio nel non seguire ed assecondare il senso del racconto il difetto più evidente di The Dinner e di conseguenza le riflessioni morali ed etiche riescono solo in parte a farsi largo. I personaggi dovrebbero fingere di essere quello che realmente non sono, ma qui non succede. Anche le prove attoriali dell’intero cast risultano sottotono. Certamente l’estrema verbosità dei dialoghi non aiuta, ma la quota d’espressione è decisamente grigia.
La pellicola è divisa in sequenze come se fossero parti di un menù. Le portate, presentate simpaticamente dal capo del servizio, cercano di sdrammatizzare il tutto, ma anche queste non riescono nello scopo di far uscire il film dalla spirale del pesante. Pietanze che rimangono sullo stomaco allo spettatore, complici anche i flashback (troppi), che non aiutano ad uscire da un climax troppo carico e gravoso. 
Manca chiarezza ed anche noi come i protagonisti non usciamo dall’oscurità, anzi ci perdiamo irrimediabilmente in domande senza risposta. 
 
The Dinner cerca di mostrarci, e questo in parte lo fa, quello che si cela dietro alle società perbene dell’intero pianeta: una finta unità che nasconde ancora profondi odi razziali. Un’unione solo di facciata, perché le divisioni ci sono e sono riscontrabili nei fatti di cronaca nera. Povertà di condotta in mondo che si sente unito solo dai social network. Almeno quest’ultima riflessione ci rende la parte finale del pasto meno amara, un dolce digestivo, che suo malgrado non riesce a smaltire un’ottima materia prima dosata male.
 
David Siena
 

The Party

Lunedì 27 Febbraio 2017 22:27
The Party porta brio e caffeina nel grigio e spento Febbraio berlinese. Dopo una serie di deludenti film in concorso, questa black comedy girata in bianco e nero, della durata esigua di 71 minuti, risulta essere l’opera più interessante. Sferzante e tagliente al punto giusto, ci sveglia dai nostri sonni sulle poltrone del Berlinale Palast. Perché il film diretto e scritto dalla britannica Sally Potter maschera per poi rivelare, con un ritorno al punto di partenza disseminato di segreti che vengono a galla, che scioccano e divertono all’ennesima potenza. 
 
Il film si apre col botto per poi rilassarsi. Il luogo della festa/cena è la casa di Janet (Kristin Scott Thomas) e Bill (Timothy Spall). La coppia riunisce gli amici più cari per festeggiare una vittoria politica. I primi ospiti ad arrivare sono April (Patricia Clarkson) e Gottfried (Bruno Ganz). Acidissima lei e aroma-terapista lui. Da subito si capisce che Bill ha qualche problema, indifferente alla parole di Gottfried, si posiziona al centro della stanza intenzionato a bere fino ad ubriacarsi e ad ascoltare musica mista proveniente dal suo adorato vinile. Le donne sparlano a più non posso quando vengono disturbate dal suono del campanello: sono arrivate Martha (Cherry Jones) e Jinny (Emily Mortimer), lesbiche in attesa di ben 3 figli. Il loro arrivo alza l’asticella dell’inquietudine. L’ansia si fa largo tra i commensali, esplodendo copiosa quando fa il suo ingresso in scena Tom (Cillian Murphy). Sarà quest’ultimo che accenderà la miccia della bomba che nessuno vorrebbe far dipanare, ma che tutti sanno essere pronta alla detonazione. La frenesia e l’irrequietezza di Tom, facile alla cocaina, portano dritti alla rivoltella che tiene nascosta sotto la giacca e da qui in poi vi lasciamo il piacere di scoprire con i vostri occhi il circus che ne divamperà.
 
Maldestramente escluso dai premi della Berlinale edizione 67, The “theatrical” Party, non solo The Party, perché abbiamo a che fare con il teatro che incontra il cinema, è un film con tanta forma e sostanza. Un grande conflitto borghese in un piccolissimo spazio, quattro mura che uccidono e divertono allo stesso tempo. Sally Potter ci regala dialoghi frizzanti al vetriolo ed una regia robusta e omogena. Chiusi in un salotto, dove non proviamo claustrofobia, libera l’estro dei protagonisti, che offrono prove attoriali di assoluto livello. L’autrice inglese ci offre un film che potrebbe gridare al déjà vu. Con mano graffiante riesce a scardinare gli stereotipi ad esso legati, attualizzandolo e portandolo da film da camera a film con vista sul mondo, focalizzandosi sulle sue mode ed ideali. Lo spettatore è su un’altalena: si alternano tragedia e humor, rendendo così The Party godibile e per nulla banale. L’ascesa dei personaggi, che fanno in mille pezzi la proprie maschere, è travolgente e schizzata. Nevrosi che esplodono in un salotto, nel quale si sentirebbe a suo agio anche Woody Allen. 
 
