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Assassinio sull'Orient Express

Sabato 02 Dicembre 2017 11:43
Il noto attore e regista inglese Kenneth Branagh dirige e interpreta una delle più grandi opere di Agatha Christie nei panni dell’iconico ispettore Poirot: “Assassinio sull’Orient Express”. L’intrigo descritto nel romanzo del 1934, passa alle generazioni future con questo nuovo adattamento cinematografico, pensato per essere visto da tutta la famiglia. L’ispettore belga Hercule Poirot, si trova ad affrontare un lungo viaggio in treno in compagnia di  personaggi altrettanto sfaccettati, tra cui l’eccentrica Caroline Hubbard (Michelle Pfeiffer), la giovanissima Miss Debenham (Daisy Ridley) maestra di geografia, e il trafficante di quadri Edward Ratchet (Johnny Depp). Durante una notte “buia e tempestosa” la corsa del treno viene fermata da una valanga e viene commesso un omicidio. Tutti a bordo del treno sono chiamati a rispondere alle puntali domande dell’ispettore, con la certezza che l’assassino sia a bordo della vettura, potenzialmente tutti sono sospettati e nessuno è al sicuro. Il film si regge tutto sulle spalle del protagonista: all’apparenza scorbutico e senza mezze misure nasconde in realtà una grande dolcezza. Dotato di una geniale capacità di giudizio, fin dalle prime scene riconosciamo il suo carattere peculiare, preciso e pignolo ai limiti del sopportabile, meticoloso nell’esaminare ogni dettaglio, baffo arricciato e accento “francese” (ne risente il doppiaggio). Modernizzare un racconto scritto ottant'anni anni fa è stato possibile anche grazie all’accuratezza della scenografia, il treno ricostruito da zero (solo in post produzione arricchito con la CGi) vanta delle carrozze ricche e sontuose, strana mescolanza tra una messa in scena a teatro e un moderno blockbuster. Da qualche anno a questa parte i detective sono tornati di moda grazie anche alla fortunata serie tv su “Sherlock” (2010). Il giallo d’autore di Agatha Christie così come quello di Conan Doyle, meritava una rispolverata, una versione che fosse fresca nuova e appetibile anche per le future generazioni. Senza  la pretesa di convertire l'intreccio in un thriller psicologico e indigesto, nella sua semplicità e onestà di intenti, riesce nell’impresa. Squisitamente british, il cast stellato vanta anche Judi Dench nei panni della intrattabile principessa Natalia Dragomiroff. L’adattamento cinematografico del 1974 di Sidney Lumet resta un classico inarrivabile, tuttavia nell’epoca dei remake, dove i classici della letteratura vengono continuamente stravolti e rivisitati dalla presunzione degli sceneggiatori, Michael Green sotto la guida del regista sceglie di adottare l’unico modo concepibile di approcciarsi a questo genere di romanzi: la fedeltà assoluta.
 
Francesca Tulli
 
 

