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Chilsu e Mansu

Venerdì 05 Agosto 2011 15:25

Questo classico del cinema sudcoreano ha anticipato il movimento esploso agli inizi degli anni Novanta e battezzato con poca originalità new wave, di cui Park Chan-wook e la sua iconica trilogia della vendetta sono figli. Aldilà di abusate etichette, la nuova ondata di registi ha coinciso con un nuovo modo di concepire il cinema nei contenuti e nel ciclo di produzione e distribuzione, un cambiamento che riflette una profonda riorganizzazione della società coreana: l’equilibrio faticosamente raggiunto  dopo l’allentamento della morsa militare e la compiuta “interiorizzazione” della cultura occidentale, che molto presto, con la fine della guerra fredda e dei suoi blocchi, si sarebbe “evoluta” nel fenomeno oggi noto come globalizzazione.

Il film si svolge intorno alle vicende di due uomini di età diversa, accomunati dallo stesso lavoro di cartellonisti e da una simile sensibilità. Per la loro posizione sociale Chilsu e Mansu sono degli emarginati. La Corea che fa da sfondo alle loro vicende è un paese controllato da un regime militare autoritario e oppressivo, negli anni appena precedenti la transizione verso una democrazia liberale: è la Corea della legge marziale e del defense drill, l’addestramento civile alla difesa che di fatto emargina la popolazione, ostacolandone la mobilità e le attività quotidiane. Nella Seul di Chilsu e Mansu tutti sono potenzialmente emarginati, tutti sono outsider, nel nome di un bene collettivo il cui vero senso stenta a rivelarsi. L’unica libertà concessa ai due lavoratori precari (in tutti i sensi, perché parte fondamentale del loro lavoro consiste nello stare appesi a delle funi, sospesi nel vuoto, per dipingere cartelloni pubblicitari), l’unico loro privilegio consiste nel sovrastare visivamente la città dall’alto, dominarla con lo sguardo, un privilegio che però rivela tragicamente tutte le incongruenze dello spazio e della società, e porterà uno dei due, il più anziano e disilluso Mansu, a prendere una decisione radicale.

La società descritta impone all’individuo regole tiranniche. Il suo governo autoritario, con il pretesto del bene comune e attraverso un accentuato paternalismo (coercitivo e coadiuvato da mezzi militari), sembra perseguire interessi privati e strategie finalizzate alla perpretrazione del potere: una delle figure chiave della storia non a caso è il padre assente di Mansu, condannato a un lungo periodo di prigione – praticamente equivalente all’ergastolo – per reati contro lo Stato. Il problema della disciplina è comune a molte società asiatiche in cui il Confucianesimo, che pone il rispetto reverenziale per i genitori al di sopra di ogni altra virtù, ha messo radici profonde, e il destino di Chilsu e Mansu sembra proseguire sulla falsa riga di quello dei padri. Il mondo esterno si affaccia attraverso i cartelloni da loro dipinti (che più che un prodotto sembrano pubblicizzare uno stile di vita) e le locandine di film di successo del periodo, tra cui si riconoscono Top Gun, Arma Letale, A Chorus Line e Il Padrino. L’America stessa, lontana ma dominante dall’alto e vistosa come le pubblicità, è ridotta a un’immagine normativa il cui accostamento con la realtà storica è problematico, se non critico.

Il finale, in cui ogni speranza è preclusa, ma che resta comunque aperto non svelando niente del possibile destino dei due uomini, rappresenta il culmine di questo dramma dell’ironia, intesa come continuo differimento del significato: i protagonisti in cima a un cartellone vengono scambiati dal basso, dalla città che tutto mistifica, per attentatori (con bombe molotov in mano, ma in realtà sono solo innocue bottiglie) e aspiranti suicidi. Il malinteso è soverchiante, aggravato dalla distanza che non permette alle parti contrapposte – i due amici in alto, e le forze dell’ordine in basso – di comunicare. Suggestionato dalla situazione delirante, ma forse solo consapevole dell’impossibilità di una via d’uscita, “mastro” Mansu salta, senza alcuna rete sociale e materiale sotto di lui (si sposta infatti al lato del palazzo, per evitare la rete di salvataggio sotto la facciata), un gesto paradigmatico e consegnato al futuro anche in virtù del congelamento del fotogramma.

