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Visualizza articoli per tag: francesca tulli

Logan - The Wolverine

Mercoledì 01 Marzo 2017 18:42

Tormentato, stanco di combattere, rassegnato ad una vita 'normale' Logan, che risponde al nome di Wolverine il mutante con lo scheletro di Adamantio,  che non dimostra mai la sua età perché in grado di rigenerarsi, appare per la prima volta 'invecchiato' nella pellicola scritta e ideata dal regista James Mangold. Nel 2029 un terribile virus nato dal Progetto Transigen ha decimato i mutanti, che sono sull’orlo dell’estinzione. Logan (Hugh Jackman) stanco di fuggire e di essere braccato come un animale, sceglie di fare l’autista in Messico e si nasconde presso una fonderia abbandonata con l’ancora più emerginato Calibano (Stephen Merchant). Il suo lavoro gli permette a malapena di portare a casa un salario che serve alla sua sopravvivenza e a quella del suo “ex professore”il telepata Charles Xavier (Patrick Stewart). ‘Il professor X’ ha continue crisi distruttive e vive la vecchiaia divisa dal rimorso per aver accidentalmente provocato la morte di alcuni dei suoi alunni mutanti e lo sforzo per non impazzire. La vita di Logan viene sconvolta dall’incontro con l’infermiera Gabriela, che gli affida il compito di condurre Laura, la sua bambina di 11 anni, in un posto chiamato “Eden”. La piccola silenziosa, mostra chiari segni di forte disagio e con l’evolversi della vicenda, si rivela una mutante, una vera macchina da guerra che attira su di sé l’attenzione dei Reavers, criminali cyborg senza scrupoli che costringono Logan la bimba e il vecchio Xavier a fuggire per sempre. Comincia un Road Trip cruento, dove ogni mano tesa verso i nostri eroi viene  tagliata e lo scenario catastrifico si allarga a macchia d’olio. L’atmosfera polverosa, apocalittica, l’aria rarefatta, il sangue versato, il legame tenero e straziante di questa strana famiglia improvvisata, dove Logan si ritrova un vecchio mentore “padre” paralitico da accudire, da sorreggere e “una figlia” non sua, inizialmente non voluta, portando anche il suo fardello, crea una strana metafora dove sulla scena compaiono presente passato e futuro di un mondo in rovina. Chi conosce i fumetti della Casa delle idee Marvel, agognava un film adulto sugli X-Men, laddove i precedenti stand alone su Wolverine (Le Origini del 2009 e L’immortale del 2013) avevano trasversalmente fallito. Logan convince e sorprende per la sua amarezza di fondo. Decisamente lontano dal target della saga cominciata con “X Men” del 2000 (che conta un franchise di 10 film in totale), è stato vietato in Italia ai minori di 14 anni. Hugh Jackman interprete storico del personaggio da diciassette anni, si ritira dalla scena con questa veste inedita, ripagando gli appassionati per tanta dedizione e amore per il suo personaggio.

Francesca Tulli

Kong: Skull Island

Giovedì 09 Marzo 2017 16:29
King Kong, sovrano dell’immaginario collettivo dal 1933 fin da quando dalle mani del maestro Willis O'Brien ne uscì una delle creature in stop-motion più importanti della storia del cinema, torna oggi protagonista in una veste rigenerata, grazie alla buona Cgi dell’Industrial Light&Magic nel nuovo film “reboot” del giovane regista Jordan Vogt-Roberts. L’organizzazione scientifica Monarch, dispendioso reparto degli Stati Uniti alla caccia di creature sconosciute ritenute solo fantasie dalle autorità vigenti, indaga nella regione inesplorata in cui aerei e navi continuano a scomparire, l’Isola dei Teschi. Nella terra dove “Dio non ha finito la creazione”, l'equipe di scienziati e geologi si fa accompagnare dalla squadra Grifone, un gruppo di soldati scanzonati capitananti dal colonnello Packard (Samuel L. Jackason) e da James Conrad (Tom Hiddleston), un ex capitano della S.A.S britannica ‘mercenario’ qualificato a protezione dei civili nelle situazioni ostili. La fotografa di guerra Mason Weaver (Brie Larson) si unisce alla sfortunata spedizione. Superate le nubi dell’ignoto a bordo di elicotteri fatiscenti, nella tradizione, per i nostri eroi si prospetta un viaggio senza precedenti. Presentato senza vergogna dal regista e dal cast come un ‘Monsters Movie’ dove mega lucertoloni, katane giapponesi, indigeni e ‘templi maledetti’ la fanno da padrone, Kong si porta sulle spalle la nostalgia degli anni ‘70 in cui è ambientato. Il montaggio imperfetto e alcune ingenuità nella seconda parte del film si fanno perdonare.  La fotografia omaggia Apocalypse Now (1979) e, come in “Cuore di Tenebra” il romanzo da cui fu tratto di Joseph Conrad (a cui il protagonista di Skull Island “ruba” il cognome), la guerra e la sua inutilità sono al centro di tutta la vicenda. Abituati all’inganno del green screen, si apprezza il fatto che il film sia stato girato in vere location in Vietnam, alle Hawaii e in Australia.  La colonna sonora di Henry Jackman è arricchita da miti senza tempo come “Paranoid” dei Black Sabbath e “Ziggy Stardust” dell’intramontabile Bowie (soltanto due delle nove canzoni di repertorio scelte).  Polvere e  tramonti, tre giorni di avventura “old fashion” nella giungla popolata da creature che si ispirano ai kaiju giapponesi e ne portano le caratteristiche, così da poter immaginare che i prossimi preannunciati seguiti, potrebbero essere la spinta per un futuro scontro fra titani come avvenne in passato (Gamera tai daiakuju Giron-1969). Doveroso il confronto con il più recente  remake del 2005 di Peter Jackson ‘King Kong’, diversissimo sotto tutti i punti di vista. Laddove Jackson puntò su di un’isola chiassosa, dove dinosauri e insetti giganti portavano la sua inconfondibile firma splatter, Jordan si rifà al primissimo Kong, riproponendo scene del classico nell’impianto di una storia totalmente nuova, minimalista, semplice, dove il feroce re dell’isola perde la sua cieca cattiveria primordiale e diventa il simbolo stesso della forza della natura, bellissima e al contempo terribile, a riprova che “il nemico non esiste finché non te lo vai a cercare”. 
Se aspetterete la fine dei titoli di coda non resterete delusi.
 