Star Wars Episodio VIII: Gli Ultimi Jedi

Domenica 12 Febbraio 2017 18:38
“Non hai fede nella Forza, non è vero?” 
Questa domanda la rivolgeva un contadino che sognava in grande, ignaro di quello che gli avrebbe riservato il futuro, a un contrabbandiere disilluso, ma dal grande cuore, durante la loro prima avventura insieme sul Millennium Falcon. La stessa si potrebbe rivolgere a Rian Johnson, sceneggiatore e regista di Star Wars Episodio VIII : Gli Ultimi Jedi, il capitolo più discusso e controverso della saga. Dove J.J. Abrams, con il suo “Il Risveglio Della Forza” (2015), aveva tolto, ridotto, ridefinito a suo gusto, Johnson in piena libertà creativa (con una probabile ansia da prestazione), contemporaneamente alla lavorazione del settimo film, e svincolato dal peso del giudizio che gli avrebbe riservato il pubblico, scriveva la sua versione dei fatti, esagerando su tutti i fronti. “Il Primo Ordine impera” mentre la Resistenza, guidata dal Generale Leia Organa (Carrie Fisher, nella sua ultima apparizione), muove i suoi alfieri, per tentare di salvare ciò che resta della flotta. Il pilota Poe Dameron (Oscar Isaac), in prima linea, agisce di sua iniziativa, portando i bombardieri alleati a scontrarsi con il nemico. Finn (John Boyega), fuori dal suo stato di incoscienza, incontra accidentalmente Rose Tico (Kelly Marie Tran), un tecnico tutto fare, a bordo della nave che lo trasporta. Rey (Daisy Ridley) è sull’isola di Ahch-To, esattamente dove l’avevamo lasciata, per incontrare Luke Skywalker (Mak Hamill), la leggenda. Kylo Ren (Adam Driver) "nato dalle tenebre", il parricida spaccato in due dal suo gesto, riflette sulle sue azioni. Nello specifico la riscrittura, o meglio il completamento del background di questo antagonista, tanto odiato e in apparenza debole e stupido, è uno dei punti forti del film. The Last Jedi dura 2 ore e 32 minuti (è il più lungo della saga), nonostante ciò il girato prevedeva un minutaggio ancora più imponente. Forse per questa ragione, il montaggio è un completo disastro. Un esempio sopra tutti: a Laura Dern –  interpreta l’Ammiraglio Amylin Holdo della Resistenza – viene riservata una delle scene più drammatiche della pellicola, “la scena muta”, ma il pathos viene ‘soffocato’ dalle altre due sequenze che si svolgono in contemporanea. Allo stesso modo la lunghezza della storyline che riguarda Finn e Rose rischia di annoiare (sopecialmete a una seconda visione). Mark Hamill, lo storico interprete del protagonista assoluto di Guerre Stellari, ha espresso i suoi dubbi riguardo lo sviluppo di Luke Skywalker, ammettendo di non aver gradito alcune libere scelte, eccessive e forzate per il suo personaggio: “l’uomo più ottimista dell’intera Galassia” qui è cinico e disilluso. L’attore ha successivamente ritrattato la sua opinione, ponendo fiducia nel regista e nel progetto, allo scopo di ottenere un finale d’effetto. I siparietti comici sono mal dosati: tenendo conto che ci sono sempre stati, Star Wars ha una sua comicità e, nell’euforia di inserire battute e momenti che spezzano la tensione, nel calderone sono finite anche scene eccessive e fuori luogo. Lo stesso accade con le manifestazioni della Forza, più simili a quelle di un super potere. Viene messo in questo modo in discussione quello che abbiamo conosciuto fino ad ora, esteticamente e concettualmente. Non a caso il production designer Rick Heinrichs, noto per essere complice delle visioni di Tim Burton, ha lavorato anche a molti film di genere (tra cui Pirati dei Caraibi e Captain America-Il primo Vendicatore). Sbagliando da principio, alcuni hanno trovato una novità rivoluzionaria nella pellicola, ovvero il valore apparentemente laico, dato al concetto della Forza stessa, come se si trattasse solo in questo film di un'energia presente in tutte le forme di vita e non solo in individui eletti. Niente di nuovo, a meno che non si confondano due aspetti non coincidenti: la Forza e l'addestramento per entrare nell'Ordine dei Jedi "prerogativa di pochi" riconducibile al solo periodo storico in cui sono ambientati i prequels, durante l’ascesa della Repubblica. Rogue One (2016) ha riportato Star Wars al suo equilibrio magico, grazie al quale ogni inquadratura portava l’indelebile marchio cinematografico dell’opera. Le scenografie caotiche di questo nuovo episodio ne conservano una eco: sono stati costruiti dei mastodontici set per gli interni delle astronavi. Si passa dallo scenario stile ‘Bellé Epoque” del Casinò su Canto Bight, per arrivare nella remota isola dove si nasconde Luke (si tratta di Skelling Michael, in Irlanda, patrimonio dell’Unesco). Le creature che la abitano sono in parte digitali e in parte pupazzi e animatroni della imbattibile vecchia scuola. Tra di loro i teneri amati (e odiati) Porg, a metà tra una pulcinella di mare e un roditore, che hanno ottenuto un successo immediato fin dalla loro prima apparizione nel materiale promozionale del film. John Williams, ripercorrendo le sue stesse note, firma anche la colonna sonora di questo capitolo. Gli Ultimi Jedi con tutte le sue defezioni, è una montagna russa di emozioni: confonde, ribalta, ci fa dare "delle testate all’indietro" per le spiegazioni frettolose date in risposta ad alcuni interrogativi importanti. Nonostante tutto guarda al futuro e ci fa restare con lo sguardo fisso verso l’orizzonte. 
 