Nonostante le premesse e la conclusione, il film mantiene un tono leggero, quasi da commedia, dove il dramma non è mai enfatizzato e tuttavia scorre sottopelle in modo sottile e persistente, lasciando una sensazione di pacata disperazione. Una caratteristica del nuovo cinema coreano, ciò in cui a mio avviso è racchiuso il valore e l’unicità di tutto il “vero” cinema asiatico in generale, è la possibilità di comunicare con un pubblico internazionale e farsi capire pur ricorrendo a un bagaglio emotivo radicato nella cultura autoctona e non (necessariamente) mutuato da tradizioni occidentali come la tragedia greca o il melodramma romantico. Uno dei momenti più indicativi di questo approccio, che segna il culmine della complicità tra Chilsu e Mansu ma anche il momento in cui tutto precipita, arriva a metà del film, quando i soci escono la mattina presto per reaggiungere il centro della città, sede del loro lavoro, e prendono la bicicletta convertita da Mansu in tandem, pedalando di buona lena su e giù per le strade del sobborgo. Sembrano allegri e spensierati, uno stato d’animo enfatizzato dalla trascinante musica pop-folk di sottofondo, e neanche lo scivolone che li scaraventa per terra sembra compromettere la loro serenità, ma prelude a una caduta peggiore e progressiva, coincidente col precipitare delle rispettive situazioni famigliari e della crisi del lavoro.

La città è un elemento fondamentale, perché la sua divisione in zone rispecchia la polarizzazione della società che segna il film dall’inizio alla fine: il centro blindato e al tempo stesso brillante di vetrine, grandi magazzini, fast food, locali notturni, e il sobborgo semi-rurale, con baracche, case fatiscenti e chioschi; a questa polarizzazione corrisponde un’umanità contrapposta:  formalmente impeccabile ma ipocrita e forse anche corrotta l’una (i vari capi dei cantieri, datori di lavoro di Chilsu e Mansu, le autorità e Jina, la ragazza borghese che Chilsu frequenta per un po’), approssimativa e impulsiva, ma anche genuina e generosa l’altra.

Chilsu e Mansu è un esempio di cinema globale nel senso più nobile del termine, perché pur avendo una forte impronta e un orientamento “locali,” con problematiche e modi di affrontarle tipicamente “coreani,” mostra una profonda umanità e una comprensione universale per la natura dell’uomo e la sua sorte nella società moderna, violenta e contraddittoria.

 

Mariagrazia Costantino

Marco Müller, neo direttore del Festival Internazionale del Film di Roma, in una recente chiacchierata con la nostra esperta di cinema asiatico, Mariagrazia Costantino, ha raccontato l’attuale situazione della cinematografia cinese e i suoi possibili scenari futuri. L'importante è non dimenticare che il cinema è una complessa macchina produttiva che affonda le radici nel cuore della politica e dell’economia.

 

Il direttore del Festival Internazionale del Film di Roma ci ha parlato dell’attuale situazione del cinema cinese e di possibili scenari futuri alla luce della sua esperienza di direzione di prestigiosi festival (Locarno, Venezia), ma anche in veste di specialista che si adopera per portare film cinesi in Italia e nel mondo, e formare un pubblico consapevole.


Dalla conversazione con Marco Müller sono emerse nuove modalità di conoscenza e approfondimento critico di un sistema in piena espansione, nella fase successiva alla sua affermazione e in un momento di consolidamento ma anche ridiscussione. E soprattutto un momento in cui il mercato del cinema in Cina sta manifestando il suo pieno potenziale.

Il mercato definisce anche, in

 qualche modo, il cinema cinese in sé. Per Müller non esiste più un cinema “cinese”, come d’altra parte non esistono più cinema nazionali. Ormai quella del cinema è una macchina transnazionale che si avvale della cooperazione di gruppi e società provenienti da continenti diversi. In modo anche più evidente di altri settori, quello cinematografico sta mutando, il baricentro si sta inevitabilmente spostando, come si intuisce dalla crescente presenza di attori hollywoodiani non solo nei film cinesi, ma anche nei festival.

Uno dei paradossi è che in questo scenario, la caratteristica – vero e proprio marchio di fabbrica – che sembra resistere intatta e anzi prosperare più che mai è proprio la censura. Se non è facile stabilire cosa, come sia e dove vada il cinema cinese, c’è ancora oggi un gruppo di persone molto influenti che si preoccupa di stabilirlo per noi.

A questo proposito, abbiamo chiesto al direttore spiegazioni circa la scelta di presentare 1942 (Feng Xiaogang) e Drug War (Johnnie To), i film cinesi in concorso alla VII edizione del Festival del Film di Roma, la prima da lui diretta, come film a sorpresa. Ci ha risposto che si è trattato di una scelta obbligata, perché “regista e produttore aspettavano il visto di censura, che per fortuna è arrivato, ma solo a festival iniziato. Abbiamo dunque dovuto annunciarli come ‘film sorpresa’: solo in questo modo, se fossero stati proiettati senza visto di censura, regista e produttore non sarebbero incorsi nella reprimenda dei censori”.