Francesca Tulli

Alien Covenant

Giovedì 11 Maggio 2017 13:05

Trentotto anni fa, lo stesso regista Ridley Scott, esplorava le remote regioni dello spazio attraverso le disavventure della nave Nostromo. Prima ancora di introdurre l’umanità dentro le pagine scritte da Philip K. Dick con Bladerunner (1982), portò a compimento Alien (1978), introducendo nell’immaginario collettivo una nuova concezione di fantascienza, costruendo androidi capaci di empatia e creature eleganti, feroci e letali. Disegnato dall’artista surreale svizzero H.R. Giger a cui dobbiamo le note sembianze disturbanti, organiche e allo stesso tempo impregnate di erotismo della creatura e sceneggiato dal geniale Dan O’Bannon, che dichiarò di aver “rubato” l’idea per il soggetto “non in particolare a qualcuno ma un po’ a tutti” (e di quei ‘tutti’ ricordiamo ‘Il pianeta proibito’ e ‘Terrore nello spazio’), Alien ha avuto una discendenza di tre riconosciuti seguiti e due prequel, Prometheus (2012) e la continuazione Alien Covenant (2017). La missione di colonizzazione della Covenant, che con sé trasporta il futuro dell’umanità, viene bruscamente fermata da una anomalia. L’equipaggio, costretto ad interrompere il riposo accelerato indotto dal crio-sonno, perde il suo capitano. Daniels (Katherine Waterston), moglie del compianto capitano ed  esperta di terraformazione, assieme al resto della crew è costretta ad accettare come nuovo comandante Cristopher Oram (Billy Curdup) avventato, ingenuo e pieno di sé. Davanti alla prospettiva di trascorrere anni per riprendere una rotta sicura, scelgono di accorciare il viaggio e atterrare su di un pianeta abitabile, un paradiso apparentemente incontaminato, mossa che si rivelerà azzardata. Al centro della vicenda l’androide interpretato da Michael Fassbender, affettato, efficiente, l’occhio filosofico all’interno dell’impianto  scenico. Diverso dall’infido Ash del primo film, meno umano di Bishop eroe del secondo Aliens: Scontro Finale, ci mostra due facce diverse. Il film gode di una inconfondibile fotografia, l’estetica di Alien non può essere standardizzata o confusa con quella di nessuna altra saga. L’orrore già provato, la pelle d’oca già sentita, l’inevitabile sensazione di tensione che con una dinamica familiare ci riporta indietro di anni, genera una confusa sensazione di dèjà vu, mescolanza di nostalgia ed effetto remake. Manca un personaggio chiave con la forza trascinante che Sigourney Weaver, metteva nel ruolo di Ripley, non si riesce a provare una vera empatia per nessuno dei protagonisti umani, se non una simpatia per Daniels che ricorda per look e caparbietà la nostra ‘Astro’Samantha Cristoforetti. La creature stesse, soffrono della mancanza di perfezione creata dai pupazzi di Rambaldi, resa troppo veloce dalla CGi: nei movimenti meno ‘aracnide’ e più ‘dinosauro’. Nonostante questi difetti, il film riesce, attraverso geniali citazioni e mantenendo il mistero sulle figure degli Ingegneri, nella sua missione:  dare una efficace spiegazione riguardo le origini di questo essere “non offuscato da coscienza, rimorsi, o illusioni di moralità”. 