di Francesca Tulli

Coco

Mercoledì 27 Dicembre 2017 18:40
Parlare della morte ai bambini è difficile, talvolta parlarne con gli adulti è ancora più arduo. Ci sono riusciti Lee Unkrich e Adrian Molina i registi di Coco, l’ultima strabiliante fatica nata negli studi di animazione digitale Disney Pixar. Nella famiglia del piccolo Miguel Rivera la musica è stata bandita, per una vecchia faida familiare. Tutto procede per il meglio nella tranquilla città di Santa Cecila in Messico e mancano pochi giorni alla ricorrenza del Giorno dei Morti, dove i defunti che non sono stati dimenticati, possono scendere sulla Terra a visitare i vivi. Miguel a dispetto di tutti, armato di chitarra di legno coltiva la sua segreta  passione per la musica e in particolare per Ernesto della Cruz, a suo dire il più grande cantautore mai esistito. Solo lo spelacchiato cane di strada Dante (il suo nome non è casuale ma niente paura non gli accadrà niente di brutto, non stiamo parlando di un film di Tim Burton!) assiste alle sue esercitazioni da autodidatta. Si presenta l’occasione di un talentshow e Miguel si affida ai suoi antenati per tentare l’impossibile. Una cascata di petali colorati lo trascina nel regno dei morti, dove c’è solo gioia e nostalgia della vita, uno specchio di felicità dove gli unici a soffrire sono le anime dimenticate. Tra di loro Hector, uno scioccato scheletro che sembra disposto a tutto per tornare dai suoi cari durante la festa del “Dìa De Los Muertos”. A dispetto di una trama apparentemente semplice (capace di parlare anche ai bambini) l’intrigo rivela molti colpi di scena e la pellicola commuove, senza mettere tristezza. Dove la famiglia non ti sostiene, la comprensione passa per il compromesso, i tuoi sogni vengono distrutti prima di potersi realizzare, la forza per andare avanti la puoi trovare da solo. Un insegnamento che arriva dritto al cuore, senza falsi sentimentalismi. Il concetto di famiglia viene allargato mettendoci davanti alla consapevolezza che forse tra i nostri avi, qualcuno che abbiamo conosciuto solo tramite i racconti e le fotografie, ci avrebbe capito. lo studio della scenografia è curatissimo frutto di un viaggio in Messico, da parte della produzione e  la visione dell'aldilà, della città affollatissima di chi è passato (realmente) a miglior vita è assolutamente laica, senza riferimenti religiosi, se non storico culturali. La tradizione Messicana diventa uno strumento per parlare a tutti. Lo stesso espediente era stato affrontato nel film d'animazione Il libro della Vita (2014) di cui Coco non è la copia carbone. La musica è la vera protagonista del film, è veicolo di immortalità. A firmarla è Michael Giacchino (che si conferma uno dei più grandi compositori di colonne sonore di questa generazione). L’edizione italiana è ben curata. Michele Bravi il cantante nostrano vincitore della settima edizione di X-Factor italia, canta la versione del tema principale “Ricordami” nei titoli di coda, e Mara Maionchi, giudice dello stesso talent, messa alla prova come doppiatrice, farà scendere una lacrima anche ai più duri di cuore, nella sua interpretazione di un personaggio definito da lei stessa“ più vecchio di lei”.L'arte la fa da padrona, con la bendizione degli eredi di Frida Kahlo (lo abbiamo chiesto al regista Lee Unkrich, durante la conferenza stampa). Dove l’amore è l’unica forza, oltre la verità, oltre la tradizione, oltre l’oppressione e le frontiere possiamo tranquillamente prevedere, che in un mondo giusto, il premio Oscar per il miglior film di animazione di quest’anno lo abbiamo già trovato. 
 