Non rendere noti i titoli ha dunque permesso di aggirare possibili divieti a ridosso della proiezione e ha evitato ulteriori problemi all’organizzazione e ai registi. Ma in realtà nel 2012 ben pochi film hanno passato la censura, per il concomitante XVIII Congresso del Partito Comunista: questo e la nomina del nuovo presidente lo scorso novembre hanno stretto ancora di più le maglie della censura. “Come avviene tutte le volte, quello che si verifica è un rigoroso controllo della rispondenza ai dettami ideologici che il potere centrale prescrive e di conseguenza una strettissima sorveglianza sui temi che un film deve trattare”.

In circostanze come queste qualsiasi tema diventa sensibile, m
a la storia del paese o riferimenti ad attività illecite e fenomeni criminali come la corruzione costituiscono certamente argomenti particolarmente spinosi da gestire. 


Circa lo stato del cinema cinese, e il punto fino al quale la censura determina scelte artistiche e creative, Müller fa notare che “in Cina c’è un cinema policentrico che comprende tantissime realtà diverse così come tipi di produzioni. Si va dal film minuscolo completamente autoprodotto e a bassissimo budget alle megaproduzioni di colossal”.

La legge sulla censura non è sostanzialmente cambiata nel paese, ma per capire come viene applicata va innanzitutto messo a fuoco il contesto: “più un film è piccolo meno attirerà l’attenzione delle autorità e quindi potrà essere distribuito attraverso canali ufficiali e non”. Va da sé che una grossa produzione dovrà necessariamente essere passata al vaglio e molte volte respinta: “è in questo frangente che si decide se un film potrà essere fatto vedere in tutto il mondo”.

 

 

Temi sensibili, scioperi di lavoratori e agitazioni della popolazione sono inaccettabili, perché il primo obiettivo è quello di intrattenere, far divertire”. Rare volte e in circostanze inaspettate, alcuni film con temi sociali più “impegnativi” riescono a passare attraverso le maglie della censura. Tutto ciò getta luce sull’incongruenza di fondo di un sistema quasi totalmente dipendente dal mercato e dal suo andamento, ma basato anche sulla selezione, un’accurata scrematura di temi accettabili ai fini dell’intrattenimento di massa che il cinema deve assicurare sempre e comunque. E se il mercato come ci è stato raccontato dovrebbe poter garantire maggiore autonomia dai governi centrali tradizionalmente interventisti, anche in questo il sistema cinese rappresenta un’eccezione.

 


All’inizio mi sfugge ad esempio il motivo per cui un film come 1942 di Feng Xiaogang sia incorso nella censura delle autorità: personalmente lo trovo abbastanza in linea con le linee guida del partito. “Mica tanto”, spiega Müller, “nel film si mostra molta chiaramente come la politica e i suoi esponenti non siano stati capaci di fare fronte ai problemi della gente, primi tra tutti la carestia e l’approvvigionamento di cibo. In poche circostanze un regista ha saputo descrivere così bene e in modo così dettagliato la condizione delle campagne. È difficile che si tratti questo argomento in Cina. Certamente il film ha tanti registri diversi ma c’è una bella intelligenza nel rappresentare la continuità tra i nuovi politici e i vari governi del passato”.

 

 


 

Aldilà del colore delle divise o della collocazione storica, il pubblico cinese sa benissimo che il riferimento è alla classe dirigente, compresa quella attuale.

Se agli occhi del regista e del pubblico cui si rivolge, il clima politico è rimasto più o meno invariato, un altro grosso problema con cui fare i conti è l’evocazione del fantasma della fame, il cui ricordo è ancora tristemente vivo nel paese. “In effetti quello della carestia” – ci dice Müller – “è un problema che ancora oggi non si può e non si osa trattare, anche per via del suo legame con le politiche di gestione delle campagne del governo e per le diverse carestie scatenate dalle riforme che si sono succedute a partire dal 1951”.Una domanda che andrebbe bene per un veggente riguarda le possibili direzioni del cinema cinese. Il direttore del Festival di Roma ribadisce che bisogna partire dalla consapevolezza che il cinema nazionale è un concetto ormai superato. L’unico modo per poter immaginare o prevedere le tendenze dell’industria del Cinema in Cina è guardare al mercato: è quello che determinerà la realizzazione di nuovi film e soprattutto la loro ricezione.


La Cina è diventata un mercato enorme che orienterà sempre più la produzione e circolazione di film: “gli incassi di un film americano sul territorio cinese fra due anni potranno probabilmente addirittura superare gli incassi dello stesso film negli Stati Uniti”, e “Il cinema cinese sarà presto – forse in parte già lo è – anche un cinema di produttori cinesi che produrranno film non cinesi”.
Per molti osservatori il cinema cinese, così come l’arte contemporanea, è stato penalizzato da una percezione univoca che ne ha fatto parlare in molti casi come di un “fenomeno”. Per Müller come si sia manifestata questa percezione non è molto chiaro, ma è certo che “nessuno dei protagonisti della circolazione dei film non

-nazionali e non-americani in Europa si è occupato del cinema cinese finché alcuni dei suoi film non hanno iniziato a prendere riconoscimenti ai festival internazionali di Venezia, Berlino e Cannes, ma un simile risultato ha richiesto un grande sforzo promozionale.