Francesca Tulli

“Tutto è meglio con i pirati” nessuna frase può spiegare meglio come una storica ‘ride’ a tema (dicasi anche nel nostro paese “trenino”) fatta di animatroni e scenari teatrali dei parchi Disney sia diventato un fortunato franchise di intrattenimento. Dopo quattordici anni dal primo film della serie “La maledizione della prima luna” (2003), Joachim Ronning dirige il quinto “La vendetta di Salazar” (il titolo originale è più evcativo  “Dead Men Tell no Tales” . Il giovane Henry Turner (Brenton Thwaites) fin da piccolo, giura a suo padre Will (Orlando Bloom) che riuscirà a trovare lo Scettro di Poseidone,  un oggetto divino creduto leggenda, in grado di salvare suo padre dalla terribile maledizione che lo lega per sempre all’oceano. Caryna Smith (Kaya Scodelario) messa alla gogna come strega per la sua passione per l’astronomia è in possesso della mappa che può condurlo là. Salazar, il fantasma di un pirata spagnolo, vuole lo stesso manufatto per tornare umano e cerca vendetta contro un noto bucaniere svitato e fin troppo inebriato dal Rhum. Jack Sparrow (l’inconico personaggio interepretato sempre da Johnny Deep) caduto in disgrazia, con un equipaggio sgangerato composto di pochi amici fedeli ma svogliati, ha scelto una vita di rapine e saccheggi, a terra, senza più cedere alla tentazione di andare per mare. E’ in possesso della mitica bussola “che punta sempre verso ciò che desidera di più al mondo” oggetto che tutti vogliono per raggiungere il tridente. Le storie dei protagonisti si intrecciano e creano una serie di eventi concatenati e come si conviene mirabolanti e assurde avventure. L’esagerazione la fa da padrone e la spasmodica ricerca di nuovi espedienti per rendere la storia diversa dalle precedenti, rendono la pellicola una garantita dose di intrattenimento adatta a qualsiasi età, composta da una matassa di effetti visivi di qualità, cullata dalla colonna sonora di Geoff Zanelli. Dalla CGi mescolata con il trucco tradizionale nascono i “Non vivi” i set reali, sfasciati e fatti esplodere ad hoc, per quanto eccessivi rendono l’atmosfera. Il quarto film della serie Oltre i confini del mare (2011) era una storia riuscita ma slegata dalla trilogia, qui ogni tassello va a completare un quadro già noto, senza l’obbligo di un ripasso generale. Johnny Deep è sempre uguale a se stesso,  ringiovanito dal trucco, l’attore che scelse di fare il pirta per suo figlio (non è un caso che il suo nome sia proprio Jack) riesce nel suo inteneto di far ridere, più di altri, Sparrow, lo incatena come una maledizione al ruolo del pirata scanzonato, mettendo in ombra i suoi personaggi precedenti specialmente quelli di Burtoniana memoria. Eccezionale Geoffry Rush, nel ruolo di Barbossa, l’antagonista per eccellenza della saga, ci regala una perfomance inaspettatamente commovente. Diverte, intrattiene e nel suo genere, si distingue. Un avviso: restate fino alla fine dei titoli di coda, come avete fatto per i precedenti.
 
