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Ghostbusters: Legacy

Mercoledì 17 Novembre 2021 13:20
Sarà capitato anche a voi di essere “disturbati da strani rumori nel pieno della notte” o di aver provato “un senso di terrore in cantina o in soffitta” una generazione di persone cresciute con il classico film del 1984 di Ivan Reitman saprebbe sicuramente chi “chiamare” per risolvere il problema. Ghostbusters (Acchiappafantasmi) è un rarissimo caso in cui funzionò il connubio tra la comicità demenziale e una storia con elementi soprannaturali di livello. Con un secondo capitolo fatto a pochi anni di distanza (1989, Ghostbusters II) che divenne iconico (grazie al quadro di “Vigo il flagello di Carpazia”) il film divenne quello che oggi chiameremo un “franchise” correlato a tre serie animate e da videogiochi che contribuirono a mantenere vivo il mito. Sorpassando il flop della rilettura al femminile  “Ghostbusters: Answer the Call” del 2016 la sua reale “eredità” vive in Ghostbusters: Legacy” (conosciuto anche come “Ghostbusters: Afterlife”) di Jason Reitman, figlio del regista del primo film, rispettoso dell’originale e al passo con i tempi. Completamente al verde Callie (Carrie Coon) madre single di due figli, la geniale nerd occhialuta Phoebe (Mckenna Grace) e lo sfigato adolescente Trevor (Finn Wolfhard), decide di trasferirsi con la famiglia nella casa ereditata dal nonno mai conosciuto. Un maniero polveroso a Summerville in Oklahoma. Mentre Trevor si invaghisce della cameriera del Drive In, Lucky (Celeste O’Connor) e fallisce nel tentativo di stringere un legame con lei, Phoebe fa amicizia con un ragazzino (Logan Kim) che si fa solo chiamare Podcast per via della sua fissazione per i social networks. Il bel professore della classe di Phoebe Mr. Grooberson (Paul Rudd)  non è solo un pessimo esempio per i suoi ragazzi ma anche un esperto sismologo. Strani fenomeni si verificano in quella cittadina, la terra trema senza apparente motivo e si narrano leggende su “Zappaterra” il nonno dei ragazzi. I protagonisti diventano investigatori. Il film non possidente l'angosciosa inquietudine del remake di IT (2017) né la tristezza velata della  serie “Stranger Things” (2016) eppure ricorda entrambi (anche per la presenza di Finn Wolfhard che sembra aver fatto un balzo generazionale all'indietro, sempre negli “80). La storia procede ad un ritmo lento, con battute superate, comicità esasperata, noia, tinte horror da Piccoli Brividi (la serie di libri per ragazzi del 1992) che aggiungono pesantezza discostandosi dalla ricetta originale di risate e misticismo che teneva in equilibrio il primo non replicabile film. Eppure mantiene una promessa. Alla fine lo spettatore viene premiato. Si “ritorna al passato”: i ragazzi protagonisti giocano con le trappole, con gli zaini protonici, guidano la Ecto-01 la mitica Cadillac piena di gadgets assurdi e quando si ritrovano a spolverare quello che gli è stato “lasciato” come avvenne in Jurassic World (2015, la scena è speculare) ne fanno buon uso. Rivive la leggenda del “dio Gozar il Gozariano” e delle due creature che ne permettono la venuta sulla terra il Mastro di chiavi e il Guardiano di porta, mossi (goffamente) dalla CGI ma realizzati come animatroni con le tecniche tradizionali. Chiamatelo pure “effetto nostalgia” citazionismo, risultato di una ponderata e mutevole operazione di convincimento durato anni per “costringere” affettuosamente Bill Murray ad impugnare gli strumenti del mestiere, chiunque abbia “chiamato” gli Acchiappafantasmi a risolvere gli strani fenomeni nel vicinato e abbia guardato oltre gli occhiali spessi della protagonista con sospetto, esce commosso, davanti  allo scontro finale. Come se alla fine tutti fossimo portati a fare nostro il motto: “Siamo pronti a credere in voi”.
 
Francesca Tulli