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In viaggio con Cecilia

Giovedì 27 Marzo 2014 21:50
Inizialmente concepito come un lavoro biografico su Cecilia Mangini, prima donna a girare documentari nell’Italia del secondo dopoguerra, “Vaggio con Cecilia”, evitando di ripetere un già visto in “Non c’era nessuna signora a quel tavolo” di Barletti e Conte, ha poi virato verso la forma del documentario on the road che racconta la Puglia intrecciando lo sguardo di Cecilia con quello di un’altra regista pugliese, Mariangela Barbanente.
Un secondo spostamento diventa la cifra dell’intero lungometraggio. Quel viaggio riflessivo che doveva percorrere la regione per restituirne i cambiamenti politici, economici, culturali e sociali avvenuti nel tempo lungo di 50 anni (da quella realtà analiticamente raccontata da Cecilia nei suoi 40 cortometraggi a quella dell’estate 2012, momento in cui le due ritornano nella terra d’origine) ha subito, infatti, significativi cambiamenti in corso d’opera. Intrecciando persone e luoghi e lasciandoli parlare liberamente è emerso un ritratto del paese che, se da una parte si presenta in perfetta continuità storica rispetto a quello raccontato da Cecilia (con riferimento ai suoi temi centrali, quelli dell’industrializzazione meridionale, dei cambiamenti socio-culturali relativi per lo più alla nascita di una nuova classe operaia e al ruolo della donna), dall’altra si iscrive entro le regole della ristrutturazione neoliberale di cui il caso Ilva è l’emblema nazionale.
Durante le riprese esplode infatti in tutta la sua virulenza la questione Ilva di Taranto, con l’ordinanza della magistratura che porta all’arresto di Emilio Riva, patron della società, e al riconoscimento della soglia mortale dell’inquinamento prodotto dall’acciaieria. Il sequestro dell’Ilva, il successivo sciopero dei tre sindacati uniti, insieme agli altri eventi dell’estate 2012 hanno rappresentato, pertanto, il roadsign che ha indirizzato gli occhi delle registe, fugando ogni dubbio sul focus d’indagine principale di questo viaggio di ritorno alla terra natia. Tornare, con la telecamera e con la mente, laddove sono stati mossi i primi passi dell’industrializzazione del meridione (con l’Italsider a Taranto e la Monteshell a Brindisi) per rendere conto della trasformazione di quel piccolo miracolo economico in un disastro ambientale, detonatore di problematiche sociali e sanitarie e rivelatore di una serie di fatti correlati: dalla corruzione alle connivenze politiche, dallo sfruttamento dei lavoratori al ruolo di imprenditori-proprietari che lucrano sulla salute dei cittadini.
Oltre all’evidente attenzione al valore cinematografico del film - grazie anche al direttore della fotografia, Roberto Cimatti, e al suo occhio specializzato nell’immagine di paesaggio, che realizza una perfetta simbiosi fra la parola e l’ immagine, fra le incalzanti interviste e le lunghe visioni di Taranto e Brindisi e delle terre che lambiscono le due città – la forza del documentario mi sembra possa rintracciarsi negli appassionati scambi fra Cecilia e gli operai (gli stessi che lei aveva intervistato per il suo “Comizi d’amore 80”), i pescatori, i giovani senza aspettative né sogni, i parenti delle vittime dell’inquinamento prodotto dalle acciaierie. Ma anche nelle incursioni di campo reciproche fra Cecilia e Mariangela che, con sguardo diverso ma complementare, ribadiscono l’urgenza politica di analizzare il reale.  Se Cecilia ha indagato a fondo un’Italia divisa fra boom economico e contraddizioni sociali (avvalendosi dell’aiuto del marito regista Lino del Fra e del gruppo antropologico di Ernesto de Martino) Mariangela ha dato corpo e voce a migranti e braccianti agricole, marginalizzati e invisibilizzati entro il paesaggio postindustriale che fa loro da sfondo (“Sole”, “Ferrhotel”).  Il dialogo fra le due opera un confronto doppio, fra due epoche e due persone che distano più di 40 anni le une dalle altre, annodandosi intorno al grande quesito sul prezzo dell’industrializzazione e sui costi sociali del passaggio alla modernità. L’’inserzione di frammenti dei film della Mangini (da “Essere donne” a “Tommaso”, da “Brindisi 65” a “Monteshell” fino al già citato “Comizi d’amore 80”)  ben incastonati nel racconto, è l’elemento più funzionale a rendere il confronto fra la Puglia – e l’Italia – del secondo dopoguerra e quella attuale, disillusa dalle speranze del riscatto del Mezzogiorno, incapace di proiettarsi nel futuro, impantanata nella corruzione politica, in un mix nefasto di ignoranza e indifferenza, vittima di un fatalismo ignavo che fa dire a Cecilia: “Bisogna imparare a dire di no. Bisogna imparare ad esprimere il dissenso, ad essere francamente contrari a tutto quello che ci succede … e non stancarsi di dirlo”.
Presentato in anteprima al Festival dei popoli lo scorso novembre, “In viaggio con Cecilia” gira ora nelle sale italiane. Nella misura in cui le registe concepiscono il documentario come testardo attaccamento a quell’impegno politico che ci obbliga ad incidere nella realtà, noi spettatori abbiamo la possibilità di riprendere in mano tale diritto/dovere osservando e analizzando quella realtà che giunge fino a noi attraverso l’intermediazione della macchina da presa.
 
Elisa Fiorucci