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Visualizza articoli per tag: francesca tulli

Zootropolis

Mercoledì 24 Febbraio 2016 09:39
Criminalità organizzata, intrighi di potere, sostanze stupefacenti, no non state leggendo la recensione di una nuova serie di Breaking Bad, questi sono solo una parte dei pericoli che dovrà affrontare la coniglietta poliziotto Judy Hopps protagonista di Zootropolis, il nuovo film d’animazione digitale di casa Disney. In un mondo ideale, popolato da soli animali (antropomorfi), dove carnivori ed erbivori vivono in armonia e i diritti sono uguali per tutti, Judy sfida le convenzioni e, nonostante sia la prima della sua specie, coltiva il suo sogno di diventare una garante della legge partendo dalla campagna sogna Zootropoils, la capitale dove tutto è possibile. Giunta finalmente nella metropoli Il suo carattere e il suo sudato distintivo sembrano non compensare le sue dimensioni ridotte: i suoi colleghi sono grandi e grossi, il suo capo, il capitano Bogo, è un bisbetico Bufalo che le affida la mansione di ausiliario del traffico, la sua vita sembra meno eccitante di quello che si auspicava fino all’incontro con la volpe scapestrata Nick Wilde (secondo gli antichi pregiudizi di suo padre, il suo “nemico naturale”), il “Robin Hood” che le sconvolgerà la vita. La trama si infittisce: sparizioni, misteri, mafia, casi irrisolti sotto trame ben studiate degne di un adulto poliziesco (strizza l’occhio a “48 Ore” e molti altri film di genere) a misura di bambino. I registi Byron Howard, Rich Moore e Jared Bush (dietro alla regia rispettivamente di “Rapunzel”, “Ralph Spaccatutto” e “Big Hero 6”) sfruttano con intelligenza i temi più attuali di sempre. La favola spiega con delicatezza come nascono i pregiudizi, come la discriminazione e la strumentalizzazione dei media possano minacciare l’utopia di una società ideale (Zootopia è il titolo originale della pellicola) e fa capire l’importanza di permettere gli stessi diritti a tutti. Gli autori hanno visibilmente studiato ogni dettaglio. Ogni animale metafora del mondo umano trova il suo posto nella gerarchia sociale, il leone è sindaco, i criceti sono ordinatissimi impiegati, i topi fanno i muratori, le gazelle le pop star e così via… Vi lascio immaginare a quale specie sia stata affidata la burocrazia all’interno degli sportelli della motorizzazione. Esilarante. La città è una sapiente fusione di monumenti di tutto il mondo (ci hanno svelato i registi in visita a Roma per la promozione del film). Se in “Big Hero 6”, la città di San Fransokyo era una commistione facile da riconoscere, a Zootropolis ci sono monumenti che ricordano Parigi, Firenze, Tokyo, Shangai, New York, il Bronx e una miriade di altre combinazioni da scoprire. La colonna sonora di Michael Giacchino è un mix di pop culture che prende in prestito note da Elvis Presley e arriva alla collaborazione con Shakira che è già in classifica con Try Everything. Un thriller alla portata di tutti forse il primo che molti bambini vedranno, condito di amicizie improbabili e valori sociali, raro nella sua categoria. 
 