Recensione di Francesca Tulli

Jumanji: Benvenuti nella Giungla

Lunedì 01 Gennaio 2018 13:07

In principio Jumanji, nel film originale del 1995, con protagonista Robin Williams, era un gioco da tavolo. Era una grossa scatola di legno che conteneva un vero labirinto, le pedine tremavano ad ogni mossa e il tamburo scuoteva la realtà dei malcapitati giocatori costretti a finire il percorso, pena l’essere intrappolati nel gioco o la morte stessa. Nell’azzardato remake di Jake Kasdan Jumanji- Benvenuti nella Giugla, si manifesta sotto la forma di un videogioco “antico” (addirittura a cassette!) dove la modalità è sempre la stessa, dalla trappola si esce solo usando le proprie abilità e imparando a collaborare con gli altri. Spencer è un liceale nerd e sfigato, Fridge è il suo migliore amico cool che non lo fila più se non per copiare i suoi compiti in classe. Martha è la tipa strana e alternativa, Bethany è l’ochetta più bella della classe. Tutti finiscono in punizione per ragione diverse, costretti dal preside della scuola a spillare noiosi documenti. La curiosità li spinge ad accendere Jumanji, un videogame abbandonato dalla grafica 2D vintage e superata. Ognuno sceglie un personaggio (alcuni lo fanno con troppa leggerezza) con delle abilità specifiche e tutti vengono risucchiati dal gioco. Si ritrovano nella giungla, popolata da ippopotami assassini e motociclisti pazzi (Mad Max insegna) con le sembianze dei loro avatar. Spencer magrolino e intellettuale si ritrova (letteralmente) nel corpo di The Rock, Martha diventa una letale Femme Fatale (Karen Gillian), Fridge al contrario si ritrova chili di muscoli in meno e la sua altezza proporzionata al suo cervello (l’attore è Kevin Hart) alla stupida Bethany va peggio di tutti e le tocca l’aspetto di un esploratore cicciottello e codardo (Interpretato dal comico Jack Black). Tra le insidie che li aspettano un giovane Van Pelt (Bobby Cannavale) il cacciatore, il cattivo principale della storia, il boss finale. Gli stereotipi fungono alla morale: non è l’aspetto esteriore che conta, ma l’amicizia e il lavoro di squadra. Tutto fila liscio, l’avventura è una pallida imitazione dei classici di genere  tra Indiana Jones (1981) e il primo film a cui fa riferimento. Manca però di quella “sospensione” che lasciava lo spettatore senza fiato, guardando i protagonisti aggrappati a misere speranze per uscirne vivi, una fortmula che il pubblico adolescente di questa generazione ha conosciuto con la quadri-logia di Hunger Games (2012-2014). La CGi e il green screen la fanno da padrone nella realizzazione delle tante esplosive sequenze d’azione ma la giungla è reale, il film è stato girato alle Hawaii. Adatto ad ogni età questo Remake non fa paura, non cerca l'effetto novità ed è puro, goliardico intrattenimento.

The Post

Giovedì 01 Febbraio 2018 12:38
Una fuga di segreti governativi, settemila pagine rubate al pentagono che dimostrano come la Casa Bianca abbia mentito ai cittadini americani e all’intero mondo per trent’anni, nelle mani di pochi coraggiosi pronti a tutto per amore della verità. Non è fantascienza ma storia, storia recente. Il regista Steven Spielberg (vincitore di 4 premi Oscar candidato ad un quinto per questo film) nel suo ruolo di “professore” ideale si siede nuovamente alla cattedra. 1971, la signora Kay Grahm (Meryl Streep) prende le redini del Washington Post (del titolo) quando era un modesto quotidiano all’ombra degli altri. Al suo fianco, una testa calda il capo redattore Ben Bradlee (Tom Hanks) un giornalista affamato di scoop a cui affida il compito di scansare il pericolo “banca rotta”. Tra facoltosi matrimoni e altre pagine frivole di poco conto, il New York Times pubblica la “bomba” la notizia del secolo. Alcuni documenti trafugati da una fonte segreta, provano il vergognoso coinvolgimento degli Stati Uniti durante la guerra del Vietnam e incastrano inequivocabilmente una lunga catena di Presidenti compreso l’allora vigente incarica Richard Nixon. Un osso duro. La stampa diventa nemica dello stato. Una scissione mai saldata. Questo non intimorisce Bradlee, pronto a tutto per mettere mano a quei files. Anni fa, fu Spielberg stesso a sostenere durante un intervista riguardo “Salvate il Soldato Ryan” (1998)  che: “I giovani impareranno i fatti storici dai film e non dai libri di scuola”. E’ forse il peso di questa responsabilità unita alla sua innegabile passione per il genere a far si che nei suoi film ci sia sempre una accurata e maniacale ricostruzione perfetta nella resa di scenografie e costumi e nella veridicità dei fatti (tralasciando questa volta, qualche voluta licenza poetica per i protagonisti ad opera della sceneggiatrice Liz Hannah). La meravigliosa Meryl Streep (la più a fuoco nel ruolo candidata alla statuetta come “migliore protagonista femminile”)  durante la conferenza stampa (tenutasi a Milano) ha sottolineato l’importanza e il coraggio che le donne come la sua Lady Grahm hanno avuto in queste vicende: svantaggiate dalla morale maschilista, hanno messo in gioco la propria vita, la loro posizione e la loro famiglia per amore della giustizia. Nella corsa per gli Oscar 2018 a cui è candidato a due statuette squadra vincente non si cambia e il compositore John Williams, come da tradizione, firma anche questa colonna sonora non ottenendo però la nomination nella sua categoria. Caratterizzato da una prima parte d’assetto, in cui i fatti si sviluppano lentamente, prende ritmo nella seconda e diventa una corsa contro il tempo, dall’epilogo noto ma non scontato. In The Post la libertà di stampa “diritto dei giornalisti che serve a preservare la democrazia” a detta del regista, si fa metafora della libertà  in ogni campo uscendo dai confini degli USA rendendolo, contrariamente alla recente biografia di Lincon (2012) firmata dallo stesso regista, un film accessibile a tutti.
di Francesca Tulli
 