Francesca Tulli

Spider-man: Homecoming

Giovedì 06 Luglio 2017 22:21
Il giovane regista statunitense Jon Watts, alle prese con il suo primo film Marvel (prodotto dalla Sony e distribuito da Warner) si cimenta nella terza versione di Spidy al cinema. Dopo lo scontro fratricida tra gli “Eroi di New York” visto in Captain America: Civil War (2016), Peter Parker (Tom Holland) quattordicenne torna a casa (come suggerisce il titolo) dalla cara zia May nel Queens. Dopo essersi sentito indispensabile per Tony Stark (anche conosciuto come Iron Man, intramontabile Robert Downey Junior) grazie ai suoi poteri di Spider-man le sue giornate in vista di essere richiamato per una missione speciale, sembrano non finire mai. Stanco di correre dietro ai ladri di biciclette, aspetta con impazienza che si presenti per lui l’occasione giusta per farsi notare dagli Avengers. La sua monotona vita al college è divisa tra le prove per il Decathlon Accademico con l’inseparabile amico Ned (Jacob Batalon) e le figuracce collezionate nel patetico tentativo di attirare l’attenzione di Liz (Laura Harrier) la bella della scuola. Nessuno è al corrente della sua identità segreta. Nel frattempo, in possesso illegale di tecnologia aliena, trafugata dai resti dell’attacco dei Chituari (Avengers, 2012), Adrian Toomes (Michael Keaton), un ‘povero’ spazzino in cerca del riscatto sociale sostenuto da un gruppo di criminali, crea armi micidiali da vendere sul mercato nero e nelle profondità del suo covo si costruisce un’armatura alata. Destinati a scontrarsi, i due sono legati da un insospettabile epilogo. Fiumi di parole, hanno accompagnato le evoluzioni cartacee e non del’ Uomo Ragno, dalla sua creazione nel 1962, Stan Lee, padre degli eroi, l’unico che potrebbe mettere bocca riguardo gli adattamenti cinematografici delle sue creature, trova tutt’oggi che alla serie tv del 1970, mancassero i giusti effetti speciali per rendere al meglio il personaggio, lacuna che con gli anni, secondo le possibilità, ad ogni rifacimento, è stata colmata. In Homecoming, la ILM ha trattato Peter Parker come ogni altro personaggio, ‘inedito’ o ‘riadattato’ cercando il ‘nuovo’ negli effetti visivi, mantenendo le sue storiche capacità. Tutto l’impianto urla alle nuove generazioni  “dimenticatevi dei recenti ‘Amazing’ e della trilogia di Sam Raimi” ora Peter Parker ha un suo posto nel’MCU, è un personaggio “nuovo” ma non così “diverso” da come lo conoscete. L’enfant prodige fa breccia con i soli due elementi che non dovevano assolutamente mancare alla pellicola :’ironia’ e i super problemi. Il compositore Michael Giacchino riutilizza le note del tema principale, senza peccare di presunzione. Di supporto, il signor. Robert ‘Stark’ Downy Junior non mette in ombra il protagonista, permettendogli un ampio respiro durante l’azione. Iron Man smette di oscurare ogni altro personaggio dietro al suo ego. Geniali le comparse di Chris Evans nei panni del ‘Capitano Ameircano’. Solo un ritmo altalenate, tra cliché e forzature (specialmente riguardo ad un certo ‘famoso’ personaggio femminile) generano dubbi per la riuscita dei seguiti del franchise. Nel film il tutto è controbilanciato anche dalla performance di Keaton, che sembra prendersi gioco del suo ruolo in Birdman (2014). ‘Grandi responsabilità’ , per l’attuale strapotere dell’universo cinematografico della ‘Casa delle Idee’ i fili delle ragnatele non si spezzano in questo film, sperando che restino così salde anche in futuro.
 
Francesca Tulli

Transformers L'Ultimo Cavaliere

Giovedì 22 Giugno 2017 22:34
Dopo estenuanti battaglie combattute sul pianeta Terra, tornano i Transformers con la regia eplosiva dello statunitense Michael Bay. Spinto dalla sete di conoscenza il buon leader del gruppo degli Autobot, Optimus Prime si spinge verso Cybertron, il pianeta natale della sua razza. Qui viene sfidato da Quintessa, la sua creatrice, una “regina” tiranna che vuole sfruttarlo a suo vantaggio per conquistare la terra. Sul nostro “pianetucolo”, i Transformers decimati, dichiarati illegali, senza distinzione di intenti, vengono cacciati, imprigionati e massacrati. A proteggerli solo Cade Yeager (Mark Wahlberg) il suo team di sgangherati sopravvisuti e una bimba orfana con grandissime conoscenze nel campo della meccanica Izabella (Isabella Moner). Megatron (storico villain della serie) a capo dei micidiali Decepticon, presentati con tanto di nome impresso sullo schermo, come nella la migliore tradizione (lo fece anche Quentin Tarantino per Kill Bill) trama la sua vendetta. Quando la speranza di vincere sembra lontana con il peso di un’azione governativa inutile e imbecille a mettere sempre i bastoni fra le ruote (è il caso di dirlo!) la soluzione ad ogni problema risiede nella magia passato. Sir Edmund Bruton (un generoso Anthony Hopkins che non si è fermato davanti al nome del franchise), custode dei segreti che riguardano un legame mistico tra Re Artù, Merlino e i robot multifunzionali, ’convoca’ la professoressa, filosofo, pressocché ‘onnisciente’ bionda mozzafiato Vivian Wembley (Laura Haddock) nella sua dimora in Inghilterra, per rivelarle più di quanto avrebbe mai immaginato, preparato all’imminente apocalisse. Quinto film della saga, massacrato dalla critica, generalmente severa con il regista, è (come i precedenti) un blockbuster che vanta tra i migliori effetti speciali in circolazione, merito della ILM. Oltre che essere tra i pochi film sui robot sul panorama attuale. Se Pacific Rim (2013) di Guillermo del Toro omaggiava egregiamente i Robot Anime giapponesi (servendosi anche di affasciananti tecniche tradizionali) la saga dei Transformers resta fedele alle sue origini Ibride. Il brand made in USA, inventato per la linea di giocattoli Hasbro nel 1984 è stato successivamente (nello stesso anno) acquisito dalla giapponese Toei Animation per l’omonima serie di cartoni animati. Scavare nella pellicola per cercare una sceneggiatura cervellotica, è un esercizio inutile: fin dal primo capitolo del 2007, il film è stato pensato e voluto per restare “un gioco” rivolto ai ragazzi di oggi e di ieri, che nella semplicità di concetti come “il sacrificio” “l’appartenenza” e “la giustizia” possono provare empatia verso le loro controparti meccaniche. Al contrario l’incapacità del regista di gestire le mille sottotrame e le aspettative sui personaggi sono punti che pendono a suo sfavore. Sfiorato il pericolo di annoiare, con la martellante voglia di mostrare troppo, come si era fatto per “Transformers: Dark of The Moon” (2011) resta una buona esagerata fantastoria dedicata a chi ha ancora una (sana) voglia di sentirsi bambino.
 