Francesca Tulli

Deadpool

Giovedì 03 Marzo 2016 21:41
I precedenti di Deadpool al cinema erano irrilevanti, compariva come personaggio di contorno nel film degli X-Men: Wolverine le Origini, sempre di casa Marvel, sempre di “proprietà intellettuale” della Twenty Century Fox come un “nessuno” super forte con la bocca cucita. Oggi lo stesso attore Ryan Reynolds dà finalmente una voce al “mercenario chiacchierone” creato da Fabian Nicieza e Rob Liefeld nel 1991 in questo film di Tim Miller.  Wade Winston Wilson è un mercenario che picchia i “più cattivi di lui” per soldi. La sua aspettativa di vita viene continuamente messa in discussione perfino dal suo migliore amico Weasel (T.J. Miller) che lo dà per vincitore nelle scommesse della “classifica della morte” del suo bar. Un giorno incontra una ragazza più “sfortunata” di lui, Vanessa (Morena Baccarin), e se ne innamora perdutamente. Proprio quando pensa che la vita gli sorrida, gli viene diagnosticato il cancro e decide di prendere parte ad un progetto segreto militare per far uscire il suo gene mutante e salvarsi la vita. Questo esperimento si rivela una beffa, un capriccio del pazzo dottor Ajax (Ed Skrein) e la sua trasformazione lo deforma rendendolo un super uomo sfigurato. Wade, spinto dal desiderio di vendetta, si cuce un costume rosso sangue e cerca disperatamente di arrivare ad Ajax sperando in una cura per il suo aspetto. Diventa spietato, tritura corpi a suon di bastoni nunchaku e katane, uno psicolabile “super” fighetto ma non un “eroe” questo lo distingue nel panorama dei comics come al cinema, è un volgare rifiuto della società indistruttibile con una parlantina invidiabile. Le sue battute condite di citazioni della cultura geek sono il suo punto forte, più sulla carta che al cinema. Il tutto lo rende il primo personaggio Marvel vietato ai minori a comparire sul grande schermo. Nel 2004 la New Line Cinema tentò di produrre un film su Deadpool ma il tutto venne archiviato, anche questo film ha avuto una difficile gestazione, favorita nel tempo dal successo del personaggio. Ha il merito di essere coraggiosa e furba e vive all’ombra dei precedenti rassicuranti eroi mostrati al cinema dalla Disney e dalla Fox stessa, Wolverine come Tony Stark sembrano delle suore a confronto di Wade. Le sue “gesta” lasciano il segno ma non convincono. Lo scenario pulp, il sadismo, la componente splatter e le strizzatine d’occhio al pubblico vivono della forza della carta stampata e non rendono troppa giustizia al personaggio. Volutamente divertente, scade spesso nel ridicolo “da manuale” per essere più fruibile a chi non ha mai avuto il piacere di leggerlo. Un prodotto soprattutto per adolescenti, giocato per soddisfare anche gli appassionati ma che non sempre riesce nell’intento. Negli USA detiene un record di incassi per il film vietato più visto degli ultimi anni, in Italia è passato come film “per tutta la famiglia”. In vista di X-Men Apocalisse, Deadpool funge anche da collante per unirlo con i precedenti capitoli sui mutanti, se questa operazione può sembrarci commerciale c’è solo da sperare che il personaggio possa avere maggior luce nella sua prossima e non ancora ufficializzata apparizione.
 
Francesca Tulli
 

Suffragette

Lunedì 07 Marzo 2016 10:52
La vittoria delle Suffragette, portò ad una delle più grandi rivoluzioni nella storia del genere umano. Un evento che ha condizionato più di duecento anni di storia che finora era stato ignorato (o quasi) dal mondo del cinema. La regista inglese Sarah Gavron, con il chiaro intento di raccontare questa storia alle nuove generazioni, ha messo su un cast di attrici ben note a dare voce a queste donne coraggiose. Maud Watts (Carey Mulligan) è una giovanissima madre e moglie che contribuisce al mantenimento della famiglia con il suo misero stipendio da operaia in una fabbrica di tessuti. Ci sono decine di migliaia di donne nella stessa condizione, sfruttate dal padrone senza scrupoli che non perde l’occasione di abusarne a suo piacimento. In questa Londra fumosa di metà del novecento, l’idea di poter dare il diritto di voto alle donne serpeggia per le strade. Signore di ogni estrazione sociale cominciano una guerra sottopelle per cambiare il destino delle proprie figlie, rompono le vetrine, appiccano incendi, entrano ed escono orgogliosamente dalla prigione. Dopo le umiliazioni ricevute dallo stato in cambio delle dimostrazioni pacifiche, passano all’azione con l’unica forma di dibattito che gli uomini comprendono: la guerra. Tra le militanti in prima linea c’è Violet (Anne-Marie Duff) una collega e amica di Maud che la coinvolgerà molto più del previsto nel suo giro di rivoluzionarie. Tra le più agguerrite c’è Edith Ellyn (Helena Bonham Carter) che usa la sua farmacia come copertura per una base operativa. Splendido è il ritratto della Signora Pankhurst, icona della rivoluzione realmente esistita, qui interpretata in una sola memorabile scena da Meryl Streep. Le figure maschili (come ci è stato spiegato dalla regista durante la conferenza stampa per la promozione del film a Roma) sono volutamente di secondo piano; per una volta le protagoniste sono solo donne perché questo accade raramente al cinema, ed è stato difficile trovare attori maschi disposti a fare queste parti marginali quando deprecabili, il marito di Maud è un inedito Ben Whishaw. Questo film girato nei luoghi dove i fatti sono realmente accaduti (Palazzo del Parlamento compreso su permesso esclusivo) è stato presentato come “non il solito film in costume” ma di fatto la ricostruzione precisa del periodo, il dispendio di comparse e costumi, la regia con il filtro polveroso e la recitazione teatrale (non che sia un male) ne fanno un film storico “da manuale scolastico” a tutti gli effetti. A svecchiare l’argomento c’è l’attualità delle tristi disparità che ancora ci sono tra i generi. 
 
Francesca Tulli

Ave Cesare!