Con un azzeccato bianco e nero, omaggio a Hitchcock ed al cinema noir, le espressioni sui volti assumono sfumature diverse, più marcate e di conseguenza il messaggio arriva forte e chiaro.  Il film della Potter è la realizzazione dell’incubo di Perfetti Sconosciuti. Innovativo ed in parte assimilabile all’egocentrico Birdman, The Party è la fiera della mezza età e delle sue frustrazioni. Si battagliano: gli oggettivi contro gli spirituali e gli indifferenti in lotta con i concettuali. Questo loro farsi male per davvero è la cosa che funziona di più.
 
La regista di Orlando (1992) sceglie l’anno della Brexit per l’uscita del suo The Party. Sarà un caso? Il dilemma: restare (amare che fa rima con fedeltà) o uscire (tradire), calza veramente a pennello. 
 
 
David Siena

Figlia Mia

Giovedì 22 Febbraio 2018 10:16
Probabilmente il significato caldo e profondo di Figlia mia sta tutto nel ritornello di una canzone vintage di Gianni Bella: Questo amore non si tocca. Il brano è lo spartiacque che divide il film in due sezioni ben distinte: la prima parte narrativamente lenta e dove si pianificano scaltramente degli obiettivi, la seconda parte più vivace ed emotivamente carica, Nel centro c’è la performance canora. E’ questa la granata esplosiva che scuote il viaggio in solitudine di due madri, che si contendono una figlia innocente a suon di ripicche e colpi bassi. Figlia mia è un’opera solare, ma allo stesso tempo piena di ombre, di antri oscuri e di cunicoli infiniti, dove è meglio abbandonare per sempre quel senso di possesso, che inibisce il significato stesso di madre ed imprigiona la prole in un loop depressivo e non edificante. Amore non è dominare e Laura Bispuri, per la seconda volta in concorso al Festival di Berlino dopo l’intenso Vergine Giurata (2015), ci regala una parabola arcaica e fisica, che cerca di sconfiggere questo sentimento scorretto.
 
Nello scheletrico e spigoloso paesaggio della Sardegna assistiamo ad un’accesa diatriba tra due donne allo stesso tempo complici e rivali: Tina (Valeria Golino) ed Angelica (Alba Rohrwacher). Due madri che hanno come soggetto la piccola Vittoria (Sara Casu), di soli 10 anni. La prima è una madre modello, sempre pronta a soddisfare i bisogni della figlia, annullando addirittura il suo essere donna. La seconda (madre naturale), di contraltare all’acqua santa, è il diavolo. Essere debole che non tiene alla propria vita, data perennemente in pasto all’uomo. Vittoria, alla nascita, viene data in affidamento a Tina. L’accordo, solo verbale, viene spezzato quando Angelica sente il richiamo forte di una repressa maternità. La ragazzina è contesa tra le due madri, che adesso, non volutamente, arrivano anche a ribaltare i propri ruoli. Vittoria vivrà momenti dubbiosi ed incerti, che gli faranno percorrere una strada irta e tortuosa nel raggiungimento di un traguardo inaspettato, che gli cambierà per sempre la vita.    
 
I presupposti per uscire dalla kermesse tedesca con qualche premio c’erano tutti, peccato per le due interpreti principali, Golino e Rohrwacher, la loro prova attoriale è profondamente drammatica quanto il vero tormento di queste madri. Purtroppo il film esce a mani vuote dalla Berlinale edizione 68, dove avrebbe potuto strappare un premio ex-equo come Miglior Attrice.
 
