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Visualizza articoli per tag: metacinema
"Una moltitudine di specchi nei quali ci riflettiamo, di soglie varcate che ci trasportano in altre dimensioni, come quella che Alice attraversa per arrivare nel Paese delle Meraviglie: questo è il cinema!"
 
 
Questo il concetto alla base di "Il metacinema nelle opere di Lynch, Cronenberg, De Palma" firmato da Chiara Nucera e uscito nel novembre 2014 per la collana Spaghetti Horror edita da EUS, Edizioni Umanistiche Scientifiche. Il saggio si presenta come un'analisi sul cinema contemporaneo, traendo spunto da alcuni autori specifici, cavalcando il periodo che va dall'inizio degli anni '80 ai primi anni del nuovo millennio, fatta eccezione per alcune mirate digressioni, come quella su Alfred Hitchcock, considerato dall'autrice epigono di un certo tipo di approccio stilistico.
 
Stabilendo nel teatro greco e nella filosofia classica la base di partenza per le più moderne teorie analitiche, prende vita il discorso sulla duplicità del reale, presente in tre accezioni: realtà vissuta come profonda mutazione corporea, realtà che diviene prima riproduzione e poi ricostruzione, realtà che emerge dalla zona oscura dove sogno ed esistenza si confondono. Un fil rouge che lega le filmografie di questi particolari autori, toccando le teorie di Freud su perturbante e sogno e gli studi dell'allievo Rank sul doppelgänger.
Ritrovando in questo il concetto di metacinema, ovvero quella  particolare rappresentazione cinematografica che ha per oggetto essa stessa, o nella quale vengono inseriti elementi che rievocano fortemente una messa in scena fittizia dell'azione che si sta svolgendo, emerge un'evidente contrapposizione tra spazio interno ed esterno, oltre lo schermo e oltre il corpo dello spettatore. Il dualismo risulta così necessario poichè la vita e lo stesso cinema, che ne è derivazione, ne sono caratterizzati.
 
Scheda Tecnica:
 
Autore: Chiara Nucera
Casa editrice: EUS Edizioni Umanistiche Scientifiche
Anno: 2014
ISBN: 978-88-99164-01-0 
Tipologia: Saggio
Pagine: 146
Prezzo: 16,90 €
Giovedì 3 Settembre, alle ore 11, presso l’Italian Pavilion Sala Tropicana dell’Hotel Excelsior del Lido di Venezia, nel corso della 72esima Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica, si terrà la presentazione di “Il Metacinema nelle opere di Lynch, Cronenberg, De Palma” di Chiara Nucera.
 
L'incontro verrà moderato dal giornalista Andrea Guglielmino (CinecittàNews, 8 ½ - Numeri, visioni e prospettive del cinema italiano, Everyeye)
 
 
“Il metacinema nelle opere di Lynch, Cronenberg, De Palma” è il titolo del recente volume di Chiara Nucera, edito nella collana Spaghetti Horror delle Edizioni Umanistiche Scientifiche – EUS (pp. 143 euro 16,90). La filosofia platonica e aristotelica, il teatro greco e le teorie psicanalitiche di Freud e del suo allievo Rank, il concetto di doppio e di molteplicità del reale, nella vita e nel cinema: da questi elementi e sulle loro tracce l’autrice articola un’interessante e meticolosa analisi del modo in cui tre maestri del cinema, David Cronenberg, Brian De Palma e David Lynch, strutturano un nuovo rapporto tra schermo e corpo dello spettatore, partendo da punti di vista diversi e arrivando alla formulazione di tre diversi tipi di realtà. Traendo alimento anche dalle riflessioni di Nietzsche, Bazin, Pasolini e Hitchcock, Nucera conduce un ragionamento preciso e appassionato, al termine del quale il cinema si conferma o si rivela come ” … moltitudine di specchi nei quali ci riflettiamo, di soglie varcate che ci trasportano in altre dimensioni, come quella che Alice attraversa per arrivare nel Paese delle Meraviglie … “.
Andrea Corrado per dgCinews, periodico della Direzione Generale Cinema
Responsabile di redazione Maria di Lauro
 