Mercoledì 09 Marzo 2016 11:32

Ave Cesare! Dei fratelli Ethan e Joel Coen è un fantastico dipinto della realtà dietro alla cinepresa. Nella florida America degli anni 50 il produttore e regista Josh Broline (Eddie Mannix) di una grandissima casa di produzione (che potrebbe essere la Disney come la Warner Bros) cerca di fare il film perfetto. Si convince di poter realizzare un kolossal alla Ben-Hur su Gesù Cristo senza offendere nessuna religione presente negli Stati Uniti con l’attore più in voga del momento nei panni di un antico romano redento Baird Whitlok (George Clooney). Tutto procede a meraviglia fino a quando Whitlok viene rapito. Per gli altri registi ignari, alle prese con i propri film lo show deve continuare: Laurence Laurentz (Ralph Fiennes) di cui è difficile anche pronunciare il nome, costringe nei panni di un damerino una stella nascente del Western Hoby Doyle (Alden Ehrenreich) ottenendo pessimi risultati. La star casta e pura dei Musical DeeAnna Moran (Scarlet Johansson) è in realtà una donna dissoluta a cui bisogna trovare un marito per nascondere una gravidanza indesiderata. Burt Gunney (Channing Tatum) è potenzialmente perfetto sa ballare cantare (e recitare!) ma lo considerano solo per ruoli frivoli. Tutto questo chiacchierare viene mediato dalla stampa, qui rappresentata da due sorelle gemelle, Thora e Thessaly Thacker entrambe interpretate da una deliziosa Tilda Swinton. Le musiche di Carter Burwell distendono l’intreccio, la fotografia è brillantemente condita dal make up sfarzoso tipico degli anni rappresentati. I registi attualizzano gli anni 50 e ripropongono le stesse dinamiche che chiunque nel mondo del cinema si ritrova davanti da secoli. Gli sceneggiatori sono fondamentali ma sono messi sempre in secondo piano, il pubblico vede quello che vuole vedere, i registi hanno molteplici interessi ma sono consapevoli delle responsabilità che hanno. La finzione è vera, fuori come dentro al film. Indigesto per tanti versi, cervellotico e confusionario per altri è stato ignorato agli Oscar e frainteso da una stragrande maggioranza di pubblico. E’ cinema dentro al cinema, un circo di giostranti incapaci che crea sogni e elude speranze. Un omaggio vestito da parodia, dove l’amore per questo mondo è sentito quanto criticato.

Francesca Tulli

Batman v Superman: Dawn of Justice

Venerdì 25 Marzo 2016 22:01

Batman e Superman creati rispettivamente nel 1939 e nel 1933, sono i pilastri della DC Comics. Sono gli "eroi" dei "supereroi" ancora prima che la concorrenza prendesse il nome di Casa Marvel come la conosciamo oggi. Senza di loro il nostro mondo, la nostra stessa cultura occidentale sarebbe diversa. Sfido chiunque a trovare una persona in casa che non li abbia mai sentiti nominare. Per questo, a distanza di decenni, il cinema sente il bisogno richiamarli, di innalzare il batsegnale nel cielo e di invocare il salvatore Kal-El di Krypton come fosse un dio. Lo stesso fanno gli abitanti di Metropolis nell'ultimo lavoro di Zack Snyder, ormai famoso nel campo dei cinemacomics . L'idea di mettere i due l'uno contro l'altro sulla carta stampata dei fumetti  era già stata sviluppata moltissime volte (Kingdom Come e The Dark Night Returns per citare  due titoli famosi), Snyder lo fa però in maniera diversa. Dopo vent'anni di scontri, in cui Clark Kent (Henry Cavill) si trova a dover togliere gli occhiali neri da giornalista sfigato terrestre, per vestire i panni di Superman e andare in soccorso della amata Lois Lane (Amy Adams), l'umanità si interroga sul bisogno di avere un eroe e conta i morti che inconsapevole si porta sulle spalle l'uomo d'acciaio solo per essere stato nel posto sbagliato al momento sbagliato. Nel buio della ricca e ultramoderna Bat Caverna, Bruce Wayne (Ben Afleck), l'uomo pipistrello affiancato dal fido maggiordomo Alfred (questa volta Jeremy irons!)  vuole vederci chiaro e sfidare l'alieno che ritiene responsabile per le catastrofi di cui è spettatore. Alle loro spalle ride (come il Joker)  Alexander (Jesse Eisenberg), il rampollo milionario di casa Luthor, che si fa chiamare come il padre Lex. Egli passa i giorni a trovare il modo di infangare e uccidere Superman, vuole battere il nuovo "dio" e mettere le mani sulla Kryptonite, l'unica materia in grado di sconfiggerlo. Seguono un'ora di flashback e interrogativi, incomprensioni e apparizioni a sorpresa, confusione e filosofia per giungere al fatidico scontro del titolo (dove Batman, fateci caso, sradica un lavandino per colpire l'avversario, sanitario che suppongo sia di Kryptonite perché non si sbriciola). Debole come la sua prova d'attore è l'antagonista. Si fa chiamare Lex Luthor ma non è Lex "padre". E' caratterizzato come il clown di Gotham, per cercare forse una eco che mescoli il tutto. Non fa paura, non genera inquietudine é un ragazzino che pesta i piedi e fa i capricci come oggi chiede il pubblico di adolescenti. Diversamente il tanto criticato Affleck ci regala un Batman da manuale. Il budget utilizzato per creare la messinscena si vede ma visivamente ci si chiede se il mostro Doomsday (altro alfiere nella scacchiera dei protagonisti) poteva essere più simile all'immagine dei comics e ricordare meno un incrocio digitale tra il Troll di caverna de Il Signore Degli Anelli e Abominio del tanto odiato reboot su Hulk. Se le battute comiche dei film Marvel sono spesso criticate e non troppo riuscite, qui sono decisamente fuori luogo. Annunciato come il film che farà la storia del cinema al Comi-Con di San Diego, sta riscuotendo pareri discordanti: non si trova un equilibrio tra i fan entusiasti che gridano al miracolo e i delusi che ne vedono i difetti più evidenti e chiedono giustizia per i due eroi. Lento e prevedibile, cattivo e celebrativo, fanatico e commerciale, genera confusione e divide come i due protagonisti.