Laura Bispuri dirige con mano autarchica. La sua macchina da presa segue maniacalmente le tre protagoniste per buona parte del film. Questa caparbietà ed intimità scova l’essenza primitiva delle 2 madri, donne difficoltose che perdono parte di se stesse per stare con la figlia. Questo scavo è il cuore della drammaturgia, dal quale ne conseguirà la crescita dei personaggi. Percepiamo il loro spogliarsi delle troppe stratificazioni, culminando, grazie a Vittoria, in un rinnovamento difficoltoso, ma necessario. 
Pellicola esclusivamente al femminile, in un film dove l’uomo conta meno di zero. Il marito di Tina è un salmone, che non va neppure controcorrente. 
Figlia mia a conti fatti è un film riuscito e consapevole. Pregevole è anche non calcare sul moralismo, visto giustamente, che quello non vuole essere il centro focale del film. Piccole sbavature sono evidenziabili in qualche forzatura e nell’eccessivo uso di simbolismi. E’ il classico film che può essere commentato nel più comune dei cineforum. Quest’ultima affermazione non vuol essere al negativo, anzi è sinonimo di nascita di riflessione e commenti: indagare sul significato di maternità.
 
I figli sono di chi li fa o di chi li cresce? Qui sicuramente di entrambe. E Vittoria in un trepidante finale (che vive con pathos anche lo spettatore) si eleva anche lei a madre, consapevole di poter crescere un passo alla volta e ci dice senza fronzoli: togliamoci di dosso gli abiti vecchi e logori di tristezza e guardiamo avanti, ripuliti e perché no sorridenti. Il percorso è appena cominciato, ma il vigore e la tenerezza di quest’ultima scena danno già l’idea di una rinascita alla portata delle tre donne. Si perché ora Vittoria è donna.
 
Di David Siena
 

3 Days in Quiberon

Domenica 25 Febbraio 2018 12:21
Francia, Bretagna, 1981 ed esattamente Quiberon. Un nostalgico bianco e nero ci introduce nel film scritto e diretto dalla regista tedesca Emily Atef, che porta sullo schermo l’ultima amara intervista all’attrice Romy Schneider. In concorso alla Berlinale edizione 68, 3 days in Quiberon è un riflettore puntato sull’iconica principessa Sissi, vista attraverso lo sguardo di amici e di un giornalista detrattore. La bicromia usata mette in risalto i chiari scuri della donna, riagganciandosi fedelmente al reportage fotografico scattato in una spa durante la sua disintossicazione dall’alcol. Il book di foto fu realizzato da Robert Lebeck (Charly Hübner) e l’intervista “manipolata” fu opera del giornalista Stern Michael Jürgs (Robert Gwisdek). Nella lussuosa struttura era presente anche l’amica di sempre Hilde Fritsch (Birgit Minichmayr); una via di fuga per Romy, che con lei al suo fianco riuscì a limitare le sincere risposte, che invece si aspettava l’agguerrito reporter. In questi 3 giorni l’attrice ritrovò un po’ se stessa, ma i demoni che l’affliggevano la portarono, di lì a poco, verso una deriva di autodistruzione senza ritorno. Romy perse la vita un anno dopo gli avvenimenti descritti in questo film, nel Maggio del 1982, all’età di 44 anni. Tra le sue opere più memorabili, oltre ad essere la principessa per antonomasia, ricordiamo: L’enfer (1964), L’importante è amare (1975) e la Morte in diretta (1980).
 
Emily Atef confeziona un vero omaggio a Romy Schneider. La sua è un’opera delicata. Un ritratto intimo, lontano dai riflettori. Non si limita a mettere in scena lo sfavillio dell’attrice, ma evidenzia anche il tormento, la depressione e l’ansia che la affliggono. Lo fa con eleganza e garbo. Con la stessa sensibilità che contraddistingue la donna Schneider. Egregia la performance di Marie Baumer (Il falsario - Operazione Bernhard), che dà voce e corpo alla splendida Romy. La sua è un’interpretazione intensa ed allo stesso tempo raffinata.
 
Lo sguardo della regista gira intorno al carisma e allo splendore della protagonista. Ne mette in risalto il fascino in contrapposizione con il male che la sconfigge internamente. Tutte le inquadrature hanno un significato ben definito e non lasciano nulla al caso. Immortalate nella splendido contrasto tra i due colori del bene e del male.
Non ci sono particolari novità stilistiche. E anche se i cliché sono presenti nella narrazione, tanto quanto la grazia infinita dell’attrice austriaca, il film non perde mai mordente. La sua schietta linearità non è un difetto, ma anzi, è la maniera migliore per entrare nelle pieghe di un racconto breve ma intenso, che punta alla sincerità, tralasciando giustamente orpelli visionari e prese di posizione. Descrizione spietata di un dolore finito in tragedia di lì a poco, dove la bella muore per mano della bestia (interiore). Ingiustamente. Il ricordo è franco e leale. La regista restituisce ai noi osservatori una donna reale con un mezzo di finzione, dove quest’ultima falsità si spera possa non finire mai. L’immortalità della bellezza è descritta con amabilità e morbidezza.
 