Dalla metà degli anni ottanta ci sono stati dei successi del cinema cinese anche in Italia, pur con grossi rischi e difficoltà di budget. Quello cinese (nel senso di produzione cinese con temi cinesi)” – continua Müller – “è diventato un cinema importante all’estero e questo vuol dire che ci saranno interventi dicapitali stranieri nei film cinesi”. Ma non si può dire lo stesso del cinema asiatico nella Cina continentale. Per questo motivo, e per far sì che possa penetrare in Cina, “si stanno formulando e suggerendo ipotesi concrete di cofinanziamento e coproduzione”.


Per capire come funziona il mercato cinese si può usare un film come Sanxia Haoren (Still Life) di Jia Zhangke, Leone d'Oro nel 2006, distribuito in Cina dalla Warner. Uno degli aspetti più interessanti è che un film del genere, che tocca vicende tradizionalmente invise alla censura, a fronte di un’uscita limitata nelle sale è stato un successo clamoroso sul fronte homevideo, in un paese dove questo è ancora e soprattutto pirata”. Sul territorio cinese la vera sfida è dunque creare un mercato homevideo che riesca a sfidare l’invasività della pirateria.

 



Il fatto che fino a venti anni fa o poco più nessuno conoscesse il cinema cinese e che solo a prezzo di grandi sforzi alcuni film siano stati portati all’estero per partecipare ai maggiori festival europei sembra aver innescato un circolo al tempo stesso virtuoso e vizioso, perché se da un lato ha permesso al cinema cinese di trovare un pubblico internazionale, o un pubblico tout court, dall’altro fa sospettare che questi film siano stati realizzati principalmente per un pubblico non-cinese.

Anche per questo motivo quelli che partecipano ai festival diventano in un certo senso film non-cinesi, un altro paradosso mirabilmente esemplificato dal fatto stesso che il film di Jia sia stato distribuito in Cina dalla Warner. Più in generale la risposta di Müller sembra confermare la sensazione che il boom del cinema cinese sia percepito come un fenomeno (e come tale temporaneo), reazione forse derivata da due situazioni concomitanti: una è la necessità di creare un una cornice narrativa che faciliti la “vendita” del prodotto, ovvero abbinare ad esso una storia che lo renda più accattivante; l’altra è un certo scetticismo nei confronti della possibilità del cinema cinese di essere autonomo e autosufficiente. Questa autonomia oggi è garantita dalla forza di un mercato trainato dalla crescita economica.

A fronte di un’“internazionalizzazione” del cinema cinese, il cinema di Hong Kong sembra essersi “sinizzato”. Se infatti non esiste più un cinema nazionale, alcune cinematografie stanno necessariamente perdendo la loro identità o meglio la stanno esportando: è il caso di Hong Kong, i cui maestri, specialmente del cinema d’azione, hanno iniziato a girare nella Cina continentale. A proposito dell’interessante caso, il direttore ricorda che il cinema di Hong Kong è un cinema di eredità sin da subito. Nel 1937, con il trasferimento a Hong Kong delle case di produzione di Shanghai e di tutto l’apparato creativo, l’ex colonia “ha ereditato la possibilità e la capacità di fare film aggirando le vecchie tematiche e gli imperativi della propaganda patriottica e antigiapponese”, sviluppandosi come alternativa che al tempo stesso segna una continuità, con temi e stilemi codificati.

Anche qui non si può fare a meno di parlare di mercato, perché il cinema di Hong Kong non è più autosufficiente come una volta, quando si appoggiava agli incassi e al mercato locale. Resta il prestigio e uno stile inconfondibile, “ma i grossi budget sono ormai elargiti in capitali della Cina popolare e tutti devono passare la censura preventiva di Pechino”. Oggi il cinema di Hong Kong si sinizza perché da lì, dal centro, provengono i grandi finanziamenti, e l’immagine da restituire deve necessariamente corrispondere a quella di partenza. 

Un cineasta come Tsui Hark si è già da tempo abituato a muoversi con una certa agilità tra i tagli imposti dalla censura, diverso è il caso di Johnnie To, regista di culto: di norma “ogni film di Johnnie To (come ogni altro film di registi cinesi di Hong Kong) che viene finanziato, prodotto o coprodotto da una società della Cina continentale, deve passare la censura di quel paese – in quel caso, iniziando dal visto di censura sulla sceneggiatura. A volte, però, Johnnie non ha voluto rischiare di essere bloccato o censurato e ha scelto di non accettare un finanziamento o una coproduzione RPC, accontentandosi del budget che poteva ottenere dai suoi soci di Hong Kong e Macao”.