 
Francesca Tulli 
 
 
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Cantami, oh diva, dell'orfano Bruce l'ira funesta...
Batman v Superman, in fin dei conti, è una sorta di lunghissima elaborazione di un lutto quasi atavico, di un ritorno, via via più consapevole, fondativo, alla tragedia, intesa nella sua ineluttabile necessità di far convivere spirito apollineo e spirito dionisiaco, istinto vitale e pulsione di morte. 
È da quando, da Socrate in poi, l'uomo ha tentato di riportare il caos a un impossibile senso ultimo che, secondo Nietzsche, l'umanità inganna se stessa, imbastendo la trappola più letale nella ricerca di un'entità natura superiore che ordini il disordine: Dio, qui incarnato nell'alieno/altro che fluttua nell'aria con i suoi tratti vagamente inquietanti, capace di gesti eroici e di furie da vecchio testamento, poiché come sostiene Lex Luthor, senz'altro ludi magister sinistro e “jokeresco”, ma dosato in modo intelligente, nell'essenza stessa dell'onnipotenza è racchiusa anche la crudeltà.
Nella contesa fra le tensioni dell'animo, fra l'uomo che volle frasi (semi)dio e dio che volle farsi uomo, è chiaramente quest'ultimo a dover suggellare il passaggio definitivo (ma fino a quanto/quando?) dalla sostanza eterea alla carne. Ma è il percorso che conta e questo vede l'uomo, Bruce, molto più rilevante, col suo dolore e la sua rabbia cieca, molto umana, del proprio alter-ego mascherato, scagliare Dio, con la quale, per allegoria, condivide la “madre”, giù dallo scranno, portarlo a fare i conti con le proprie responsabilità ontologiche, come se davvero si trattasse di un Dio biblico, di una qualunque concezione di Dio.
È il percorso umano, inverso, per un certo senso, ma anche assimilabile a quello alieno/divino, che fa scaturire una più ampia riflessione sulla responsabilità, individuale, prima di tutto, e collettiva, in seguito: “cosa posso fare io?” di fronte all'ignoto, a ciò che mi sembra ostile, a ciò che, banalmente, mi rifiuto di indagare per paura, ma anche di fronte alla realtà quotidiana, con il suo carico, ineliminabile, poiché vitale e necessario, di “indiscreta alterità” culturale, religiosa, sociale. 
Nel film di Snyder, con una prima e un'ultima parte folgoranti, qualche digressione di troppo e vari intoppi, tutto sommato perdonabili, nella lunga parte centrale, “bene” e “male” non sono concetti manichei e il regista dimostra uno sguardo lucido e visionario, al tempo stesso. Non c'è nessuna presenza ultraterrena che sgravi l'essere umano dalla necessità di scegliere fino a che punto spingersi per quello a cui tiene, per quello a cui crede o anche per ciò che brama, questioni queste che sottendono una letteratura che pare non avere nulla a che fare con i fumetti, ma che si rivelano basilari per una riflessione post-umanista sensata, mai così importante, tra l'altro, come risulta essere in questi poco umani(sti) tempi. 
Interessante, parimenti, la dicotomia solo apparente fra passato e futuro. 
I ruderi di casa Wayne si intravedono, quasi totemici, in mezzo agli arbusti del parco all'interno del quale è edificata la nuova casa del milionario di Gotham City, casa questa volta di vetro, ispirata a villa Farnsworth (ringrazio l'architetto lucchese Leonardo Benedetti per la consulenza), completamente trasparente, alla mercé degli sguardi come l'animo scoperchiato del supereroe che fu, e che, adesso, è qualcosa di molto diverso: un uomo disincantato, furibondo e violento, tormentato da visioni che hanno l'aspetto di tremendi incubi.
Non è dall'oblio del passato che è possibile rinascere. Il passato è piuttosto una traccia mnestica sulla quale l'uomo nuovo, un Bruce nuovo, finalmente pacificato coi propri demoni interiori, coi propri lutti, può ri-edificare il proprio futuro e, per estensione, un futuro tout court.
Dopo il lavoro esemplare di Christopher Nolan, con la raffinatezza e la precisione tecnica di Bale, come Bruce, e con la creazione filmica di alcuni caratteri memorabili, non era facile portare a casa il risultato. Zack Snyder ce la fa, grazie anche al suo nuovo eroe, il molto osteggiato, ai tempi del casting, Ben Affleck, perfettamente in parte e valore aggiunto del film. Per merito dell'attore di Berckley, Bruce Wayne acquisisce infatti un'inedita maturità, intesa anche come desiderio introspettivo, e uno charme dalle venature sensuali, presagio di un cambiamento che, mi auguro, si delineerà con maggiore chiarezza nei lavori a venire. 
 