Gone Girl - L'amore bugiardo

Domenica 21 Dicembre 2014 12:42
In principio fu il dubbio, e, caso fortuito, un paio di enormi dubbi danno avvio a Gone Girl – L’amore bugiardo, il cui titolo italiano, lo stesso del libro di Flynn Gillian dal quale la sceneggiatura è tratta, rischia di spiegare troppo e, allo stesso tempo, di fuorviare lo spettatore.  
Infatti, quando ho cominciato a leggere, nel post-visione romano, per i fortunati che poterono assistervi, che stavamo parlando di un capolavoro senza pari, il miglior Fincher di sempre, le cui intricate vette drammatiche lo rendevano assimilabile addirittura a Vertigo, mi sono irrigidita un bel po’, a causa di una certa tendenza critica contemporanea a bollare come masterpiece una quantità statisticamente troppo alta di lavori.
Ferma sull’irrigidimento di cui sopra, ho deciso di leggere il libro dal quale il film di Fincher è tratto e l’ho trovato letterariamente non eccelso, per quanto assai godibile, come lettura disimpegnata. Lo spunto è interessante, curioso, ma accompagnato da una scrittura a tratti psicologicamente semplicistica, con alcuni personaggi e snodi, o troppo manichei o schiacciati dalla mera funzionalità narrativa: un nodo scorsoio che si stringe sempre di più intorno al collo di Nick, almeno fino al repentino, troppo, colpo di scena. 
Poteva Fincher fare il miracolo? Poteva far diventare una storia di provincia a tinte fosche un saggio, invece, sulla foschia dell’anima, americana o meno che sia? Amy la stronza poteva diventare altro da uno stereotipo e Nick, lo scemo fedifrago che si dichiara – non qui, per fortuna – innamorato di una che lui stesso definisce, quasi testualmente, una bambola gonfiabile vivente, pure? Ebbene sì, a mio avviso David Fincher ha fatto il miracolo, realizzando quello che ritengo il più bel film dell’anno insieme a Maps to the Stars.
Gone Girl è (bello) come Millennium, altro “thriller” umanista che della trama thriller, in senso stretto, se ne frega ben presto.
E sfaterei anche subito l’accusa di misoginia, da più parti mossa, riguardo gran parte della produzione dell'autore statunitense.
Il fatto, per come la vedo io, è che siamo nella zona di The Truman Show, e gli attanti sono Barbie e Ken. Ma non Barbie e Ken perché bambolotti disumanizzati, tutt’altro. Amy e Nick sono umanissimi, veri e concreti, ma filtrati dalle tinte pastello o rosso sangue di uno show che ingloba tutto e tutti. E lo sono sempre, prima, durante e dopo i fatti, in una creazione straniantemente biomeccanica: nelle immagini leziose di Mitica Amy, sublimazioni di una nevrosi, nella casetta rosa antico (e celestina, quella del padre di lui), negli amplessi di legno e con gli abiti addosso, nella gestualità flessuosa, da ballerina carillon, di lei, o incespicante e rigida, da gaffeur quale in effetti è, di lui. Sono l’uomo e la donna per i quali i quindici minuti di celebrità sono diventati paradigma di vita, non per scelta, almeno in parte, ma in quanto esseri partoriti nella e dalla società dello spettacolo: finta, malevola, esteriore, manipolatoria. Come Amy, come loro. 
I coniugi e i personaggi che contornano le loro esistenze in salsa cocktail entrano e escono dall’inquadratura, spesso, come se si trovassero su un palcoscenico teatrale, in lotta per contendersi una battuta più lunga, da declamare sul proscenio, restii a tornare dietro le quinte, a meno che non lo possano fare in uno scroscio di applausi: “Elvis ha lasciato il Missouri”.
Costantemente consapevoli di essere inquadrati o ascoltati, solo talvolta capaci di usare l’immagine per inventare mondi, costruirsi alibi, apparire migliori di quanto non siano. E se invece fosse l’immagine a usarci, sempre?
Amy sembra conoscere la risposta, ma solo al suo livello di cerebrale calcolatrice, e infatti nulla può contro la sete di sangue degli squali-ladri che incontra durante la latitanza forzata. Invece la risposta la sa Nick che le mani se le sporca meno, in senso proprio, ma non è meno infido, violento, anche, in un finale che nel libro assume quasi i toni di un armistizio moralista, prima, e di una dichiarazione di vittoria su tutti i fronti di Amy, nelle ultime battute. Qui no, qui i mostri non si giudicano e non vincono, piuttosto si alleano, creandone altri, scovandoli nella loro bonaria apparenza provinciale. Nello splendido lavoro di Fincher, il cui contributo alla sceneggiatura della stessa autrice Flynn è sostanziale, almeno nell’esito, l’ultima parola spetta a Nick, nel nero dell’immagine, solo apparentemente già svanita, ed è una dichiarazione esplicita di complicità: finché morte non li separi.
 
A margine: splendida Rosamund Pike, nel ruolo mattatore, o così il suo personaggio crede che sia, ma, tenuto conto dei limiti performativi che più volte sono stati osservati, la mia sorpresa è stata Affleck, sfumato, dolcemente goffo, mascalzone e ironico al punto giusto, capace di lavorare, cosa non facile, in senso anche metacinematografico  (cosa il pubblico vuole vedere, da sempre, in Ben Affleck se non il bisteccone bonazzo e un po’ impacciato, al di là dei notevolissimi meriti di regista e sceneggiatore?). Per me, è quasi amore.
 