Francesca Tulli
 

Dunkirk

Domenica 27 Agosto 2017 21:26
Conclusa la ‘Strana Guerra”, tra il 26 maggio e il 3 giugno del 1940, le forze tedesche della Wehrmacht spazzarono via il corpo di spedizione inglese e le forze stanziali francesi, durante la battaglia di Dunkerque. Costretti ad una ritirata strategica, 400.000 uomini, vennero miracolosamente salvati. Quello che il regista Cristopher Nolan ha voluto farci conoscere (e ‘patire’) è la pena di questi soldati. Attraverso un accurato studio della storia recente, per oltre venticinque anni ha perpetuato una ricerca che lo ha portato a ‘Dunkirk’ la sua ultima encomiabile fatica. Tommy (Fionn Whitehead) giovane valoroso della British Army, costretto a fuggire da ogni situazione in attesa del “miracolo”, si ritrova ad allearsi con Gibson (Aneurin Barnard) coetaneo superstite a cui sembra toccata la stessa sorte. Condividendo una terribile corsa contro il tempo per assicurarsi un posto sulla nave ospedale, portano in salvo un altro commilitone Alex (Harry Styles) e con lui continuano questo viaggio disperato. L’anziano sognatore Mr. Dawson (Mark Rylance premio Oscar 2016), suo figlio Peter e un altro bambino suo amico,George, rispondono alla chiamata della Royal Navy e con la loro piccola imbarcazione civile, si spostano in mare aperto per aiutare i soldati a tornare in patria. Contro ogni pronostico, l’imbarcazione destinata alla deriva, porta il suo contributo verso un destino inaspettato. Il comandante Bolton (Kenneth Baranagh) e il suo secondo il Colonnello Winnant (James D’Arcy) coordinano i soccorsi da lontano, sperando nella buona riuscita dei piani di Churchill. Così come per terra e per mare si continua a lottare, in cielo, come avvoltoi su di una preda, tre Spitfire soccorritori Farrier (Tom Hardy), Collins (Jack Lowden) e il loro caposquadra (Cillian Murphy) volano senza tregua, nel mirino dei caccia tedeschi. Uno scenario su tre fronti diversi, tre linee temporali distinte (e a tratti confuse), la prima della durata di una settimana, la seconda di un mese, la terza di un’ora, concentrati in 106 minuti di pellicola. La matassa si sbriglia faticosamente, con l'increscevole ansia che l’accompagna. A fare da anestetico le splendide musiche di Hans Zimmer, balsamo per le orecchie, e gli incredibili effetti sonori. Degli Spitfire, a distanza di giorni, si possono udire gli spari al solo rievocare l’esperienza audiovisiva (si aprono scommesse sulla quantità di premi tecnici che questo film vincerà agli Oscar). La ricostruzione degli scenari è  visivamente ineccepibile, considerando che è stato girato nella vera Dunkuerqe e solo  in parte negli studi di Los Angeles. La forza visiva delle immagini soffoca  la sceneggiatura tanto che  il regista aveva perfino pensato di farne a meno, dissuaso poi in seconda battuta. Schiacciati dal peso della coscienza, con la sola colpa di essere vivi, i protagonisti quasi “anonimi” (o meglio “ignoti”) ci portano ad una riflessione più quotidiana sull’effettiva importanza dell’essere vivi. Come “Inception” (2010), strutturato a scatole cinesi, sfrutta l’autenticità del dramma per colpire il nostro immaginario. Estenuante e faticoso, come la guerra che racconta.
 