Ilaria Mainardi

Il cacciatore e la regina di ghiaccio

Lunedì 04 Aprile 2016 14:24

Il primo film di questa saga, Biancaneve e Il Cacciatore (di Rupert Sanders, 2012), è una rivisitazione abbastanza imbarazzante della fiaba con protagonista Kristen Stewart di Twilight, nei panni di una  Biancaneve in armatura, che incantava gli animaletti in CGi e inciampava su ogni ramo del bosco. Il cacciatore e la Regina di Ghiaccio del regista esordiente Cedric Nicolas-Troyan, sequel e allo stesso tempo prequel del precedente, svincolato dall'ombra ingombrante della favola originale, è un soggetto nuovo, un fantasy per adolescenti che ammicca ad altri classici, decisamente più riuscito. La crudele Regina Ravenna (Charlize Theron) era stata sconfitta, dopo un lungo periodo di pace il suo specchio magico (quello delle sue "brame") torna a esercitare il suo oscuro potere e viene rubato. Sarà compito del buon cacciatore Eric (Chris Hemsworth) in compagnia di due nani (non sono più sette ma ci sono) recuperarlo in una lunghissima quest per i boschi. Durante una rissa da bar, quando il cacciatore sta per avere la peggio, una misteriosa donna viene in suo soccorso, Sara (Jessica Chastain) un'altra "cacciatrice" addestrata fin dall'infanzia insieme a lui nell'esercito personale della Regina di Ghiaccio Freya (Emily Blunt). I due, legati dal destino, hanno ben più dei ricordi di infanzia in comune. Al centro della vicenda c'è il lato oscuro del rapporto fra sorelle, l'invidia e la gelosia, quello che manca nel Frozen della Disney, a cui questo film strizza l'occhio più di una volta: quando la regina di ghiaccio entra sulla scena è impossibile non pensare alla canzone "Let It go". La camminata regale, l'abito imponente, il castello, i suoi poteri sono riconducibili ad una versione dark della Elsa amata dai bambini, sembra infatti che il figlio di Charlize Theron durante le riprese abbia detto a sua madre "mamma non sederti sul trono di Elsa" e questo la dice lunga. Chris Hemsworth con i capelli lunghi conserva il look vincente di Thor, il dio nordico che lo ha reso celebre nei cinemacomic della Marvel, e brandisce la sua ascia da cacciatore come il martello Mjolnir. Colleen Atwood, la costumista di moltissimi film di genere (spesso coinvolta nei film di Tim Burton) dà il meglio di sé nell'opulenza dei costumi delle donne: pietre, argento e dettagli finissimi, piume che sembrano scaglie d'oro, una goduria per gli occhi. Lo stesso merito ce l'ha Enzo Mastrantonio, il famoso make up designer di numerosi film e serial Tv italiani e internazionali  ( innumerevoli da Montalbano e Gomorra-la Serie a Moulin Rouge!  Titanic e Avengers: Age of Ultron ). Il dipartimento artistico ha plasmato (in computer grafica) delle creature inusuali, una bella sfida ad altri film con pretese ben più alte come (l'orrendo) Maleficent della Disney, nonostante molte delle persone coinvolte siano le stesse. L'intera pellicola è una eco dei miti nordici e di film già visti, azzardando un paragone esagerato, gli appassionati penserebbero a Labyrinth (1987) se gli descrivessero un fantasy dove c'è una ragazza di nome Sara che viene spiata attraverso gli occhi di un gufo, cercando la città dei Goblin, ma è proprio per questo gusto retro che, spostandosi dalla fiaba riveduta e corretta per adolescenti, fa acquistare a questo film l'aspetto di una avventura per ragazzi senza pretese ma di ottima fattura. 