Tornando al cinema indipendente cinese,  primo amore di Müller, un film come Mister Tree di Han Jie, presentato nel 2011 al London Film Festival, rappresenta per lui la prosecuzione del cinema indipendente. Ma anche Han Jie ha avuto moltissimi problemi con la censura, “il film è stato ritoccato, si è trovato una posizione molto complicata, ha subito tagli e Jia Zhangke in persona è dovuto intervenire per terminarlo”. Lo stesso Jia, che sembra essersi preso una pausa, in realtà non ha mai smesso di lavorare: è solo momentaneamente uscito di scena perché ha iniziato a girare il suo primo colossal – un film di arti marziali.



Infine, ho chiesto al direttore del Festival del Film di Roma il suo parere su Ai Weiwei, un’artista da tempo sulla bocca di tutti, osannato ma anche oggetto di pungenti critiche. Per Müller si tratta di un grandissimo artista, che nel “continente visivo cinese” ha cambiato il modo di guardare. “Probabilmente l’impatto delle sue creazioni salterà fuori anche dentro cinema indipendente e troveremo alcune delle sue scelte radicali anche nel cinema”, infatti “molti dei grandi artisti cinesi sono registi a tutti gli effetti e hanno girato cortometraggi e persino lungometraggi.” Parte del loro percorso artistico include la necessità di registrare la realtà non edulcorata né abbellita nel modo più lineare possibile. Non a caso la tendenza dei cineasti a “documentare” è ancora molto forte all’interno del cinema cinese indipendente.

Abbiamo scoperto grazie a Marco Müller che la definizione stessa di “cinema indipendente” non è impropria e risponde a un’entità reale ed effettiva, ma quello che è emerso dalla conversazione con lui è soprattutto la necessità, oggi più che mai, di spezzare l’incantesimo che grava su un pubblico forse troppo distratto, che non si interroga sull’origine di un film e sul percorso che questo compie, come se si trattasse di visioni che si materializzano dal nulla. Dietro ogni film c’è una complessa macchina produttiva che affonda le radici nel cuore della politica e dell’economia. Una volta conosciute alcune delle infinite ramificazioni che compongono la vita di un film è certamente rassicurante “tornare” sulla poltrona e godersi lo spettacolo, con in più la consapevolezza che quello che si sta guardando è potuto arrivare a noi solo a patto di estenuanti trattative e soluzioni per aggirare divieti, difficoltà di budget e problemi di distribuzione.

Se le parole di Müller sembrano delineare un quadro lievemente incerto, quello che sembra sicuro è che il mercato cinematografico cinese è sempre più maturo. il vero miracolo che il cinema compie è continuare a garantire la comparsa di storie e temi significativi in un contesto generale che rende i compromessi necessari e la censura (che spesso diventa autocensura) ineludibile. D’altra parte più importante della libertà, o del tutto equivalente ad essa, sono oggi i finanziamenti. E se in Italia la censura non opera attraverso le stesse modalità, anche in questo paese i finanziamenti rappresentano il punto critico di un sistema minacciato da un monopolio di poteri politici forti che influenzano le attività culturali in modo consistente.

 

Mariagrazia Costantino

 

..vedi anche http://www.china-files.com/it/link/25499/il-cinema-cinese-intervista-a-marco-muller

Vincent Ward: da Hollywood alle sirene

Lunedì 06 Ottobre 2014 11:47
Abbiamo incontrato il regista neozelandese Vincent Ward, classe 1956, in un’area storica della città di Shanghai, vicino al Suzhou River dell’omonimo film di Lou Ye. Ward è stato in Cina per un ciclo di conferenze, ma anche per il progetto con il quale ha preso parte alla Biennale di Shanghai del 2012. Il regista, vincitore dell’Oscar per gli effetti visivi del film “Aldilà dei Sogni” (1998), “mancato” regista di “Alien 3” (la sua versione mai realizzata del film è considerata un cult dagli amanti del sci-fi) e produttore de “L’Ultimo Samurai” (2003), dopo aver girato film indipendenti incentrati su temi sociali come la problematica integrazione di minoranze etniche e culturali, e seguendo la sua iniziale vocazione di pittore, si è dedicato alla realizzazione di opere video che gli hanno permesso di esplorare la pura immagine in movimento, nei suoi colori e nel modo dinamico che ha di occupare lo spazio e dargli forma, modellarlo con luci e ombre, ma anche con il suono.
 