Black Panther

Martedì 13 Febbraio 2018 09:47
Nel 1966, Stan Lee e Jack Kirby diedero vita a Black Pather, il primo supereroe nero dell’universo Marvel. Con un colpo di coda “a sorpresa” ha fatto il suo primo ingresso al cinema in Captain America: Civil War (2016) dove il giovane Spider-Man aveva offuscato la sua presenza. In questo stand alone a lui dedicato diretto da Ryan Coogler scopriamo le sue origini e l’evoluzione della sua storia. Il principe T’Challa (Chadwick Boseman) rivendica il trono di suo padre e fa ritorno nel Wakanda. Nascosto da un varco infra dimensionale in Sudafrica, da secoli, questa potenza poggia su enorme giacimento di Vibranio il metallo più resistente della terra grazie al quale prospera (lo scudo di Captain America è fatto dello stesso materiale). E’ un paradiso tecnologico, dove modernità e tradizione convivono in armonia. A proteggerlo, lui stesso, ultimo di una discendenza di sciamani a cui la dea Bast diede in dono la “foglia a forma di cuore” un erba magica in grado di  aumentare la forza fisica e consacrarlo al ruolo di Pantera Nera. Al suo fianco Nakia (Lupita Nyong’o) la sua “ex” troppo impegnata negli aiuti umanitari fuori dai confini, per sedere al suo fianco come sua futura sposa e la risoluta guerriera Okoye (Danai Gurira). Sulla terra, Ulysses Kalue (una vecchia conoscenza per gli appassionati dei film Marvel interpretato da Andy Serkis) un contrabbandiere senza scrupoli si avvale dell’aiuto di Erik Killmonger (Michael B. Jordan) uno spietato terrorista, per rubare un manufatto Wakandiano in Vibranio e rivederlo al migliore offerente. Sulle loro tracce l’agente della CIA, Everett Ross (Martin Freeman). Funziona la commistione tra fantascienza e suggestioni tribali afroamericane. Notevoli e originali sono i costumi e la maestosa scenografia. Intelligente è la scelta della colonna sonora firmata da Ludwing Goransson una piacevole commistione di cori ancestrali e Hip Pop. Conserva solo una piccola dose dell’umorismo distintivo dei film a cui ci ha abituato “La Casa Delle Idee” senza che questa vada a soffocare la pellicola. Restando seduti fino alla fine dei titoli di coda, nelle due scene extra, troviamo il collegamento tanto atteso che legherà questo ad Avengers: Infinity War, in uscita a maggio, il definitivo anello di congiunzione tra tutti i film dello stesso filone visti fino ad oggi. Come fu per Thor (2011) scopriamo uno scenario nuovo, dove di base si svolge un impianto scenico “Shakespeariano” accessibile a tutti (la stessa operazione era stata fatta per Il Re Leone, nel 1994, dove la Disney rielaborò Amleto) è una storia di principi e re, inquadra una questione familiare tra padri e figli, che senza annoiare, diventa uno spunto di riflessione sulla politica attuale e sfiora la questione della schiavitù e del razzismo. Sarà la simpatia per il protagonista o lo scenario politico in cui viviamo, dove “gli stupidi costruiscono le barriere” a farci desiderare un futuro migliore al grido liberatorio di: “Wakanda per sempre!”
 