 
Francesca Tulli

Il libro della giungla

Mercoledì 13 Aprile 2016 21:58
"Bastan poche briciole" o forse no, non basta solo questo per realizzare la versione live action di un classico Disney che ha incantato due generazioni. Dopo aver addolcito "Maleficent", aver rispolverato fedelmente "Cinderella", questa è la volta de "Il Libro della Giungla". Con la regia di Jon Favreau, il viaggio di crescita e scoperta del piccolo Mowgli diventa un polpettone di CGi e recitazione tradizionale, adattissimo per i gusti dei bambini di oggi meno per quelli di "ieri". Educato dalla pantera Bagheera, adottato dal branco dei lupi sotto la guida del saggio Akela e l'istinto materno di Raksha, successivamente tentato da una vita tranquilla tra pisolini e dolce miele dall'orso Baloo, Mowgli dovrà durante la sua avventura (ricca di incontri bizzarri) difendersi e scontrarsi con la tigre Shere Khan che su di lui vuole riversare tutto l'odio che prova per gli esseri umani. Se per Kipling autore del romanzo di formazione per eccellenza (parliamo del 1894) "la legge della giungla" aveva un forte valore educativo, qui viene sfruttata e definita come uno slogan di "propaganda" di cui non si coglie la vera morale. Gli occhi degli attori umani che danno la voce ai personaggi nalla versione originale (per citarne uno Andy Serkis è Baloo) si fondono con la mocap con i corpi degli animali generati al computer, Weta Digital e Moving Picture Company rispettano la giusta legge del cinema "mai lavorare con gli animali" ottenendo degli ibridi cartoonistici che non hanno nello sguardo né l'onestà delle belve né la forma tangibile dell'uomo. Precisiamo, nessuno avrebbe voluto vedere dei veri animali sfruttati per la pellicola, ma film come Vita di Pi di Ang Lee dimostrano come sia possibile generare qualsiasi tipo di creatura in CGi senza torcere un pelo a nessuno. L'antico detto diceva anche che nello spettacolo non bisogna "mai lavorare con i bambini" cosa che invece qui è avvenuta con successo grazie alla partecipazione di Neel Sethi (13 anni) che interpreta bene il ruolo di " figlio dell'uomo". Il ragazzo ha dimostrato di avere una grande immaginazione considerando che la giungla che ha esplorato sul set era costituita solo da schermi blu e verdi. "Se un cucciolo può farlo allora, non c'è niente da temere" scriveva Kipling, infatti Mowgli è fin troppo coraggioso, non teme nulla, forse solo le punture delle api che lo riempiono di pustole che spariscono con la sola applicazione del miele nella scena successiva (non cerchiamo il realismo in un film con degli animali parlanti ma almeno una coerenza tra una scena e l'altra!). La sorte destinata ad Akela è ingloriosa: oltre ad essere diversa sia dal classico di 49 anni fa sia dal libro è un commiato con lo spettatore totalmente privo di catarsi. Nei film recenti della Disney, troppo spesso per evitare i traumi causati in passato (chi non si è ancora ripreso dalla morte della madre di Bambi? ) si cerca di far evitare ai bambini di conoscere la morte, di questo passo perderemo delle scene memorabili, di ispirazione shakespeariana, che rendevano grandi film come "Il Re Leone".  I fondali, non bisogna negarlo, hanno una qualità eccellente, gli agenti atmosferici cambiano con naturalezza, tutto l'ambiente si percepisce come una proiezione della vera foresta tropicale. Una eco del cartone animato si avverte nella colonna sonora di John Debney: Baloo e Mowgli cantano la celebre canzone "Bare Necessities" che in italiano ha subito dei lievi cambiamenti, Neri Marcoré voce dell'orso, ci dice, durante la conferenza stampa di promozione del film, che è stato lui stesso a decidere queste variazioni per una più coerente corrispondenza con il labiale. Il doppiaggio è ottimo e, dopo quasi 20 anni da quando interpretò il satiro Filottete in Hercules, torna a lavorare ad un film Disney anche Giancarlo Magalli, nel ruolo di Re Louie: "prima una capra ora orango ciccione sceglieranno il doppiatore in base alle fotografie" ha commentato con sarcasmo. L'appeal da videogioco e i colpi di scena decisamente ad effetto, ad una prima visione, così come il rapporto ben giocato tra madre adottiva e figlio di una razza diversa portano l'insieme a funzionare come buon film per le nuove generazioni, intrattiene e porta alla luce i temi della diversità e della tolleranza, ma alla fine (letteralmente) quello che manca è "Lo stretto indispensabile". 
 