 
Ward esprime una certa amarezza per l’esperienza hollywoodiana, la stessa che si trova nelle parole di molti registi non-americani che hanno lavorato a lungo nella capitale del cinema mainstream. Non manifesta il suo disappunto in modo esplicito o enfatico, ma dalle sue parole si evince come la frustrazione per una fondamentale mancanza di libertà “creativa” lo abbia portato alla decisione di dedicarsi esclusivamente a progetti lontani dal cinema commerciale e rivolti al pubblico delle mostre d’arte e degli esperimenti “inter” o “crossmediali” che negli ultimi anni, grazie alla comparsa di canali di diffusione sempre più numerosi e differenziati (non ultima la rete), hanno trovato un numero sempre maggiore di estimatori ed esponenti. Si possono citare registi a cavallo tra i due mondi – arte e cinema – come Peter Greenaway e il più giovane Steve McQueen.
 
 
Il caso di Vincent Ward è estremamente interessante nella sua anomala esemplarità: il film più noto del regista è certamente “Aldilà dei Sogni”, premiato nel 1999 con un Oscar per gli effetti visivi. Il film è uno strano ibrido, sottilmente deprimente come forse solo i film “oceanici” – ovvero provenienti da Australia e Nuova Zelanda – riescono a essere (penso a Peter Weir e ai suoi riusciti esperimenti sull’isolamento materiale ed esistenziale di un popolo), ma anche eccezionale dal punto di vista visivo: visioni che prendono vita per diventare paesaggi e rappresentazioni/interpretazioni di paradisi, limbi e inferni evidentemente ispirati alle descrizioni dantesche. Quello che fa Ward è abbinare immagini a un immaginario pregresso fatto di ricordi e atmosfere: per realizzare questa non facile impresa il regista ha fatto confluire nei suoi film la vocazione iniziale per la pittura – ha una laurea in Belle Arti dell’Ilam School of Fine Arts, Università di Canterbury – partendo dalla tecnica di animazione di sfondi dipinti con tecniche tradizionali. Il trattamento delle immagini presente del film sembra però contraddire la sua struttura narrativa convenzionale (e in questo tipicamente “hollywoodiana”), che non rende giustizia all’approccio sperimentale di Ward. Questo approccio sfocia oggi in ripetute incursioni nel mondo dell’arte contemporanea. Uno dei suoi progetti più recenti, come già anticipato, è stato presentato come progetto collaterale alla Biennale di Shanghai 2012 con il titolo di Auckland Station: Destinies Lost and Found e consiste in un’istallazione multi-screen combinata a dipinti su seta: soggetto delle proiezioni sono eteree danzatrici che si muovono all’interno di un cilindro di luce, immerse nell’acqua. Proiettate nell’ambiente scuro e solenne di una chiesa sconsacrata sul Bund – l’area di Shanghai famosa per la sua architettura coloniale che si sviluppa sulla sponda occidentale del fiume Huangpu – queste immagini evocano come in un déjà vu un mondo perduto che non ci è dato conoscere, o che forse appartiene al passato di Ward e alle sue tante vite. Durante l’incontro e la piacevole chiacchierata con il regista abbiamo ripercorso le tappe più importanti della sua carriera e della sua esperienza umana:
 
 
Che tipo di influenza ha esercitato il tuo paese di provenienza, la Nuova Zelanda, sulla tua esperienza di vita e sul tuo lavoro, stile ed evoluzione come regista?
Sono cresciuto in una fattoria nella campagna neozelandese, dove la mia infanzia è trascorsa in solitudine, vagando nelle terre selvagge della mia famiglia. Mia madre, una giovane ebrea tedesca sposa di guerra, ha lavorato duramente per adattarsi alla vita di moglie di un agricoltore, in una famiglia cattolica. Penso che queste circostanze affiorano all’interno del microcosmo delle storie che racconto. L’adolescente protagonista del mio primo film “Vigil” (1984) è spesso solo, mentre in “In Spring One Plants Alone” mi sono calato nei panni di un outsider all’interno di un’isolata comunità insulare Maori.
Se la Nuova Zelanda sarà sempre la mia “casa”, come molti “kiwi” (N.B. modo colloquiale con cui i neozelandesi chiamano se stessi) ho un’indole avventurosa e infatti ho vissuto in molti paesi del mondo. In realtà sono una specie di vagabondo, con una costante fascinazione per le altre culture. La memoria e le storie individuali, di qualsiasi persona, sono una fonte costante di ispirazione. Raggiungere gli spettatori all’interno di uno spazio emotivo e psicologico è essenziale per me: quello che lo spettatore legge in un film, per sua volontà o perchè gli viene dato lo spazio per farlo, equivale almeno alla metà dei dialoghi. I miei film intercettano la psiche del protagonista o degli altri personaggi per esplorare il loro coinvolgimento, sempre unico, nella memoria e nelle esperienze. Nel fare questo spero possano raggiungere una verità sull’esistenza.
Molti dei miei film riguardano amicizie e relazioni tra culture diverse – ad esempio “Map of the Human Heart” (1993), “River Queen” (2005) e “Rain of the Children” (2008) – cosa che deriva probabilmente dalla mia infanzia. La negoziazione tra culture infatti è stata sempre parte del mio contesto domestico. Come già accennato, mia madre era tedesca mentre mio padre neozelandese, perciò ho dovuto sempre cercare di trovare l’equazione tra la mia terra e la loro relazione. 
 