di Francesca Tulli

Il Vegetale

Giovedì 18 Gennaio 2018 12:47
Ne “Il vegetale” il regista italiano Gennaro Nunziante scrive e dirige Fabio Rovazzi, per la prima volta attore (improvvisato) nel ruolo di se stesso. Costui è meglio conosciuto come l’autore delle martellanti hit estive (e non solo) degli ultimi due anni. Partito su You Tube ora cavalca la scia del suo fortunato successo. La vicenda si svolge nella Milano bene, dove, parafrasando un motto in “romanesco” le opportunità lavorative sono “solo nebbia”. Fabio neolaureato in Scienze della Comminazione (fa già ridere così) cerca un futuro. Durante un colloquio importante, si gioca il tutto per tutto, ottenendo solo una mansione umile e degradante. Il rapporto difficile con il padre (Ninni Bruschetta) un poco di buono, traffichino, con una laurea comprata all’estero e una condotta da adolescente, lo sprona a mantenere una rotta diversa e opposta, restando un giovane propositivo, retto e corretto, anche troppo agli occhi del babbo “un vegetale”. A fargli da “padre putativo” per un breve periodo durante uno “stage” un appiccicoso Luca Zingaretti. Nonostante la leggerezza la commedia ritrae un Italia vera, dove nessuno (almeno da solo) ce la fa nonostante gli sforzi, dove la vita può riservare sorprese e fortune ma la realtà è ben distante da quella promessa su i volantini degli annunci di lavoro. Passando dalla caotica vita di città all’esperienza della routine di paese, il concatenarsi degli eventi precipita in una spirale di insuccessi. Il comune di Labro a Rieti dove è stato girato gran parte del film, viene mostrato in tutto il suo ancestrale fascino. Le porte in faccia sono il primo inevitabile ostacolo dei giovani di questa generazione. Scampato il pericolo più grande: la colonna sonora, non è una campagna promozionale dei CD di Rovazzi, intelligente è stato anche l’uso provocatorio del motivetto dell’Inno Nazionale. Il film è dedicato forse ai ragazzi di vent’anni che possono identificarsi di più con il protagonista, ma può essere visto da tutta la famiglia perché non contiene parolacce, abbiamo chiesto al regista il perché. Ha risposto sornione: “Perché Gesù non vuole”, Rovazzi ha ammesso di aver cercato di metterne una, ma è stato freddato. La direzione è evidente, non doveva essere un film volgare accostabile ai cinepanettoni, e non lo è. La sfiga che accompagna il protagonista lo rende simpatico, tenero ma terribilmente passivo, non reagisce mai, non sfoga mai la sua frustrazione, le aspettative deluse non lo abbattono, resta sempre positivo. Questo il messaggio, l’amore trionfa, un amore ideale, dove anche gli attriti famigliari trovano un difficile appianamento, ma la frustrazione di Fabio non si trasforma mai in un moto di ribellione. Esempio da seguire o no, sarà il tempo a dirlo.
 
