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Snowpiercer

Venerdì 02 Maggio 2014 15:08

Lo sci-fi a sfondo sociologico è forse il sottogenere più ambito dalle grandi produzioni cinematografiche: fecero da apripista capolavori come Blade Runner e Brazil negli anni '80, e da allora il fenomeno è esploso. Oltrepassando le fondamentali dinamiche filosofiche di Matrix - con cui, volenti o nolenti, tutti i successivi hanno dovuto fare i conti -, negli ultimi anni si è arrivati a risposte interessanti: su tutti Moon e District 9, in grado di interiorizzare con originalità i temi della lotta di classe. D'altro canto, per ogni titolo riuscito almeno altri dieci deludono le aspettative, proponendo banalità in salsa mista ripescate dall'inossidabile calderone post apocalittico. Ma per forza di cose, quando si parla di fantascienza, la credibilità del mondo descritto, o anche solamente teorizzato, è un caposaldo che non può essere aggirato; a meno che non si abbia l'anticonformismo nel sangue per snobbare ogni pretesa di verosimiglianza, come insegna Tim Burton in Mars Attack. Snowpiercer non fa eccezione, pur essendo una pellicola orientale, segue i dettami dei blockbuster occidentali e ha ottenuto un'ottima risposta di pubblico, agevolata dal favore della critica e da una massiccia campagna pubblicitaria, cavalcando la nomea di "film più costoso della Corea del Sud".

In un futuro prossimo, il globo terrestre è vittima di una repentina glaciazione, gli ultimi barlumi di umanità sopravvivono all'interno di un treno dalla tecnologia rivoluzionaria, in grado di resistere alle condizioni proibitive snodandosi in moto perpetuo lungo la terra. Ma all'interno dei vagoni quel che resta della civiltà è un microcosmo, che ha visto amplificate incongruenze e disparità sociali. I superstiti, un coacervo di razze e culture, si ritrovano divisi in classi rigidamente separate, secondo le regole dettate da Wilford, il creatore del treno, che ha consapevolmente generato un mostro, una società distopica che governa con metodi totalitari e repressivi. I reietti, ammassati in fondo al treno da 17 interminabili anni, si ribelleranno sotto la guida del giovane Curtis, aiutato da un prigioniero asiatico in grado di eludere i sistemi di sicurezza. Di vagone in vagone, avanzeranno scalando la piramide del potere, con un solo obiettivo: arrivare al meccanismo che governa quest'equilibrio così ingiusto, secretato alla testa del treno.

È plausibile pensare che non sia un caso, che John Hurt e Ed Harris - rispettivamente la guida morale della rivolta e lo stesso Wilford - siano vicini ai ruoli interpretati in Orwell 1984 e The Truman Show, come a conferma di una chiave di lettura semplicistica e senza troppe pretese. Lo dimostrano le situazioni simboliche che a ogni vagone si materializzano di punto in bianco, come prestabilite dal più banale dei canovacci action, enfatizzate e caratterizzate a livello puramente superficiale, con pretese pseudo-filosofiche che assumono contorni caricaturali. I profili monodimensionali dei personaggi (l'eroe assillato dai dubbi, il vecchio saggio che guida la rivolta, la disumanità gratuita dei carcerieri, il despota arroccato nella torre d'avorio a manovrare i fili delle sue marionette ) non sono altro che cliché maldestri, per di più privi di spessore psicologico, arrivando quasi a schernire il livello di coscienza critica dello spettatore. Come se non bastasse, le incongruenze della sceneggiatura (che popolano il film anche meglio di qualche personaggio) così come le spiegazioni aleatorie al mondo rappresentato, restano criticità marginali rispetto agli sfondoni scientifici che si accatastano vagone dopo vagone, in una spirale orrorifica: dalla termodinamica alla meccanica, dalla biochimica alla balistica, e persino aspetti a livello puramente visivo, come le proporzioni dei vagoni, lasciano basiti: magie incontrollate della computer grafica postproduzione. Paradossalmente è l'epilogo, spesso tallone d'Achille di molte pellicole sci-fi, ad essere una piccola grande sorpresa, con un finale aperto a più interpretazioni dall'aroma agrodolce, strappando un sorriso o un ghigno che sia, ma non riuscendo ormai più a recuperare i pezzi di un gioco ormai in frantumi. 

La regia di Bong Joon-ho, nelle precedenti pellicole, si era dimostrata capace di frangenti di cinema che difficilmente sarebbero stati comprensibili in questo contesto: l'alternarsi di elementi di comicità, di drammaticità e di violenza che sfociano nel grottesco o nel morboso o addirittura nel filosofico sono il risultato di una sensibilità prettamente orientale. In Snowpiercer gli angoli di questa peculiarità narrativa sono stati ampiamente smussati, relegando le poche derivazioni concesse tra le pieghe dell'interpretazione dell'attore feticcio Kang-ho Song. Così ora, sempre sperando in una sua resurrezione dagli inferi delle dinamiche del cinema occidentale, questo grande regista lascia in eredità - nonostante fotografia e direzione restino gli aspetti più solidi del film - un vistoso passo indietro rispetto alla poetica mostrata in Memories Of Murder e Mother, ma anche nell'horror fantascientifico The Host: una commistione visionaria di generi, autentici gioielli orientali che da noi hanno finito per confondersi alla bigiotteria qualsiasi, ma che per gli amanti di tutto ciò che è sotto (fuori) traccia non si tarderà a recensire.

 

Pollo Scatenato