C’è qualche tratto distintivo che puoi individuare all’interno della tua cultura di appartenenza?
Dicono spesso che c’è un elemento lirico e una crudezza di fondo nel mio lavoro. Per esempio in “Vigil” ho cercato di ritrarre il paesaggio misterioso e aspro che fa da sfondo alle vicende di un contadino, un uomo solido, d’altri tempo. Essendo un paese giovane, la nostra relazione con la terra e la nostra identità nazionale sono ancora in via di formazione. Il paesaggio volubile e indomito della Nuova Zelanda è qualcosa che penso pervada la nostra coscienza nazionale e emerga a sua volta in buona parte del nostro cinema più crepuscolare e umanistico (a volte persino gotico). I film sono davvero un fantastico veicolo di espressione ed esplorazione culturale.
 
Puoi dirci qualcosa della tua esperienza a Hollywood?
Ho vissuto a Los Angeles per sette anni. Quello che mi ha portato lì per la prima volta è stata la necessità di trovare una storia originale per “Alien 3”, dal momento che mi era stato chiesto di girarlo. 
In quel momento stava crescendo la mia reputazione di regista in grado di rappresentare una voce originale, in sintonia con le idee dei personaggi, capace di descrivere i loro mondi interiori e di creare universi di forte impatto visivo. La laurea in belle arti mi permetteva una certa abilità nel disegno e nell’ideazione, nonchè nella narrazione di storie. I miei film precedenti erano stati in concorso a Cannes e avevano vinto diversi premi. Ho lavorato ad “Alien 3” e alla sua sceneggiatura per nove mesi, ed è stata un’esperienza decisamente frustrante; tra gli aspetti positivi, c’è il fatto che il tipo di immaginario cui ho dato vita ha conquistato negli anni un grosso seguito cult, però allo studio fece paura l’audacia dell’idea perciò il risultato è che il film esiste principalmente negli articoli e in pubblicazioni come il libro ‘The Greatest Sci-fi Movies Never Made’ scritto da un giornalista del London Times. Mi è stata accreditata la storia ma non mi sono voluto adeguare a quel tipo di compromesso, così mi sono dedicato a un progetto indipendente e ugualmente ambizioso, “Map of the Human Heart”, prodotto da Australia, Gran Bretagna e Canda, prima di ritornare a Hollywood quattro anni dopo.
È stato un periodo entusiasmante. Avevo una piccola compagnia e alcune persone disposte ad aiutarmi, con le quali andavamo soprattutto in cerca di progetti originali, da sviluppare in direzione di una realizzazione materiale in cui potessero confluire le mie capacità e il mio stile. In quel periodo sviluppai un numero di sceneggiature, inclusa quella che sarebbe diventata “L’ultimo Samurai” e un film diretto da me, “Aldilà dei Sogni”, con  Robin Williams. Ho lavorato nella convinzione di poter realizzare una serie di film amibiziosi, dentro e fuori il sistema. Dopo “Aldilà dei Sogni” sono tornato in Nuova Zelanda per fare film più personali e alla fine sono tornato al mio interesse iniziale per l’arte.
 
Cosa ti ha portato a concepire e scrivere What Dreams May Come (Aldilà dei Sogni)?
“What Dreams May Come” è basato su un racconto di Richard Matheson. Quello che inizialmente mi ha affascinato era il potenziale psicologico e scenico di questa storia, narrata dal punto di vista di un Orfeo e ambientata in larga parte nell’aldilà. La mia prima priorità è stata trovare il nucleo del film, un fulcro da cui partire e da reinventare attraverso le immagini e la storia. In pratica ho dovuto prima identificare il concetto visivo che avrebbe trainato l’intero film. La chiave è stata immaginare una vita soggettiva nell’aldilà. Questo quando mi sono reso conto se il personaggio centrale del film fosse stata una pittrice, nuove e fantastiche possibilità estetiche sarebbero emerse. E quindi decisi che il film avrebbe evocato un mondo simile alla pittura dell’Ottocento e Novecento, viva ed emozionante.
Ora che avevo il cardine concettuale, mi restava da capire come dare vita al ricco ambiente materico che volevo creare: per rendere il mondo viscerale della pittura viva che avevo immaginato avrei dovuto osare inoltrarmi in territori inesplorati; dovevo spingere la tecnologia che avrei usato al punto da farla sembrare e “sentire” credibile, far vedere la trama pittorica sullo schermo. Ho fatto scelte che hanno conferito autenticità al progetto: per esempio all’artista digitale specializzato in pittura a olio ho affiancato un bravo pittore per dare forma alle singole pennelate. È così che abbiamo sviluppato una nuova tecnica chiamata “motion painting”, che ha ottenuto un Oscar per i risultati tecnici e visivi raggiunti.
 
