Se esista una poietica cinematografica della mente umana, attraverso complessi edipici e squarci di sapienza shakespeariana, il cinema sonda dalla sua nascita, nel sodalizio tra Bunuel e Dalì, nell’onirismo lynchiano, nella schizofrenia deterministica di David Cronenberg.
In questo “Only God Forgives”, lontanissimo dai lidi di “Drive”, più assimilabile al precedente, bellissimo, “Valhalla Rising”, Nicolas Winding Refn dà il suo prezioso contributo all’indagine epistemologica.
La riflessione del regista danese inserisce di tutto, traslando però il limite di sovrabbondanza rococò (ciò che, incredibilmente, gli si imputa) in virtù di sintesi espressiva e concettuale, filosofica e letteraria.
Non altrimenti si spiegherebbe la performance incredibile di Gosling, nuovamente diretto da Refn, dopo l’exploit del 2011: follia pura parlare di fissità espressiva quando ci si trova di fronte a un interprete che, con coraggio e adesione molto poco calcolata, in termini di marketing divistico, accetta un ruolo tanto rarefatto e silenzioso. I mondi di Macbeth e di Edipo, ma anche di Elettra, nel suo acutissimo femminino, attraversano lo sguardo struggente, doloroso, intenso dell’attore canadese che, quando la mdp gli si inchioda in faccia, parla con le pieghe del collo, col sudore, col ritmo del respiro.
Julian non esiste, per questo non parla quasi mai, lo fa la mente (o l’animo, l’anima) che attraverso i suoi occhi noi scorgiamo, lacerata e divisa. Il senso di colpa noi vediamo, demiurgo, trasfigurato in un vendicatore kurosawiano, che punisce per l’uccisione incolpevole, destinata di Laio, e non può che tormentare in eterno colui che, sembra suggerire la madre/consorte, Kristin Scott Thomas: “Ma non mi fido (né comprendo) della tua natura: troppo latte d'umana tenerezza ci scorre, perché tu sappia seguire la via più breve.”
Una strada che è già scritta, come negli eroi sofoclei, da un fato imperscrutabile, che sfugge il controllo degli stessi dei olimpici. Ma anche la fortuna in senso shakesperaniano e nietzschiano, una ruota che, girando, bilancia impulsi dionisiaci e apollinei, eros e thanatos, e che turba il protagonista: egli sa, come Macbeth, che il fatto, una volta fatto, non esaurirà nell’azione le proprie nefaste conseguenze, né sembra suggerircelo l’imago mortis scenografico che lo circonda.
Ma non vi è una prospettiva soteriologica in “Only God Forgives”, se non attraverso l’ironia beffarda del titolo: la macchia del peccato non potrà trovare redenzione ultraterrena. La metafisica del silenzio non assurge perciò a strumento di autoconsolazione dell’individuo nei confronti delle proprie azioni: nella penetrazione della madre, sangue nel sangue, con le mani colpevoli che ella stessa aveva mosso, si realizza piuttosto la nota massima di Wittgenstein, “su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere”. E che la profezia della sfinge, dunque, si compia: gli occhi che hanno guardato siano resi ciechi da spilli acuminati, i pugni lordi, si alzino consapevoli, martoriati, per l’ultima volta, sotto il peso della colpa atavica.
Ilaria Mainardi