Conclusa la ‘Strana Guerra”, tra il 26 maggio e il 3 giugno del 1940, le forze tedesche della Wehrmacht spazzarono via il corpo di spedizione inglese e le forze stanziali francesi, durante la battaglia di Dunkerque. Costretti ad una ritirata strategica, 400.000 uomini, vennero miracolosamente salvati. Quello che il regista Cristopher Nolan ha voluto farci conoscere (e ‘patire’) è la pena di questi soldati. Attraverso un accurato studio della storia recente, per oltre venticinque anni ha perpetuato una ricerca che lo ha portato a ‘Dunkirk’ la sua ultima encomiabile fatica. Tommy (Fionn Whitehead) giovane valoroso della British Army, costretto a fuggire da ogni situazione in attesa del “miracolo”, si ritrova ad allearsi con Gibson (Aneurin Barnard) coetaneo superstite a cui sembra toccata la stessa sorte. Condividendo una terribile corsa contro il tempo per assicurarsi un posto sulla nave ospedale, portano in salvo un altro commilitone Alex (Harry Styles) e con lui continuano questo viaggio disperato. L’anziano sognatore Mr. Dawson (Mark Rylance premio Oscar 2016), suo figlio Peter e un altro bambino suo amico,George, rispondono alla chiamata della Royal Navy e con la loro piccola imbarcazione civile, si spostano in mare aperto per aiutare i soldati a tornare in patria. Contro ogni pronostico, l’imbarcazione destinata alla deriva, porta il suo contributo verso un destino inaspettato. Il comandante Bolton (Kenneth Baranagh) e il suo secondo il Colonnello Winnant (James D’Arcy) coordinano i soccorsi da lontano, sperando nella buona riuscita dei piani di Churchill. Così come per terra e per mare si continua a lottare, in cielo, come avvoltoi su di una preda, tre Spitfire soccorritori Farrier (Tom Hardy), Collins (Jack Lowden) e il loro caposquadra (Cillian Murphy) volano senza tregua, nel mirino dei caccia tedeschi. Uno scenario su tre fronti diversi, tre linee temporali distinte (e a tratti confuse), la prima della durata di una settimana, la seconda di un mese, la terza di un’ora, concentrati in 106 minuti di pellicola. La matassa si sbriglia faticosamente, con l'increscevole ansia che l’accompagna. A fare da anestetico le splendide musiche di Hans Zimmer, balsamo per le orecchie, e gli incredibili effetti sonori. Degli Spitfire, a distanza di giorni, si possono udire gli spari al solo rievocare l’esperienza audiovisiva (si aprono scommesse sulla quantità di premi tecnici che questo film vincerà agli Oscar). La ricostruzione degli scenari è visivamente ineccepibile, considerando che è stato girato nella vera Dunkuerqe e solo in parte negli studi di Los Angeles. La forza visiva delle immagini soffoca la sceneggiatura tanto che il regista aveva perfino pensato di farne a meno, dissuaso poi in seconda battuta. Schiacciati dal peso della coscienza, con la sola colpa di essere vivi, i protagonisti quasi “anonimi” (o meglio “ignoti”) ci portano ad una riflessione più quotidiana sull’effettiva importanza dell’essere vivi. Come “Inception” (2010), strutturato a scatole cinesi, sfrutta l’autenticità del dramma per colpire il nostro immaginario. Estenuante e faticoso, come la guerra che racconta.
Francesca Tulli