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05 Ott

Blade Runner 2049

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Denis Villeneuve, dopo Arrival, firma il suo secondo lavoro di fantascienza, opera che nasce come sequel del primo Blade Runner, l'originale del 1982. Conscio della spinosa impresa alla quale è chiamato, Villeneuve ci tiene in un certo modo ad affrancarsi precisando, in un messaggio per il pubblico prima della visione, di non giudicare il film sulla scorta di preconcetti quanto di immergerci nell'esperienza cercando di lasciar cadere il maggior numero di filtri possibile.
Ed è così che sembra più utile approcciarsi a questo tipo di operazione, perché è scontato dire che cimentarsi nell'impresa di reinterpretare uno dei capisaldi della storia del cinema è qualcosa di assai arduo e si rischia di perdere in partenza.
Purtroppo il confronto scatta automatico ma il target considerato sembra anche quello delle più moderne generazioni di spettatori che non hanno avuto l'occasione di vedere il precedente o di leggere il romanzo di Philip K. Dick. 
Anche se muniti delle migliori intenzioni, l'opera non ne esce bene risultando abbastanza asettica, incasellandosi perfettamente sulla lunghezza d'onda di un qualsiasi film poco riuscito di supereroi tutto effetti grafici, sfarzose scenografie e molto poco cuore. Il tempo, estremamente lungo, della visione è spezzato da scene molto cariche e dense di immagini, luci, suoni, colori. Villeneuve, supportato dalla fotografia di Roger Deakins e avvalendosi anche di un immenso lavoro di scenografia, dà il meglio di sè sul registro visivo caratterizzandolo con i suoi specifici codici. Superficialmente toccante, in paesaggi sconfinati, desertici, postapocalittici, rimbalzanti da crude e scarne distese di sabbia con cieli seppiati postatomici a interni sfarzosi di metropoli, ormai distrutte e deprivate di un'anima che si agita stretta in automi dominanti e controllori, censori, usurpatori. 
Le ambientazioni e tutto ciò che le concerne è reso alla perfezione pescando un po' qui un po' là da tutta la fantascienza che il cinema rievoca da quell'originale dei primi anni ottanta nei quasi quattro decenni successivi. I richiami alla Bigelow di Strange Days, al Besson del Quinto Elemento, alle metropoli asfittiche e brulicanti di Wong Kar-Wai si sprecano, il revival ad un "vintage" anni novanta è forse uno degli elementi più presenti. 
La memoria storica, di una crisi lancinante che ha condotto tutto allo sfascio, è affidata su tutte ad una frase di uno stanco Deckard mentre si sofferma sul ricordo di quando l'opulenza distraeva da ciò che intorno crollava. Ma è tutto sempre lì presente, dietro l'angolo, in una simil Las Vegas vittima degli eventi, in un ologramma di Elvis che si staglia magnificamente al centro della scena, quasi in un dialogo a tre con Ford e Gosling. 
Villeneuve  nonostante il megaimpianto sembra aver perso il suo taglio, aver chiuso il cuore che palpitava forte in La donna che canta (2010) in un cassetto, ritrovandolo solo in memorie ammiccanti per la sua generazione, maldestramente fondendo mode del momento in un Jared Leto guru de noantri che, insopportabile, cita frasi della Bibbia e massime zen a casaccio, come se non ci fosse un domani. Un pastone di incroci di teorie, filosofie, letterature, stili, mode, grandi dogmi di ieri oggi e domani, giusto per accontentare un po' tutti, imprimendo comunque un gran senso di vacuità in cui lo stesso Gosling, scelto per guidarci nell'intera vicenda, con la sua monoespressione risulta a tratti anche un po' ridicolo.  
 
Chiara Nucera

 

  • Regia: Denis Villeneuve
  • Paese: Usa, 2017
  • Genere: Fantascienza
  • Durata: 152'
  • Cast: Ryan Gosling, Harrison Ford, Ana de Armas, Sylvia Hoeks, Robin Wright, Dave Bautista.
  • Valutazione: 3

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