Francesca Tulli

Amleto - National Theatre Live

Martedì 19 Aprile 2016 11:18
Chiunque abbia l'attenzione rivolta verso le grandi produzioni del teatro inglese, in questi ultimi anni avrà sicuramente sentito parlare di Amleto con Benedict Cumberbatch nel "title role". Biglietti esauriti immediatamente alla prevendita, code chilometriche davanti le porte del Barbican Centre, divieti assoluti di fare foto e filmati durante la rappresentazione(a buon ragione) le fan dell'attore lo hanno aspettato ogni sera per una stage door (e sono state spesso accontentante). E' stata una delle produzioni più chiacchierate e fruttuose degli ultimi anni (accanto al Richard II con David Tennat e il Coriolanus con Tom Hiddleston). Oggi e domani (19 e 20 aprile) grazie all'annuale rassegna del National Theater Live, potrete vederlo al cinema, la registrazione dal vivo non è priva di difetti, nulla può dare una visione d'insieme come l'esperienza del palcoscenico, ma rende bene l'atmosfera e permette a tutti di apprezzare questa grande opera secolare. Amleto è  uno dei personaggi più amati e conosciuti dal genere umano. Sono proverbiali i suoi monologhi, come le sue vicende. La madre sposa lo zio, assassino di suo padre, lo spettro del suo caro defunto lo spinge alla vendetta e lo trascina in un vortice di follia che coinvolge tutto il suo mondo, compresa l'amata Ofelia. Benedict Cumberbatch ha il merito di aver portato in spalla (per tre mesi consecutivi) l'intero cast, proponendo al pubblico (grazie alla sua popolarità) non solo la sua interpretazione, naturale e convincente, ma anche le incisive prestazioni di Ciràn Hinds potente e maligno nel ruolo dello zio Claudio e Sian Brooke l'Ofelia "fotografa" che da il meglio di se nel finale, fragile ed estraniante. Il regista Lindsey Turner aveva spostato inizialmente "Essere o non essere" al principio, perché il pubblico si concentrasse sulle altre scene che lo precedono, sono "le battute più conosciute al mondo" ha spiegato, "il trucco è recitarle come se fossero state scritte ieri" ha aggiunto Cumberbatch, indubbiamente pronunciarle è sogno e la croce di tantissimi attori. La scelta di separare queste parole dal contesto non è piaciuta, evidentemente Shakespeare non può essere reinterpretato mai alla leggera, motivo per cui in questa versione, e dopo due settimane di rappresentazioni, il monologo è stato rimesso al suo posto. Le scenografie di Es Devlin sono sontuose ed eleganti, ci spostiamo dall'atrio della reggia di Danimarca alla polvere del campo di battaglia inglese senza neanche percepire il cambio a vista. Lo stesso non si può dire per i costumi, Katrina Linsay, veste Amleto come una rock star, T shirt con (l'immortale) David Bowie e frak azzurro verniciato di bianco con a vista la scritta "King" sulla schiena, Ofelia con un orrendo pantalone giallo fosforescente e una camicetta bianca sciatta legata con una cinta di corda, Orazio (Leo Bill) con i tatuaggi e vista e lo zaino da boy scout sulle spalle,  abiti moderni come si conviene ad ogni spettacolo classico riproposto a Londra, ma troppo chiassosi, solo la regina Gertrude (Anastasia Hille) madre del principe protagonista, veste un decadente ma elisabettiano abito da sposa nel banchetto del primo atto. Gli effetti speciali definiti dalla BBC "da blockbuster" sono indubbiamente d'effetto, l'apparizione dello spettro del padre (un ottimo Karl Johnson) è favorita dalle quinte del teatro e merita un'attenzione particolare alle luci. Il "marcio in Danimarca" lo hanno visto tanti critici nella madre patria ma non c'è, è una rispettosa e visiva immersione nell'opera che mai dovrebbe rimanere sepolta nel tempo solo per non temere confronti con le rappresentazioni passate. Dal 1600  al 2015 (e oltre) viene ancora interpretata e amata dal pubblico di tutte le età, perché Shakespeare parla ad ogni donna e ad ogni uomo, in ogni epoca in ogni tempo e a Benedict Cumeberbatch, tanto di cappello. 
 