 
Cosa è successo con Alien 3?
Fui contattato dai produttori di “Alien 3” perché avevano visto un mio film precedente,”The Navigator: a Medieval Odyssey” e, per usare le loro stesse parole, ne erano rimasti  “sconvolti”. Mi chiesero di unirmi alla squadra e io accettai, anche se non volevo fare una copia degli altri capitoli. Per “Alien 3” ero intenzionato a portare il genere della fantascienza in un’altra direzione. Decisi che la mia storia sarebbe stata incentrata su un gruppo di monaci-ludditi isolati in un monastero satellite nello spazio. Il solito trucchetto del bottone che fa cento cose diventò così cento cose – o meglio cento monaci – che facevano una sola cosa, con la loro tecnologia arcaica. La storia si sarebbe sviluppata in un mondo tanto distintivo da risultare indimenticabile.
Anche se il film non è mai stato realizzato e questa visione non è stata più portata sullo schermo, molte persone sentirono che quell’universo fantastico era in qualche modo nuovo e diverso, forse persino in anticipo sui tempi. Senza alcun tipo di pubblicità, un articolo su “The Wooden Planet” uscito sul Empire Online del 2010 ha avuto 136.000 visualizzazioni solo nella prima settimana.
 
… e con la sceneggiatura de L’ultimo Samurai?
Ho sviluppato le basi di “The Last Samurai” in un arco di tempo di tre, quattro anni, durante il quale ho condotto molte ricerche sul Giappone del diciannovesimo secolo. Avevo avuto anche la fortuna di collaborare con uno scrittore vincitore del Pulitzer entrato a far parte del progetto. Alla fine capii che avrei preferito lavorare come produttore per questo film, per cui scelsi una regista per portare avanti la lavorazione. Anche se devo dire che il prodotto finito mi è piaciuto abbastanza, il mio timore – che poi era anche la logica stessa alla base del film – era che nelle mani di uno studio americano il risultato finale non avrebbe avuto l’integrità culturale cui do sempre la massima importanza.
 
 
Quale pensi sia la direzione che il cinema mainstream ha preso in questo momento? E quale il ruolo di Hollywood in questo scenario?
Il cinema mainstream è diventato come un franchising. Considerate le spese enormi che l’uscita di un film richiede, molto sono diventati cauti e i prodotti più interessanti sono ormai le serie via cavo (penso a Breaking Bad o In Treatment) e occasionalmente qualche esempio di cinema indipendente dagli Stati Uniti. Ovviamente il cinema europeo ha una tradizione più rigorosa da questo punto di vista. 
 
Pensi che questo sistema sarà messo in discussione dall’ascesa di realtà produttive relativamente nuove come quella indiana o cinese?
Non credo, l’America ha una rete distributiva così forte e i film americani sono così popolari presso il pubblico più giovane che continueranno a detenere la loro egemonia in questo settore.
 
Quando hai iniziato a sviluppare i tuoi progetti indipendenti e a considerarli centrali della tua carriera di regista?
Mi sono sempre dedicato a questo. Ho sempre voluto tornare alla mia prima passione – la pittura. Ho iniziato a lavorare a progetti di questo tipo dopo “Aldilà dei Sogni”, sviluppando schizzi e dipinti ispirati alla ricca tavolozza del film. Mi sono dilettato con qualche lavoro negli anni, ma è stato quando la Govett-Brewster Gallery in Nuova Zelanda mi ha chiesto di fare una mostra che l’arte è passata in primo piano. Nei due anni successivi ho partecipato a una serie di mostre in grosse gallerie, devo dire che quel periodo è incredibilmente intenso ma ha segnato un cambiamento che ho accolto con gioia. 
 
 
Per quanto riguarda l’esplorazione del linguaggio artistico, qual è l’aspetto cui sei maggiormente interessato?
La percezione. L’intepretazione delle culture e la disparità. E ancora la psiche, i momenti di trasformazione nel cinema e nell’arte. Il titolo cinese del libro sul mio lavoro scritto da Dan Fleming è Making the Transformational Moments in Film (“Fare Momenti di Trasformazione nel Cinema”) e ritengo che in diversi punti rintracci con esattezza i miei principali oggetti di interesse e studio.
 
Attraverso quali canali vorresti che la gente si avvicinasse ai tuoi lavori?
Tramite media di tutti i tipi. Lungometraggi, installazioni, pittura, fotografia, testi. Per me sono tutti interconnessi.
 
 
Mariagrazia Costantino