Francesca Tulli

Baby Driver

Giovedì 07 Settembre 2017 17:55
Nel mondo criminale, quello almeno cinematografico, a cui ci hanno abituato i film di una volta, fatta la rapina, il più importante dei compiti viene affidato a chi deve “fuggire con il bottino”. Nella visione del regista inglese Edgard Wright, l’arduo compito di spingere sull'acceleratore all’occorrenza è affidato a Baby (Ansel Elgort, classe ‘94) un ragazzino in grado di guidare qualsiasi automobile. Viene assoldato da Doc (Kevin Spacey) il criminale perfetto, un demonio vestito in giacca e cravatta, classe da vendere (è impossibile restare indifferenti davanti alla sua meschina gentilezza) e dalla sua ‘Banda Bassotti’ da manuale, composta dal tiratore Buddy (Jon Hamm), la sua dolce bionda metà Dalring (Eiza Gonzalez), Jamie Foxx nei panni dell’esplosivo Bats e Griff (Jon Bernthal fu ‘The Punisher’ nella serie TV Daredevil). Nickname da fumetto, come piacerebbe a Tarantino, le atmosfere di Driver-L’imprendibile (1978)  a cui il film deve dichiaratamente molto (Walter Hill, ha perfino dato la sua benedizione con un cameo) tutto grida al classico, e si distingue la sua originalità grazie ad una coraggiosa scelta, cosa c’è di tanto speciale in questo film? La disarmante bontà di Baby, iI giovane asso criminale è inaspettatamente tenero, la sua consapevole e fiera attività clandestina non gli vieta di fare del bene, non gli impedisce di innamorarsi di Deborah (Lily James) la barista di una stazione di servizio ubicata in mezzo al nulla. Baby ha un fischio nella testa dalla nascita ed è costretto a tenere acceso il suo I pod nelle orecchie tutto il giorno per concentrarsi, da qui l’espediente geniale per inserire la musica protagonista della pellicola. Durante la conferenza stampa il regista ha sottolineato l'importanza della colonna sonora, addirittura presente all’interno del copione digitale, Kevin Spacey ha definito la sua prima lettura dello script “Sexy”, perché il film non esisterebbe senza la musica. Dall’ “Harlem Shuffle” di Bob&Erl (1963) a ‘Brighton Rock’ dei Queen (1974), passando per Deborah dei T-Rex (1968)  con l’aggiunta delle suggestioni del compositore Steven Price, è impossibile non gustarla all’interno dell’ensemble. Girato bene e sceneggiato meglio, i dialoghi, scritti anche questi da Wright, finora conosciuto solo dalla sua indipendente cerchia di amatori geek, per l’adattamento del fumetto “Scott Pilgrim VS the World”(2010) e per “L’alba dei Morti Dementi” del 2004 (ora sulla bocca di tutti in quanto giudice della ‘74 edizione del Festival di Venezia), sono brillanti, squisiti, calibrati e pertinenti. L’amore, trionfa sulla disonestà, senza risvolti sdolcinati, l’intrattenimento commerciale alla Fast and Furious viene lasciato indietro, e quello che resta è un bellissimo esempio di quanto, dando fiducia a certi giovani registi, si possa portare freschezza e novità anche nei generi più convenzionali.
 
Francesca Tulli

Venezia74. The Shape of Water

Domenica 10 Settembre 2017 18:07
“Se vi dovessi parlare di lei, la principessa muta, che potrei dirvi?” con questo incipit ci si immerge nella vasca di emozioni (fortissime) preparata dal regista messicano Guillermo Del Toro. Siamo nel 1962, l’America corrotta (incarnata dal personaggio interpretato da Michael Shannon) solo apparentemente, perfetta e risoluta vuole essere “Grande Ancora” in piena Guerra Fredda. Strickland (di cui sopra) trascina dentro un laboratorio segreto, con l’approvazione del governo, una campana subacquea, contenente una creatura sconosciuta. Un uomo pesce: venerato in Sud Africa come una divinità, viene ridotto alla misera condizione di cavia, diventa un capro espiatorio, l’oggetto della morbosa, atavica frustrazione dell’uomo che impotente, vuole soggiogare dio. Elisa (Sally Hawkins) una donna ordinaria ma sognatrice, orfana accolta nella casa di un anziano pittore fallito Giles (Richard Jenkins), vive con lui una triste condizione di emarginazione: lei è muta, lui è omosessuale, in una società (fin troppo attuale) che non lascia respiro al “diverso”, una condizione che vive anche la sua collega amica e confidente di colore Zelda (Octavia Spencer). Le due sono le ‘invisibili’ donne delle pulizie dello stabilimento segreto. Ed è là che per la prima volta Elisa sperimenta l’amore. Un gesto, uno sguardo ricambiato, le note di un giradischi, una serie di piccoli delicati muti gesti avvicinano la donna alla creatura, specchio di se stessa e della sua realtà. Gli scenari onirici e quelli cristallizzati nel quotidiano d’epoca, sono fatti di luci blu, verdi e poche pennellate di rosso (in technicolor). A dare una connotazione delicata al dramma c’è la colonna sonora firmata dal compositore francese Alexandre Desplat (per questo scherzando Del Toro lo ha definito “il suo film francese”). Il plauso più grande va al trucco tradizionale e a Doug Jones, performer che da più di 20 anni lavora con il regista, sotto la maschera della creatura volutamente senza nome, come spiegatoci in conferenza stampa (durante la 74esima edizione del Festival di Venezia) egli rappresenta la perfezione o il suo contrario come il protagonista di “Teorema” di Pasolini (1968). Siamo difronte ad un film diverso, che genera inquietudine per i temi trattati e ci libera dalla prigione del classico schema mentale per cui il mostro crudele vuole possedere la bella ed è l’eroe a portarla in salvo. Come in Crimson Peak (2015),  ancora una volta il regista ha dimostrato con  passione meticolosa, ‘studio matto e disperatissimo’ e profondo rispetto per la materia di saper trasformare un genere cambiando le carte in tavola. Nel precedente citato quello della Gothic Romace, dove il matrimonio non rappresentava un lieto fine ma l’esatto contrario, qui allo stesso modo il suo “mostro della laguna nera” (l’originale a cui fa riferimento deliberatamente è del 1954) scambia il suo posto con quello dell’eroe. Ben lontano dall’essere soltanto una “favola” (se non nella sua definizione più pura, quella delle orride e sadiche vicende raccontate dai fratelli Grimm) è la sua pellicola più cruda, forse la più violenta, dopo Chronos (1993) ma conserva la dolcezza de “Il Labirinto del Fauno” (2006 vincitore di tre premi Oscar). In un mondo cinico dove si ha paura di parlare d’amore, Del Toro lo fa secondo il suo gusto personale, “l’amore è la forza più importante dell’Universo” e “la cosa che mi terrorizza di più” - ha detto quello che viene definito dai più anche un ‘maestro dell’horror’- “è il fatto che si abbia paura di parlarne”. Il regista ci riesce ancora, in un film dove anima e cuore, sono più forti delle parole. 
 
