Vanda, prosperosa attricetta, arriva in ritardo all’audizione per il ruolo di protagonista nell’adattamento teatrale del romanzo erotico di Von Sacher Masoch, che dà anche il titolo alla pellicola. Nel teatro è rimasto solo Thomas, regista e adattatore dello spettacolo, il quale, raggirato dall’invadenza della donna, le concede senza troppe aspettative un’audizione fuori tempo massimo. Vanda si rivela perfetta per la parte già dalle prime battute. Thomas ne rimane ammaliato e mentre fuori urla la tempesta, anche lui si rende conto di non essere così diverso dal protagonista maschile del suo adattamento.
Le vicende si svolgono interamente in un teatro. Il palcoscenico è ancora allestito dal precedente spettacolo. Un adattamento musicale di Ombre Rosse, specifica un po’ stizzito Thomas.
E’ lì che si muovono i due protagonisti, fra le macerie di kolossal hollywoodiani che hanno depauperato il teatro della sua identità.
Se ai suoi albori il cinema veniva considerato da molti intellettuali una pratica di serie B rispetto alle altre arti, Venere in pelliccia sbandiera virtuosamente l’emancipazione dell’arte cinematografica. La fotografia e i movimenti di macchina allontanano il film dai fallimentari esempi di teatro filmato.
Ogni elemento si presta a molteplici chiavi di lettura: l’enorme cactus sul palcoscenico è prima un elemento del deserto culturale in cui si muovono i protagonisti (reduce dal musical Ombre Rosse), poi un rimando all’architettura greca, infine una dominante forma fallica. Il palcoscenico stesso è sia teatro che inconscio, dove si celano i desideri rimossi di Thomas, i quali verranno fuori una volta abbattute le barriere fra persona e personaggio durante la lunga audizione.
Lui e Vanda entrano ed escono continuamente dai personaggi che interpretano sul palco; quei personaggi che sono sia scudo che chiave delle rispettive perversioni sessuali.
La figura dell’attrice e quella dell’autore finiranno quindi con il confondersi, così come schiavo e padrona, realtà e finzione, teatro e cinema, in qualcosa che somiglia in parte ad un abbozzo di realismo ontologico; un realismo di tipo strutturale, interno al linguaggio, ottenuto attraverso un processo di sottrazione lontano da qualsivoglia spettacolarità (il film ha un’unica location) e da istanze veriste/naturaliste.
Il cinema prende vita grazie allo spazio teatrale e il teatro fa lo stesso grazie al dispositivo cinematografico: durante l’audizione, l’assenza degli oggetti di scena nella partitura fisica dei protagonisti viene accompagnata da effetti sonori che ne compensano l’assenza stessa (il rumore della tazzina di thè e quello della penna che scorre sul foglio di carta). Ed ecco come il metodo delle azioni fisiche senza accessorio teorizzato da Stanislavskij si arricchisce di efficacia estetica attraverso un intelligente uso dell’audiovisivo.
Venere in pelliccia è un film che riflette sulla messinscena come gioco dell’artificio e sul rapporto tra arte, finzione e inconscio. L’unica assenza incolmabile è quella del pubblico, senza il quale il teatro non vive (l’incontro dei protagonisti non basta a restituirne l’essenza) rimanendo irrimediabilmente confinato nell’anticamera di se stesso. Nonostante questa macchia, Polanski sembra cogliere comunque il punto nodale dello stile moderno nel cinema, creando un legame imprescindibile fra riflessioni metalinguistiche e consapevolezza del mezzo cinematografico.
Angelo Santini