Francesca Tulli

Ready Player One

Mercoledì 28 Marzo 2018 11:36

Stiamo attraversando un periodo storico culturale in cui è impossibile non accorgersi che la pop-cultura, ha preso piede su ogni campo. Passioni coltivate con sofferenza dai nostri bisnonni (perlopiù americani e giapponesi) a partire da gli anni ‘60, oggi espressione di vanto e simbolo di una generazione che ama definirsi “geek”. Una lunga strada su cui hanno viaggiato ogni tipo di media: dalla musica ai fumetti, dai telefilm ai videogiochi, fino alla realtà virtuale. Il cinema e la letteratura, hanno da sempre alimentato questo fuoco, portando nelle case di tutti, personaggi e storie che nella maggior parte dei casi non si possono non conoscere e sono impossibili da dimenticare. Steven Spielberg padre fondatore, della generazione, che sogna dinosauri e idoli d’oro, si è portato avanti e  qualche anno (o forse mese!) prima che in ogni casa, come è stato per i telefoni cellulari, ci sia un visore VR (ora proprietà solo dei pionieri, disposti a spendere qualche centinaio di euro per stare al passo con le lotte di mercato delle grandi case produttrici) sceglie di adattare, con genuino stupore dell’autore stesso, Ernest Cline, il libro Ready Player One (2010) come veicolo per consacrare questa realtà e aprire gli occhi di ogni possibile fruitore. Siamo nel 2045, il giovane Wade (Tye Sheridan) vive come gran parte del resto del mondo, nello scheletro di un grattacielo, lo sfruttamento delle risorse globali ha arricchito pochi e impoverito molti. Uno scenario apocalittico. C’è una via di fuga: Oasis, la realtà virtuale. Il suo creatore e progettista Halliday (Mark Rylance) alla sua morte, ha disposto che il suo degno successore sarà la persona che attraverso indizi e “Easter egg”, riuscirà a trovare tre chiavi magiche all’interno del suo massificato videogioco ottenendo come premio finale la sua fortunata compagnia. Wade, meglio conosciuto con le sembianze del suo alter ego arturiano Parzival, il suo amico Aech, e la bellissima Art3mis (Olivia Cooke) sono solo tre dei miliardi di giocatori che tentano l’ardua impresa, motivati dalla passione e dalla nobile intenzione di migliorare il proprio futuro, al contrario Nolan Sorrento (Ben Medelsohn) il capo della IOI (Innovative Online Industries) cerca di privatizzare Oasis, per il proprio tornaconto monetario. L’intera vicenda, viene narrata attraverso citazioni e riferimenti che coprono uno spettro impressionate di tempo, da scovare e riconoscere, così da coinvolgere lo stesso spettatore nella caccia al tesoro, sorprendetemene accessibile a tutti. Questa caratteristica non è unica: la saga di Matrix (1999) contava “più riferimenti di quanti se ne potessero trovare” secondo le registe, parodie animate dal demenziale South Park (in particolare le puntate di “Imagination Land” del 2007) e i  due lungometraggi 3D dedicati ai mattoncini: The Lego Movie (2014) e Lego Batman-il film (2017) sono solo tre degli esempi in cui, la stessa formula era stata vincente. Spielberg però fa di più: porta il tutto ad un livello di credibilità superiore a suo gusto, dove la realtà non perde il suo spessore e il virtuale non viene condannato. Prende il nostro immaginario e lo riprogramma come un suo classico, contenente tutta la sua sapienza nel fare cinema. Il mondo è pronto a seguire il primo giocatore. 

Recensione di Francesca Tulli

Nelle Pieghe del Tempo

Giovedì 29 Marzo 2018 12:17
Per alcuni la fisica quantistica e la magia hanno una stretta correlazione. Scomparire tra le pieghe del tempo e finire chissà dove, è un concetto simile alla fantasticheria che finendo dentro un buco nero, si possa raggiungere un regno incantato, come quello oltre l’arcobaleno de “Il mago di OZ” (1939). “Le pieghe del tempo” è un romanzo pubblicato nel 1963, della scrittrice statunitense Madeleine L’Engle (scomparsa nel 2007) criticato inizialmente per essere stato definito "troppo diverso". Nel 2003 la Disney cercando come da tradizione nelle storie del passato temi attualissimi per sviluppare un adattamento cinematografico produsse il liveaction  “Viaggio nel mondo che non c’è” adattamento dello stesso libro che oggi ha riproposto con la regia di Ava DuVernay mettendo l’accento sull’importanza di avere un cast prevalentemente al femminile. Meg Murry (Storm Reid) è una bimba emarginata, nella sua scuola, soltanto Calvin (Levi Miller) il più carino della sua classe, sfidando le oche che la prendono di mira, è pronto a difenderla. Meg è figlia di due menti brillanti, suo padre, il fisico Alexander Murry (Chris Pine) è scomparso in seguito ad una sua ricerca per arrivare ad altre dimensioni attraverso le “pieghe del tempo”. Convinta che non sia morto, guidata dal suo fratellino adottivo Charles Wallace (Deric MacCabe) incontra tre donne misteriose che possono aiutarla, la signora Cos’è (Reese Witherspoon) stramba e apparentemente antipatica, la signora Chi (Mindy Kaling) dolce e premurosa (peculiare perché si esprime solo attraverso citazioni storico letterarie) e la signora Quale (Oprah Winfrey) una vera leader. Tutte e tre hanno abiti straordinari, eccentrici e bislacchi, una vera sfida per il costumista Paco Delgado (lo stesso di Les Misérables 2012 e The Danish Girl 2015) che guarda sia alla moda che al passato dando a Oprah il trucco probabilmente ispirato a quello di Bowie in Labyrinth (1986). L’avventura porta a scenari originali e variegati potenzialmente interessanti. Dove però i dettagli scintillanti hanno dato carattere e appeal alla pellicola, la fotografia e l’abuso di CGI, seppur di notevole qualità, hanno finito per rovinarla. Le tre protagoniste che trainano la prima metà del film sono state poco sfruttate nella seconda parte e nonostante il cast stellare sfortunatamente nello sguardo dei due attori principali manca il (vero) stupore per la meraviglia e per l’avverarsi dell’impossibile. I due piccoli eroi riescono a fare tutto senza farsi troppe domande, davanti alle insidie proseguono senza alcuna difficoltà reale, portando il trionfo del bene sul male ad un livello di incredulità difficile da elaborare. Tuttavia la pellicola è innocente come il pubblico di bambini e bambine a cui è destinata, meglio se interessati alle materie scientifiche e promuove dei modelli femminili forti e encomiabili.
 