Francesca Tulli  
 
 
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L’immagine che sicuramente non dimenticheremo dell’edizione 74 del Festival di Venezia è il grande e grosso regista messicano Guillermo del Toro (Il labirinto del Fauno, 2006), che stringe tra le mani il Leone d’Oro del Miglior Film. Si perché è riuscito, con la sua personale versione del Mostro della Laguna nera (1954), a salire dalla categoria B a quella A, regalandoci un film poetico di forte impatto visivo. Ha stregato la giuria del Festival, che contro ogni previsione lo incorona Re del Lido. Potremmo dire: “Venezia osa più dell’Oscar!”. Il Leone d’Oro ad un fantasy. La forma dell’acqua del titolo rimodella un premio che negli ultimi anni aveva perso un po’ del suo smalto e di questo l’Academy dovrebbe farne tesoro. Uscire dal conservativismo e portare il premio cinematografico più prestigioso del mondo nel nuovo millennio.
 
The Shape of Water ci riporta negli anni 60’ della Guerra Fredda tra Stati Uniti ed Unione Sovietica, all’interno dei complotti e delle manovre segrete delle due super potenze. Un uomo pesce (Doug Jones, che interpretò il Fauno nel film del regista messicano) viene catturato dagli americani per essere studiato.  Nascosto in una struttura governativa, non sfugge però allo sguardo di Elisa (Sally Hawkins, Blue Jasmine - 2013), donna delle pulizie muta. I due, in un primo momento si studiano, poi si innamorano. Ne scaturisce una romantica storia d’amore tra diversi. Una sorta di Bella e la Bestia per adulti. Non mancano neppure gli aspetti drammatici e quelli classici della spy-story, e il tutto è sorprendentemente equilibrato. Assistiamo così ad un film, che in se porta la vera essenza del cinema, intrattenere con magia e con quel giusto pizzico di impegno, che ci fa dimenticare per 2 ore (la durata del film) tutti i nostri acciacchi quotidiani. 
 
Forma e sembianze umane dell’acqua sono impresse su pellicola dal visionario regista Del Toro, che qui crea anche soggetto e sceneggiatura. La sua messa scena è capillare, da vero artigiano. Incredibilmente minuziosa e di qualità. Regia dinamica e frizzante, ne è testimone la vorticosa presentazione iniziale, dove avvolgenti e musicali carrellate dall’alto verso il basso portano la macchina da presa nelle case dei protagonisti fino al cinema nostalgico del primo piano. Regia che allo stesso tempo diventa morbida, in grado di avvicinarsi al volto di Elisa con dolcezza carpendo le mutazioni del suo cuore. Non dimenticandosi mai dell’acqua: la vera protagonista. Una direzione artistica emozionata, che porta lo spettatore a vivere in prima persona le scene sullo schermo. Il dizionario creato dell’autore dà vita ad un linguaggio concreto e comunicativo, accessibile a tutti. Un esempio lampante è l’uso del colore: le scarpe rosso fuoco di Elisa sono la metafora del calore e dell’amore che porta all’interno della sua anima. 
 
