A Mumbai, ogni giorno i Dabbawallash raccolgono dalle case degli impiegati, per lo più in periferia, il cibo appena cucinato dalle mogli e lo trasportano in scatole porta pranzo (lunchbox) presso i rispettivi luoghi di lavoro. A fine giornata tornano indietro per riconsegnare le scatole vuote alle casalinghe.
Consegnando oltre duecentomila pasti caldi al giorno, organizzandosi con i più vari mezzi di trasporto, i Dabbawallash rappresentano la spina dorsale della ristorazione aziendale a Mumbai, tanto che il loro metodo di lavoro è stato soggetto ad uno studio di Harvard per l’estrema meticolosità (o quasi).
Lunchbox è la storia di Ila (Nimrat Kaur), casalinga che spera, con le sue ricette speziate, di ridare vigore al suo matrimonio.
Ogni giorno con l’aiuto della zia, una voce quasi ultraterrena che la guida dal piano di sopra, Ila prepara il pranzo a suo marito. A causa di un errore di trasporto quel pranzo non arriva al consorte, ma a Saajan (Irrfan Khan), modesto impiego prossimo alla pensione.
Accorgendosi dell’errore Ila darà inizio ad un rapporto epistolare fra lei e Saajan, che finirà per mettere in discussione le vite di entrambi.
Il regista Ritesh Batra descrive una Mumbai frenetica e affollata; un enorme Lunchbox, in cui i residenti viaggiano schiacciati ogni giorno. Una città apparentemente multicultulturale, ma chiusa, i cui ritmi, frutto di un’inadeguata occidentalizzazione, sembrano annientare i contattati umani e abbrutire gli individui.
Entrambi i protagonisti non trovano serenità nel loro tempo. Lo scambio di lettere fra i due, inoltre, rivela un barlume di nostalgia per un mezzo di comunicazione oramai superato. Due anime alla ricerca di un tempo perduto, fatto di sitcom anni ’80, vecchi Irani cafes e una tranquillità che evidentemente il rapido brulicare della metropoli non riesce a dare. Un tempo perduto per entrambi, solo perché non hanno mai avuto nessuno a cui raccontarlo. Ma, a volte, il treno sbagliato ti porta alla stazione giusta. Nel loro rapporto virtuale Ila e Saajan si scambieranno confessioni sulle proprie vite, analizzando delusioni, paure e piccole gioie di entrambi. Lo scambio quotidiano di messaggi diventa quindi un pretesto per scoprire lentamente le sfumature dei due personaggi.
Saajan, vedovo e cinico, riuscirà ad uscire dalla scatola in cui era stato prigioniero troppo tempo, anche attraverso l’aiuto dell'immaturo ma volitivo collega Shaikh (Nawazuddin Siddiqui). E se la vecchiaia è la morte per chi è ancora in vita, Saajan la supera risorgendo dalle proprie ceneri.
Ila e Saajan si rincorrono senza mai trovarsi, neanche nel delicato finale, forse perché non ne hanno veramente bisogno (almeno a livello drammaturgico); è bastato il loro rapporto epistolare a far mettere in discussione se stessi e fuggire da quella realtà logorante.
Ritesh Batra mette in scena un’opera prima lieve e al tempo stesso toccante, lontana dalle riproduzioni di genere un po’ grossolane di una Bollywood ormai al crepuscolo.
Angelo Santini