Ilaria Mainardi

Il Metacinema e Mad Max a Horror Maximo.

Martedì 27 Ottobre 2015 16:57
Nel week end più pauroso dell'anno, in occasione di Horror Maximo, convention dell'horror e del fantastico ormai giunta alla 5a edizione, preparatevi ad assistere alle presentazioni di Il Metacinema nelle opere di Lynch, Cronenberg, De Palma di Chiara Nucera, sabato 31 dalle ore 16.30, e Mad Max Trilogy. Dal nomadismo al cyborg di Alessandro Neri, domenica 1 novembre dalle ore 16.30 .
 
La manifestazione si terrà a Roma al Casale Falchetti, Viale della Primavera 319/B
 
Numerosissimi gli ospiti che interverranno alla manifestazione, tra i quali I Manetti Bros che incontreranno il pubblico sabato 31 dalle 18, in un dibattito moderato da Chiara Nucera, e Umberto Lenzi che ritirerà il Premio Horror Maximo alla Carriera, domenica 1 novembre dalle 20.30 . 
Gli incontri sono gratuiti, aperti a tutti... e riservati a stomaci forti! 
 
 
Il metacinema nelle opere di Lynch, Cronenberg, De Palma è il titolo del recente volume di Chiara Nucera, edito nella collana Spaghetti Horror delle Edizioni Umanistiche Scientifiche - EUS (pp. 143 euro 16,90). La filosofia platonica e aristotelica, il teatro greco e le teorie psicanalitiche di Freud e del suo allievo Rank, il concetto di doppio e di molteplicità del reale, nella vita e nel cinema: da questi elementi e sulle loro tracce l’autrice articola un’interessante e meticolosa analisi del modo in cui tre maestri del cinema, David Cronenberg, Brian De Palma e David Lynch, strutturano un nuovo rapporto tra schermo e corpo dello spettatore, partendo da punti di vista diversi e arrivando alla formulazione di tre diversi tipi di realtà. Traendo alimento anche dalle riflessioni di Nietzsche, Bazin, Pasolini e Hitchcock, Nucera conduce un ragionamento preciso e appassionato, al termine del quale il cinema si conferma o si rivela come " … moltitudine di specchi nei quali ci riflettiamo, di soglie varcate che ci trasportano in altre dimensioni, come quella che Alice attraversa per arrivare nel Paese delle Meraviglie … ".
Andrea Corrado per dgCinews, periodico della Direzione Generale Cinema 
Responsabile di Redazione Maria Di Lauro
 
 
Mad Max Trilogy. Dal nomadismo al Cyborg. Il lavoro di Alessandro Neri analizza a 360° il mondo di Mad Max, un futuro prossimo con molti riferimenti alla contemporaneità: da una parte la presenza di Tina Turner, i giubbotti di pelle, le pettinature punk e la colonna sonora di Brian May; dall’altra invece, i teppisti assetati di sangue e di benzina, ci rimandano verso la caduta dell’impero ro-mano e l’invasione dei barbari. Per enfatizzare il periodo di barbarie, il regista George Miller crea una mescolanza di stili e look: le sfide su fuori strada sempre più simili a carri armati ricordano i duelli tra cavalieri; Mad Max si trasforma così negli ‘80 in moda, gadget e il post-moderno diventa fashon, cool esercitando, ad esempio, molta influenza nel panorama musicale dell’epoca in cui molte band di successo hanno la pettinatura e i vestiti come i cattivi di Mad Max.
Uscito ad Aprile 2015 è edito da EUS Edizioni.
 
 
Per maggiori informazioni sul programma consultare il calendario della manifestazione https://www.facebook.com/HORROR-MAXIMO-149095111835092/

Wilde Salome'

Mercoledì 11 Maggio 2016 23:10

Nel carcere della città di Reading
fu scavata una fossa di vergogna:
ora vi giace un uomo maledetto
divorato dai denti delle fiamme.
È avvolto in un sudario incandescente
nella tomba rimasta senza nome.
Lasciatelo giacere nel silenzio
fino al giorno che Cristo chiamerà
tutti i morti a raccolta. Non spargete
vane lacrime o inutili sospiri:
aveva ucciso la cosa che amava
e doveva pagare con la morte.
Eppure ogni uomo uccide ciò che ama.
Io vorrei che ciascuno m'ascoltasse:
alcuni uccidono adulando, ad altri
basta solo uno sguardo d'amarezza.
Il vile uccide mentre porge un bacio
e l'uomo coraggioso con la spada!