Il tema di fondo è quello delle diversità; abusato al cinema, ma qui non banalizzato. Un diverso burtoniano, il mostro che cela dolcezza e umanità dietro la sua sudicia facciata, ma i veri mostri sono le persone normali. L’universo creato da del Toro è l’antidoto contro il male. E’ una favola per reagire ai mostri contemporanei e alle assurdità del razzismo, sessismo e della politica assolutistica, tutti temi sviscerati nel film.
 
I personaggi sono completi e curati. Hanno tutti una forte caratterizzazione ed una tangibile storia alle spalle. Base che fa da trampolino per un pregevole sviluppo narrativo, fatto di storie nella storia. Sally Hawkins è superba nel portare in superficie l’anima incontaminata di Elisa. Una sola espressione del suo volto vale più di mille parole, per non parlare dei movimenti del corpo, armonici e musicali. La sua è una persona vera ed attuale. 
Tra le eccellenze tecniche del film si segnala la piovosa fotografia di Dan Laustsen (Crimson Peak, 2015) e la colonna sonora del maestro Alexandre Desplat. Un commento musicale che si sposa con il romanticismo del film, ma capace anche di zone oscure.
 
The Shape of Water è una storia personale, nella quale incontriamo un diverso che è in grado di cambiare le vite delle persone che incontra. Una creatura senza nome che ha significati differenti per ognuno dei protagonisti. Guillermo del Toro, al suo decimo film, realizza la sua opera più matura. Una favola gotica che è anche cinema puro. Completo sotto tutti gli aspetti. In grado anche di omaggiare con gusto le pellicole e i musical dell’epoca.
 
David Siena
 

Thor: Ragnarok

Martedì 24 Ottobre 2017 11:45
Scordatevi della terra. In principio, dalle profonde viscere del sottosuolo, Thor figlio di Odino (Chris Hemsworth) si trova a dover fronteggiare Surtur, il demone del fuoco. La città di Asgard retta come un faro di speranza per i nove regni, vive le sue ore più liete e spensierate, sotto il pacifico e sconsiderato regno del fratellastro di Thor, Loki (Tom Hiddleston) il dio degli inganni, che con un sortilegio, aveva preso possesso del trono, fingendosi  il legittimo Re. Hela la dea della Morte (Cate Blanchett) rinvigorita e vendicativa, appellandosi ad un diritto inoppugnabile, reclama la città dorata, attraversa il Ponte dell’Arcobaleno, e prepara il suo sanguinario assedio. Questo è lo scenario in cui il giovane regista neozelandese Taika Waititi si muove, rimestando come fosse plastilina colorata, l’universo Marvel “Movieverse” finora conosciuto. Distrutto dalla critica, ben prima di fare il suo ingresso nelle sale, questo terzo film del franchise, si presenta lontano delle basse aspettative, create dal secondo capitolo Thor: The Dark World (2013) che aveva sofferto (a mio avviso) di un castrante taglio del girato, insabbiato negli anni. Prendendo spunto dal primo film di Kenneth Branagh, Thor (2011) allacciandosi agli ultimi film della continuity MCU, in particolare ad Avengers: Age Of Ultron (2015) è la sintesi di un intercorso di fumetti che va dalle assurde storie del ‘62, ad una chiara ispirazione al ciclo de “La Potente Thor” in stampa in questi ultimi due anni, passando obbligatoriamente per il Ragnarok cartaceo del 2004. I riferimenti di stile sembrano essere molti, ed espliciti rispetto a quanto fatto nei blockbuster degli ultimi dieci anni. Dichiara apertamente di essere un film fatto da appassionati, per gli appassionati. I colori predominanti nella scenografia sono infatti quelli usati da Jack Kirby e Walt Simonson, pennellate di blu e rosso sature di luci e flash psichedelici. I set reali ricordano le ride di un parco a tema e non soffrono l’inevitabile implementazione digitale. La colonna sonora solenne ma infusa di elettronica di Mark Mothersbaugh (un paladino dei Nerds) funziona e si arricchisce dove, come fosse una formula magica a comando viene ‘evocato’ il brando Immigrant Song dei Led Zeppelin (1970) che solo 8 anni dopo dalla creazione del fumetto portante avrà accompagnato la lettura di molti. La comicità sfacciata è tanta e consapevole, frutto anche di una collaborazione del cast che ha “improvvisato” a questo proposito il regista ha dichiarato: “Volevo nuove voci e un differente approccio alla storia, questo lavoro si fa con gli attori, con la riscrittura del copione sul momento.” Un azzardo costato la furia del pubblico esigente (Lo stesso che tante volte, osanna “I Guardiani Della Galassia” 2014 per l’ironia di fondo) che a gusto personale può essere più o meno apprezzato. Merita in questo processo una menzione speciale Jeff Goldblum nei panni del ‘Gran Maestro’. Gradito più da un pubblico di appassionati e da chi ha seguito i protagonisti fino a qui, porta verso un commovente e inaspettato epilogo, come si confà ad buon albo a fumetti.
 
Francesca Tulli
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