David Siena
 

Black 47

Sabato 24 Febbraio 2018 12:29
Black 47 racconta, senza tanti fronzoli, della “Grande fame” che attanagliò l’Irlanda a metà del diciannovesimo secolo. La terra del trifoglio è stata sfruttata nei secoli soprattutto dalla tirannia britannica, che nel 1847 (anno che dà il titolo al film), contribuii con brutale vigore a rendere quell’anno uno tra i più neri della storia irlandese. Le vicende della pellicola diretta da Lance Daly sono focalizzate sull’inverno, il periodo più rigido, dove la drammaticità degli eventi tocca il suo apice. Stagione in cui fa il suo ritorno a Connemare il soldato Michael Feeney (James Frecheville). Il reduce, che si è fatto valere in difesa dell’esercito inglese, non vede l’ora di riabbracciare la sua famiglia. Ma a casa lo aspetta una brutta sorpresa. I suoi cari, la madre ed il fratello, sono periti in situazioni misere. E anche la moglie Ellie (Sarah Greene) ed i figli sono in condizioni disperate. Di lì a poco non avranno più un tetto sotto il quale proteggersi, in quanto cacciati dalla proprio baracca, moriranno assiderati senza alcuna pietà. Ora il sogno di Fenney, portare la sua famiglia in America alla ricerca di benessere, si infrange contro la Union Jack, che ha difeso con onore. In questo clima rabbioso, dove non solo la sua famiglia è scomparsa, ma anche tutto il suo popolo arranca gravemente (morirono un milione di irlandesi), Fenney impugna una violenta vendetta senza esclusione di colpi contro gli usurpatori inglesi. Ne nasce un revenge movie in salsa western, con luci ed ombre, che ha il pregio di sviscerare una storia mai raccontata. Black 47 è anche un viaggio nella coscienza di Hannah (Hugo Weaving), mutevole carnefice che riflette sull’importanza di chiamarsi uomo in difesa del giusto, nel suo significato più profondo.
 
Irlandese fino al midollo (in parte in lingua gaelica), il film del regista Lance Daly, presentato fuori concorso al Festival di Berlino 2018, ha nel suo DNA il coraggio di Braveheart e la sete di punizione del Giustiziere della notte. A parte la storia inedita, il resto è già tutto visto. Rimane comunque un discreto lavoro, che alterna fasi da film televisivo a momenti più dinamici (seconda parte) e indiscutibilmente più riusciti. Qui la regia esce dal proprio imbambolamento e regala una drammaticità più vera e genuina. Scene contraddistinte dalla ribellione, ritmate e dalla forte intensità che scuotono e ravvivano l’appeal verso il film, indirizzando così la drammaturgia in acque ad essa più famigliari. Anche il finale aperto, con una più ampia visione sulle intenzioni, riesce a conferire alla pellicola un inaspettato valore aggiunto. Peccato che in precedenza l’autore cada nella trappola manierista di mettere in vetrina la morte di Ellie con il figlioletto in braccio come se fosse la marmorea Pietà di Michelangelo. Sentiero virtuoso troppo fine a se stesso. 
 
Da segnalare un’ottima fotografia che esalta gli splendidi paesaggi irlandesi. Le luce desaturata si accomoda perfettamente anche al senso di povertà, che impera in tutto il film. Anche il casting è azzeccato. Il volto assente di James Frecheville e il suo ferreo mutismo conferiscono a Fenney l’appropriato grado di drammaticità. Rabbia e amarezza non potevano trovare miglior modo di esprimersi. Anche la trasformazione e la consapevolezza del cattivo Hannah, intensamente incarnate da Hugo Weaving, fanno fare un saltino di qualità al film.
Comparsate che lasciano un’impronta deboluccia sono quelle di due stimati attori come: Jim Broadbent e Stephen Rea.
 
In Black 47 la strada della giustizia era un sentiero sconnesso ed oscuro, l’unica via d’uscita si chiamava America.  
 
David Siena
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