Di Francesca Tulli           

SOLO: A Star Wars Story

Mercoledì 23 Maggio 2018 11:36

"Presuntuoso, strapezzente e cafone" così Han Solo venne descritto, dalla sua amata principessa Leia in “Star Wars Episodio V: L'Impero Colpisce Ancora" (1980). Orgoglioso ma dal grande cuore Han, è uno dei personaggi più amati della Saga. Oggi Ron Howard ripercorre la sua gioventù nel suo “Solo: A Star Wars Story”. Siamo nei bassifondi di Corellia, un pianeta povero, gli abitanti sopravvivono grazie al contrabbando: scambiano oggetti di valore per guadagnarsi da vivere. Due innamorati sognano un futuro migliore. Lei Qui'Ra (Emilia Clarke) è una ragazza spregiudicata, lui Han (Alden Ehrenreich) uno spericolato pilota. Vengono separati alla frontiera, Han finisce con l' Iscriversi all'accademia Imperiale dove conosce l'orrore della guerra. Saranno Tobias Beckett (Woody Harrelson) e la sua banda di pirati a tirarlo fuori dal fango. Han però non può sapere che dopo questo fortuito incontro, dovrà vedersela con l'organizzazione criminale Alba Cremisi retta dal dallo spietato Dryden Vos (Paul Bettany) e non potrà più fidarsi di nessuno. 'Solo' è il secondo spin-off dopo il memorabile “Rogue One” (2016). Nonostante non abbia gli stessi toni drammatici e lo stesso pathos, mantiene le stesse atmosfere, quelle tipiche di 41 anni fa. Gli scenari trasudano fumo e polvere, come in un western. La regia cerca di rievocare di continuo delle scene iconiche della vecchia trilogia, e omaggia finale de 'Il buono, il brutto, il cattivo' di Sergio Leone. Chi non ha familiarità con Star Wars, lo troverà un film godibile d’avventura al contempo i fans potranno riconoscere le citazioni sparpagliate qua e là e avranno, la soddisfazione di vedere come il protagonista abbia fatto la leggendaria "Rotta di Kessel in meno di 12 parsecs" e abbia messo le mani sul Millennium Falcon l'astronave di Lando Calrissian (interpretato qui da Donald Glover). La persistente colonna sonora è firmata da John Powell e vanta anche il tema principale composta dallo stesso John Williams. Una nota di merito va spesa per il  dipartimento responsabile della creazione delle creature e degli alieni, che hanno plasmato con le tecniche tradizionali (pupazzi e anima-troni della vecchia scuola) e la CGi un mix perfetto. Il film ha avuto un cambio di regia (inizialmente affidata a Phil Lord e Chris Miller) per questo probabilmente ha una risoluzione frettolosa sul finale, ma non è privo di sorprese e colpi di scena. Il protagonista risente del confronto con l'equiparabile Harrison Ford, ma dà il suo massimo. Lontanissimo dal gusto di “Episodio VIII: Gli ultimi Jedi” (2017), è stato pensato per un pubblico di appassionati, non cerca la novità, ma da forma, alle scene soltanto immaginate nelle menti dei fans, che non avrebbero mai sognato di vedere le avventure solamente accennate dai racconti dei protagonisti prendere vita sullo schermo. Nostalgia e puro intrattenimento. 

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