All’età di 79 anni l’indiscusso genio della commedia americana torna dietro la macchina da presa, ritrovando, almeno in parte, lo smalto di un tempo, dopo il pessimo To Rome with love e il discreto Blue Jasmine – quest’ultimo comunque tutto sulle spalle di una strepitosa Cate Blanchett. Il suo graduale allontanamento da Hollywood, in favore delle tanto amate location europee, lo porta questa volta nella Francia meridionale del 1928.
Magic in the Moonlight racconta la storia del celebre illusionista Stanley (Colin Firth), in arte Wei Ling Soo, che viene ingaggiato dall’amico e collega Howard (Simon McBurney) per smascherare Sophie (Emma Stone) giovane e attraente sensitiva, sospettata di intenzioni fraudolente ai danni di una facoltosa famiglia della Costa Azzurra.
Stanley, cinico e distaccato, concepisce la propria professione di illusionista come un’architettata messa in scena, ripudia categoricamente l’irrazionale e non nasconde da subito un certo scetticismo nei confronti dei presunti poteri di Sophie. Ma non passa molto tempo prima che l’arrogante resistenza del protagonista cominci a vacillare; esso rimane profondamente impressionato dagli occhioni e dalle capacità della ragazza, la quale rivela particolari della vita privata dell’uomo che non avrebbe mai potuto conoscere.
Tra i due nasce una tenera intesa, poi l’amore, che porterà Stanley a mettere in discussione tutti i principi razionali sui quali aveva fondato una vita intera. “La tediosa e tragica realtà della vita” lascia spazio al mistero dell’amore e alla magia della luna. Almeno apparentemente.
Nel suo 46° film da regista Allen decide di non apparire – le sue ultime prove da interprete non sono brillanti, nemmeno nell’atteso Gigolò per caso di Turturro – ma incarna in Stanley/Colin Firth una sorta di suo alter-ego britannico; entrambi sono degli illusionisti, in quanto anche il cinema è prima di tutto finzione, messa in scena. Come l’elefante in una stanza che si volatilizza improvvisamente.
Ogni volta, quando un mio film ha successo, mi chiedo: come ho fatto a fregarli ancora?, disse una volta il regista.
Inoltre ad accomunarli è lo stesso senso di scetticismo nei confronti dell’ultra-terreno; Allen, infatti, non ha mai nascosto il proprio ateismo. Attraverso la ragazza che mette in dubbio le salde convinzioni del protagonista, è come se anche Allen, sulla soglia degli 80 anni, volesse per un momento mettere in dubbio sé stesso.
Ma l’amore è un’altra cosa.
Quello esiste, anche se razionalmente ancora inspiegabile – sia per Allen che per Stanley.
Come spesso accade nei finali dei suoi film, anche qui il protagonista trova solo una risposta parziale alle proprie domande. Come se per Allen la chiave della vita fosse proprio non smettere mai di porsi domande. Tenere alimentato il dubbio è l’unico modo per andare avanti e ce lo conferma la sua filmografia prolifica, che, nonostante gli alti e bassi dell’ultimo decennio, continua, di tanto in tanto, ad arricchirsi di commedie gradevoli come Magic in the moonlight.
Nonostante la location il film risente poco delle atmosfere francesi, a differenza del nostalgico Midnight in Paris.
Magic in the moonlight è piuttosto un film molto inglese, per via dello humor sottile tipicamente britannico di Colin Firth e dell’amata zia Vanessa (Eileen Atkins) che è il vero endoscheletro del film. Un ritorno brillante per il regista – la sua ultima commedia veramente lodevole era Basta che funzioni del 2009 – che nonostante la veneranda età continua con costante stacanovismo a partorire un film all’anno, come se fare cinema fosse per lui una necessità biologica ormai da molto tempo. Presentato in Italia durante il 32° Torino film Festival Magic in the Moonlight è nelle sale dal 4 dicembre.
Angelo Santini