Ivan Locke, protagonista del secondo lungometraggio di Steven Knight, già pregevole sceneggiatore di “Dirty Pretty Things” (Stephen Frears) e de “La promessa dell’assassino” (David Cronenberg), è un operaio specializzato, stimato da colleghi e superiori, e un buon padre di famiglia.
E’ un errore, come spesso accade, a fargli invertire, quasi letteralmente, senso di marcia e a costringerlo a ripensare alla propria vita, affrontando fantasmi che fino ad allora, lascia intendere la narrazione, erano rimasti sopiti nella rassicurante, reiterata quotidianità di un uomo oltremodo concreto, stabilmente appoggiato sul calcestruzzo dell’esistenza, come i palazzi che costruisce lo sono su quello reale, spesso evocato durante il viaggio solitario, in macchina.
Ed è, etimologicamente, un rottame di pietra (caementum) anche Ivan Locke, piantato nelle fondamenta familiari e lavorative, e tuttavia fallibile, sul punto di crollare da un momento all’altro a causa di una miscela di poco sbagliata, o forse solo umano.
Con una meccanica delle azioni-reazioni che richiama quella del guidatore al volante – del resto l’intero film si volge nell’abitacolo di un’automobile – “Locke” resta, a mio avviso, un film drammaturgicamente debole che trova solo in alcuni, sporadici momenti, la capacità del salto semantico dal didascalismo retorico all’allegoria, nel senso più pieno del termine. E quando ciò avviene, ravviso l’abilità, più nell’uso accorto, quasi invisibile, ma funzionale, della connessione visiva fra l’uomo e la città/la strada che nella mera scrittura, abbastanza risaputa, mai disturbante quanto avrebbe potuto, se si fosse spinta più in profondità nel gioco straniante fra l’isolamento di Ivan e la forzosa e ostile interazione col fuori, vero e immaginato, che irrompe senza soste, durante il viaggio. Resta dunque abbastanza superficiale il conflitto, motore sempiterno dell’azione drammatica, che Ivan avverte, sia rispetto alla propria identità di uomo e di genitore, sia nella tenzone che la coscienza inscena, seppure in una virtuale psicosi che rimanda a quella di Trevis Bickle, con la memoria del proprio padre, assente, deficitario, disfunzionalmente egotico.
Discorso a parte merita la performance di Tom Hardy, un vero one man show, come raramente se ne sono visti, al cinema: minimalista e intenso, al tempo stesso, come la scuola britannica insegna, l’attore londinese tratteggia Ivan Locke – uno che prova a fare la cosa giusta, un coraggioso di quelli piccoli, non certo l’eroe giovane e bello, cantato da Guccini – con commovente sensibilità, cifra costante del suo talento multiforme. La prova che offre non ha sbavature, nella capacità di dipingere, impassibile – verrebbe da dire, impossibile – l’antico dolore dell’uomo che non potrà mai sapere quanto stia davvero scegliendo e quanto la vita abbia scelto al posto suo.
Tom è un interprete struggente, da sempre, e, guardando alla sua titanica prova, spiace ancor di più per il sapore amarognolo, vagamente reazionario che “Locke”, parabola claudicante sulla responsabilità, lascia, una volta abbandonata la sala.
Ilaria Mainardi