Oscar Wilde, La Ballata del Carcere di Reading 1898

 
Salomè è un'opera teatrale controversa di Oscar Wilde pubblicata nel 1891, in un unico atto e in lingua francesce, come emblema di contestazione alla società moralista che lo stava crocifiggendo.
Fu composta per l'attrice Sarah Bernhardt che nonostante le numerose prove si rifiutò di interpretare proprio a causa dello scandalo che coinvolse lo scrittore.
Wilde è un'icona, interprete di uno stile di vita e di un modo di essere che con coerenza portò avanti fino alle estreme conseguenze, complice la socratica volontà di affrontare il carcere dopo un tormentato processo, intentato dal padre del suo amante, che gli costò la vita.
Salomè, fisiologica evoluzione dark dello stile dell'autore, è così un grido di accusa dove ancora una volta Wilde esprime tutto il suo dolore e il tormento verso la società e un amore così difficile (nonostante vi sia un'immeritata dedica al giovane amante Bosie in una delle ultime versioni).
La vicenda propone un episodio presente nei vangeli di Marco e Matteo dove Salomè (il cui nome non viene mai citato nelle sacre scritture), giovane figliastra del folle e scellerato Re Erode, chiede al patrigno, invaghitosi di lei, di far decapitare il profeta Giovanni Battista, reo di averla rifiutata.
Questa tragica storia di lussuria, avidità e vendetta, risulta ai posteri talmente potente da generare numerose trasposizioni artistiche, inclusa un'opera di Richard Strauss, quella in 5 atti di Nick Cave, King Ink (1988), citazioni dagli Smashing Pumpkins agli U2 (questi ultimi inclusi nella colonna sonora) e diverse proposizioni cinematografiche.
In questa versione Al Pacino si muove su due binari paralleli, interrelandoli e sfasando in continuazione i piani, convergendo in una visione puramente metacinematografica, dove i mezzi artistici costantemente si incontrano, scontrano, delimitano e ricostruiscono l'uno con l'altro, fino a raggiungere il risultato che ci scorre davanti agli occhi.
Pacino afferma “Wilde Salomè è un esperimento, il mio tentativo di fondere l'opera teatrale e il cinema. I due linguaggi possono quasi stridere, essere in contrasto tra loro (…). Fare in modo che questo ibrido funzioni è stato il mio obiettivo: unire tutta la qualità fotografica del cinema a quell'essenza dell'acting che è propria del teatro.” 
Fondamentale è stata l'ispirazione al lavoro teatrale di Steve Berkoff che convince Pacino a portare in scena nel 2003 Salomè con l'aiuto di Marisa Tomei nei panni della protagonista, sostituita in questa moderna versione da una sconosciuta Jessica Chastain, un misto perfettamente crudele di eros e thanatos. I colori cupissimi e le musiche in scena rendono il tutto molto forte e inquietante, un impatto sorprendente che ci avvicina alla crudezza con cui Wilde la scrisse, del resto Pacino sembra essere ossessionato dall'eminente figura dell'autore allontanato dal mondo, egli ne veste i panni, mischiando scene di vita vissuta dal creatore a scene della sua personale ricerca di ricostruzione minuziosa, ad altre di finzione nella riproposizione on stage. Uno spettacolo che però non convince il pubblico teatrale e Pacino subirà le critiche dei giornalisti accorsi alla sua lettura. Il tentativo di portare a compimento questa morbosa curiosità tuttavia si dimostra decisamente apprezzabile sul finire che dopo anni, e dopo un passaggio al 68esimo Festival di Venezia con un Queer Lion, riesce a trovare una distribuzione italiana (Distribuzione Indipendente), arricchendosi nella versione nostrana di un doppiaggio affidato ad attori che spaziano da Lavia a Sassanelli.
Ripercorrere tutta l'odissea wildiana in poche immagini non è propriamente un compito semplice, come non lo è riuscire a cogliere la fierezza e il dolore che il letterato sopportò a testa alta contro lo sprezzo del mondo, ostinandosi a sfondare il muro di evidenza che rendeva il suo compagno non all'altezza dell'atto di amare. Il più grande dono che Wilde ci ha lasciato è stato sicuramente questa sua lotta anticonformista vissuta dalla parte di un reietto che fino alla fine ha portato avanti, ad ogni costo. Un esempio di assoluto amore e vita dedicata all'arte e di totale coerenza umana, dove i principi e i valori, che non tutti sono capaci di vivere, sono la stessa esistenza la quale, per chi come Wilde, diviene inscindibile dalla morte.
 
Chiara Nucera