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Visualizza articoli per tag: Gran Premio della Giuria

Grazie a Dio

Martedì 12 Febbraio 2019 16:28
Una delle ultime esternazioni, da parte di un difensore delle Chiesa durante una conferenza stampa, che con quello che pronuncia fa più male che bene al mondo ecclesiastico, è: “Grazie a Dio è andata in prescrizione l’accusa verso padre Bernard Preynat”. Accusa pesantissima: pedofilia. Ed è proprio da Grâce à Dieu, il titolo del film, che il suo regista François Ozon vuole scuotere e provocare. Denunciare senza tanti fronzoli le malefatte di una figura paterna, che dovrebbe proteggere non distruggere. 
Grâce à Dieu non concede nessun alibi alla Chiesa, anzi gli va contro come un fiume in piena, senza diritto di replica. Nella diocesi di Lione le tre, ma anche tante altre, vite spezzate dagli abusi del parroco Preyant (Bernard Verley), vengono raccontate con l’uso di e-mail, che sono il mezzo per far venire a galla gli abomini commessi dal prete. Lettere che fungono da voci fuori campo, che raccontano senza troppi filtri le atrocità subite dai bimbi.
 
Non solo diretto, ma anche scritto dal regista francese François Ozon, il film, che si discosta parecchio dal cinema del regista parigino, è in concorso alla Berlinale 69 e si porta a casa il secondo premio: l’Orso d’Argento - Gran Premio della Giuria. Alla Berlinale del 2009 portò invece un film diametralmente opposto: la fiaba Ricky - Una storia d'amore e libertà.
 
Come già anticipato in precedenza questa storia realmente accaduta si concentra sugli abusi subiti da Alexandre (Melvil Poupaud) negli anni 80 a cavallo con i 90. Alexandre ora è padre di famiglia, con ben 5 figli. La sua vita ha preso una strada di soddisfazioni, ma quando scopre che Padre Preynat è tornato nella diocesi di Lione e che lavora sempre a stretto contatto con i più piccoli, la sua rabbia scoppia e intraprende una lotta senza esclusioni di colpi contro le figure apicali della Chiesa, che chiudono gli occhi davanti ai crimini di Padre Preynat. Al suo fianco François (Denis Ménochet) e Emmanuel (Swann Arlaud) non mollano un colpo e vanno diritti verso l’obiettivo comune: fermare e punire l’uomo che gli ha portato via l’innocenza. 
 
Ozon si affida al romanzo epistolare per mettere in scena la sua opera. La narrazione non è diretta, ma è improntata su scambi di e-mail. L’evoluzione degli avvenimenti nasce dalle lettere scritte dai personaggi principali. Le e-mail forniscono tutti i dati e danno la sostanza che porta avanti la storia. Attraverso questi scambi comunicativi Ozon riesce a caratterizzare i suoi personaggi compreso l’ambiente in cui vivono, riuscendo così a presentare al pubblico una situazione oggettiva, che non lascia nulla al caso. Il regista è il collante tra le missive. Il suo linguaggio cinematografico è al servizio dell’utente. Una sceneggiatura originale ed asciutta riesce ad infondere al film una carica emotiva non indifferente. Denunce che fanno scaturire altre denunce. Un susseguirsi di aperture di scatole che portano davanti alla scatola più grande, chiusa col cemento dell’omertà.
 
Il film ricorda il premio Oscar Spotlight. Questo perlopiù investigativo, qui invece si dà più voce alle vittime ed il progetto riesce appieno. Ottime anche le prove attoriali di tutto il cast. Si crea la cosiddetta comunità riparatrice. Gruppo di sconosciuti che hanno in comune un male atroce, che tra di loro riescono a lenire. Una prova corale sentita e convincente. Il film ha l’unico vero difetto nella lunghezza, qualcosa si poteva tagliare. 
 
Grâce à Dieu è un film di attualità, che entra prepotentemente nel sociale e che mette in risalto i problemi della chiesa, sempre meno portatrice di fiducia. Questo si evince in quanto Padre Preyant, allo stato attuale, è ancora in libertà pur essendo accusato da più di settanta persone. Chissà se Papa Francesco, che proprio questa settimana presenzierà ad un summit sulla pedofilia in Vaticano, riuscirà a dare la giusta inversione di marcia ad una comunità ecclesiastica davvero discutibile e che non sembra dare il giusto esempio.
 
