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This Must Be The Place

Lunedì 10 Ottobre 2011 09:51

 

Cheyenne (Sean Penn) è una rockstar non più giovanissima che è uscita dal giro. Ha suonato con i grandi, tra cui Mick Jagger e David Byrne (che compare in persona nel film), tant'è che la gente lo riconosce ancora per strada, suo malgrado. Nonostante continui a tenere i capelli cotonati, a coprirsi il volto di cerone, a passarsi il rossetto sulle labbra e lo smalto sulle unghie, sta attraversando un periodo di profonda noia, che scambia a tratti per depressione. Apatico e legato da trentacinque anni alla stessa donna, sua moglie (Frances McDormand), si muove su e giù per le vie di Dublino con il suo carrello della spesa, finché un giorno la morte del padre, ebreo sopravvissuto ai campi di concentramento, non lo porta a New York, dove scoprirà che il genitore aveva intrapreso da anni la caccia ad un criminale nazista, tale Aloise Lange (Heinz Lieven). Per riscattare il rapporto paterno interrotto trent'anni prima, Cheyenne raccoglierà il testimone, avventurandosi in un'improbabile caccia all'uomo lungo gli Stati Uniti, che gli darà nuova spinta vitale...

Quale regista europeo non ha tentato l'esperienza “americana”? Tutti. A quanti è andata bene? Ben pochi.

Paolo Sorrentino, già acclamato a Cannes con Il divo tre anni fa, e vincitore in sordina nell'ultima edizione del Premio della Giuria con questa sua ultima opera, si pone come eccezione che conferma la regola.

Scrivendo la sceneggiatura insieme ad Umberto Contarello, rievocando la storia dell'omonima canzone dei Talking Heads e partendo dall'iniziale idea di “una caccia”, divide il film in due parti. La prima è dedicata interamente alla costruzione di Cheyenne, un personaggio raccontato come da tempo non si vedeva sul grande schermo: un uomo che a cinquant'anni suonati continua a “mascherarsi”, cercando di nascondere il senso di colpa per due suoi fan suicidatisi a causa delle sue canzoni dark, girovagando sempre con un carrello della spesa e poi con un trolley, simboli di un fardello irremovibile. La seconda è volta alla decostruzione dello stesso personaggio, portato a confrontarsi con la figura paterna, per lungo tempo ignorata, ma indimenticabile, che lo condurrà in un lungo viaggio nel cuore degli Stati Uniti, alla ricerca delle radici e di se stesso. Smarrito negli USA, l'ex-cantante si confronterà con vari familiari del criminale ricercato, prima la moglie e poi la figlia, entrambe anime in crisi che ne hanno perso le tracce. Presentatosi come John Smith, quindi ancora una volta mascherato, scoprirà nelle due donne l'importanza della famiglia, rispettivamente per eccesso e per difetto. Alla fine la punizione, malgrado le premesse apocalittiche, sarà solo simbolica.
Utilizzando un Sean Penn in stato di grazia, imperdibile nella versione originale, che parla con una vocina stentata ed assume posture improbabilmente rigide, contornato da un validissimo cast tra cui spiccano Frances McDormand, Judd Hirsch e Harry Dean Stanton, Sorrentino fa della regia il suo punto di forza. Tornando agli stilemi dei primi film ostenta suoi vezzi, come la bottiglia/passaggio a livello e la particolare costruzione di alcune scene, come quella dell'incontro finale col nazista Lange, girata nella scomposizione di una coazione a ripetere, mostrando ogni volta un dettaglio ulteriore, fino a svelare la presenza in stanza dello stesso Cheyenne.

This must be the place è anche un'opera sulla visione: quella filtrata “in soggettiva” dagli occhi bistrati e spesso quasi socchiusi del protagonista, quella spenta per sempre degli occhi ormai serrati del padre, che però per tutta una vita hanno fissato un obiettivo, quella infine che attinge al passato del non (più) vedente Lange, protetto da spessi occhiali scuri.

Il regista partenopeo, come ogni grande autore, fa in fondo sempre lo stesso film: il suo è un cinema di personaggi solitari, al margine, come l'uomo in più Pisapia dell'omonimo esordio, come il Titta Di Girolamo de Le conseguenze dell'amore o il Geremia de' Geremei de L'amico di Famiglia o ancora l'Andreotti esplorato ben oltre i trecentosessanta gradi de Il divo, tutti loro si riversano in Cheyenne che attraversa l'intera storia, filmica e mondiale, nei suoi ultimi settant'anni, arrivando a confrontarsi con l'olocausto, quasi indenne.

Nell'ultima enigmatica scena il cerchio si chiude: un Penn ormai non più Cheyenne ricompare per la visibile gioia della madre dello scomparso amico Tony. Chiunque egli sia (Tony? Cheyenne? Penn?), il viaggio si è compiuto, un uomo è stato trovato ed un altro s'è ritrovato. Ed un regista s'è ancora una volta confermato un autore di razza.

 

 

Paolo Dallimonti