David Siena

L'Ufficiale e la Spia

Mercoledì 20 Novembre 2019 10:31

J’accuse di Roman Polański è stato oggetto di una rovente discussione prima dell’inizio della competizione veneziana. Il film del regista polacco, per la presidente di Giuria Lucrecia Martel, non avrebbe dovuto competere nel concorso ufficiale, che assegna i premi della kermesse. Invece, il direttore della Mostra Alberto Barbera, si è schierato a favore dell’artista Polański, non giudicando l’uomo, sul quale pende ancora un’accusa di molestie sessuali. Sta di fatto che l’opera presentata al Lido aveva tutte le carte in tavola per ricevere un premio, e questo gli è stato assegnato: il Leone d’Argento – Gran Premio della Giuria. Lucrecia Martel sperava che il regista avesse girato un altro “Pirati” (1986) o un’altra “Nona Porta” (1999); in questo caso non avrebbe avuto problemi a escluderlo dal palmares. Invece, obbligata o meno, ha dovuto far dietrofront e dare un Leone di prestigio al film. Comunque, a parte la polemica, J’accuse è un film interessante, sicuramente non qualcosa di indimenticabile, ma una spy-story confezionata con precisione e con una messa in scena impeccabile.

L’ufficiale e la spia, titolo italiano, tratta del caso Dreyfus, capitano in forza all’esercito francese. Reo di aver passato informazioni strategiche ai nemici tedeschi. Ma la sua colpevolezza è solo una questione di razza, essendo il soldato di origine ebraica. Siamo esattamente nell’anno 1894 quando delle lettere compromettenti vengono intercettate ed attribuite al povero Dreyfus (Louis Garrel). Tutta l’intelligence francese, compreso il neo capitano Picquart (Jean Dujardin), non hanno dubbi: l’ex capitano deve scontare una pena durissima nella fantomatica Isola del Diavolo. La sua vita deve finire in quella cella sperduta in mezzo all’oceano. Ma Picquart scopre i magheggi politici, che hanno portato all’ingiusta carcerazione di Dreyfus. Eticamente corretto il capitano intraprende una battaglia lunga 12 anni (Dreyfus verrà prosciolto solo nel 1906), che lo porterà a scoprire la verità. In questo viaggio anch’egli troverà grandi ostacoli,che influenzeranno negativamente la sua esistenza. Ma quando entra in gioco il famoso scrittore democratico Emile Zola (François Damiens), con la sua lettera indirizzata al Presidente della Repubblica, scritto focoso che riprende per l’appunto il titolo del film “J’accuse”, l’opinione pubblica vacilla e con essa anche le più alte cariche istituzionali. Dapprima tutto sembra un fuoco di paglia, ma con l’andare degli anni le prove di colpevolezza di Dreyfus cadono come il più instabile dei castelli di carte.

Polański si affida ancora una volta al fidato amico e scrittore Robert Harris, autore del romanzo storico (2013), che ha come protagonista il malcapitato Dreyfus. I due avevano già scritto insieme la sceneggiatura di “L’uomo nell’ombra” nel 2010. Il film qui a Venezia ha ricevuto anche il premio Fipresci dalla federazione internazionale della stampa cinematografica.

Nel trafiletto pubblicato su Facebook, subito dopo la visione del film, abbiamo affermato che J’accuse è un film legato indissolubilmente al suo autore: un opera estremamente autoreferenziale. E’ anche vero che nel cinema di Polański poco non è autoreferenziale, ma non abbiamo potuto esimerci di costatarlo per l’ennesima volta. Qui il legame con il suo protagonista ghettizzato è veramente forte ed ancora ferocemente attuale. E anche qui come in passato troviamo tutte le sue ossessioni. La paura di essere costretto a rimanere in un luogo chiuso: la prigione sull’isola del Diavolo né è la testimonianza. Il timore profondo per l’acqua, che circonda irrimediabilmente la prigionia di Dreyfus. L’uomo Polański è così un’isola, tagliato fuori dal mondo. E’ uomo sotto costante accusa.

Ritroviamo nell’Ufficiale e la Spia anche quel senso spiccato per la chiusura degli avvenimenti presentati, che sublima con il ritorno alla libertà di Dreyfus. E non possiamo dimenticare certe scene prettamente teatrali, fotografate con spessore da Paweł Edelman. Le inquadrature sembrano quadri con un focus chiaro e pulito all’interno di stanze buie, colme di corruzione. La luce è la protagonista per poter fare la giusta chiarezza sugli avvenimenti.

Dal punto di vista registico c’è poco da dire, nel senso positivo del termine. La direzione è formale, compatta, meticolosa e un filo didascalica. Ed l’unico inciampo da parte del regista, che realizza un film tecnicamente perfetto, ma forse poco empatizzante per il pubblico. La macchina da presa è usata con attenzione nel mettere in risalto la cattiveria. L’energia e l’intensità che viene messa in scena per svilire e denigrare il personaggio pubblico Dreyfus, ma anche l’uomo, è possente (la scena dove gli vengono tolti i gradi in una pubblica piazza né è l’esempio lampante). I tempi sono dilatati. La verità va ricercata con scrupolo e dedizione, nulla va lasciato al caso.

J’accuse è un film contro l’antisemitismo, per un mondo che si dimentica troppo velocemente della storia e dei processi che ha subito. In Italia uscirà il 21 Novembre. Nel suo incedere con l’inchiesta si avvicina ad uno Spotlight del 900.

David Siena