Francesca Tulli

The Night Manager

Mercoledì 20 Aprile 2016 17:47

Con la regia della danese premio Oscar per il miglior film straniero (In Un Mondo Migliore, 2011) Susanne Bier, The Night Manager  il romanzo scritto nel da John Le Carré nel 1993, diventa uno spy thriller diviso in sei episodi ricco di ambientazioni mozzafiato e colpi di scena da oggi (alle 22.10) in onda su Sky Atlantic. Jonathan Pine (Tom Hiddleston) è il direttore di notte di un prestigioso hotel nel cuore del Cairo dove è in corso la Primavera Araba, la rivoluzione che portò alle dimissioni di Mubarak nel 2011. Egli si prodiga nel dispensare rassicurazioni agli avventori dell'Hotel, poco importa se una bomba è esplosa a poche miglia, Mr. Pine è sempre pronto ad offire ogni confort possa tenere la clientela al riparo dall'inferno che imperversa nelle strade. La donna di Freddie Hamid un malavitoso appartenente ad una famiglia molto potente, Sophie Alekan (Aure Atika) decide di affidare i suoi segreti a Jonathan e lo coinvolge in un gioco più grande del previsto. Lo mette a conoscenza di un traffico d'armi, dietro al quale c'è Richard Roper "l'uomo peggiore del mondo" (Hugh Laurie) e presto gli eventi prendono una piega inaspettata, e viene a galla il passato di Pine, ex militare che ha servito l'Inghilterra in Iraq, la cui facciata gentile e affabile nasconde la volontà di ferro di un combattente (apparentemente) irreprensibile. La produzione dalla BBC, Ink Factory e AMC non ha badato a spese. Il fittizio "Hotel Nefertiti" location della prima parte, si trova in realtà a Marrakech e porta il nome di Es Saadi (e ha ricevuto infinite richieste di  prenotazioni dopo la messa in oda dello show!). La seconda suggestiva location è in Svizzera, ai piedi del monte Cervino. La vicenda è stata attualizzata ai giorni d'oggi con l'autorizzazione dell'autore, molti elementi differiscono, ma conserva la stessa intenzione. I personaggi sono pochi ma incisivi  e il gioco di potere si fa sempre più intrigante, l'unica pecca è la netta divisione tra un episodio e l'altro, questo fa parte dell'intenzione iniziale della regista ovvero dare alla serie il taglio di un film di sei ore piuttosto che proporre una manciata di episodi auto conclusivi. La sua firma si nota: Susanne Bier si sofferma tantissimo sugli sguardi e i particolari, niente è lasciato al caso. Una curiosità: questo è l'unico episodio in cui il protagonista svolge davvero l'attività di "Night Manager" tuttavia è fondamentale, per capire quanto il personaggio cambi nel breve corso della mini serie. Per questa ragione Tom Hiddleston per prepararsi al ruolo ha davvero svolto l'attività del Direttore d'albergo a  Rosewood a Londra, per una notte. L'ha definita un'esperienza paragonabile al teatro dove il dietro le quinte è decisamente meno "Glamour" del "palcoscenico" alla reception. Questa esperienza gli ha permesso di calarsi alla perfezione nel ruolo, nel libro Pine viene definito come "un inglese che disponeva di un sorriso fin troppo cordiale per dire di no" possiamo assolutamente dire che questo ruolo all'attore calza a pennello. 

Francesca Tulli

 

Captain America: Civil War

Mercoledì 04 Maggio 2016 09:11
"Gli eroi più forti della terra" gli Avengers, hanno salvato il pianeta terra molteplici volte, hanno sventato un'invasione aliena a New York, hanno messo al riparo gli abitanti di una città sradicata dal suolo, ogni giorno ci proteggono quando nessun'altro può farlo. Questo non basta. Ogni battaglia porta dietro di sé danni collaterali, muoiono  inevitabilmente degli innocenti. Ora i familiari delle vittime  si rivolgono ad Iron man, Tony Stark (Robert Downey Jr.) e  Captain America, Steve Rogers (Chris Evans) per avere giustizia. Questo incipit sarebbe stato buono per un quotidiano stampato su Terra 616, il gemello del nostro pianeta nell'universo Marvel, nel momento cruciale della Guerra Civile tra i più grandi eroi conosciuti della casa delle idee. La miniserie in 7 albi "Civil War" (scritta da Mark Millar e disegnata da Steve McNiven ) nel 2007 ha segnato un'era nei crossover a fumetti. Anche il Cinematic Universe nel grande schema delle fasi cinematografiche (siamo all'inizio delle seconda) programmata fino al 2019 doveva avere la sua versione. Diretta da i fratelli Anthony e Joe Russo non è (inevitabilmente) una perfetta riproduzione della carta stampata, ma ne conserva il messaggio, ne salva l'essenza. I protagonisti sono tanti ma la pellicola si intitola "Captain America: Civil War". E' il Capitano a Stelle e Strisce, con l'unica rimasta della veccia guardia la Vedova Nera (Scarlett Johansson), ad addestrare il nuovo team: Falcon, il suo braccio destro (Anthony Mackie), War Machine (Don Cheadle) il braccio destro di Iron Man, l'androide Visione (Paul Bettany) e la temuta manipolatrice della realtà Scarlett Witch (Elizabeth Olsen). Ogni personaggio ha il suo spazio, il suo equilibrio, nessuno fa meno degli altri, all'interno di una trama solida che (anche grazie alle new entry a sorpresa) regge fino alla fine. Inevitabilmente Steve Rogers dovrà anche fare i conti con il Soldato D'inverno, Bucky Barnes (Sebastian Stan) amico ritrovato e perduto negli ultimi eventi della loro storia. Realizzato con un budget altissimo con cui a detta dell'attore Daniel Brühl, si potevano ricavare 20 film, la pellicola non è esente da difetti. Proprio il personaggio interpretato da Brühl, il Barone Zemo, è debole rispetto al suo alter ego a fumetti, la scelta è fin troppo palese: un villain ingombrante giocato bene avrebbe messo troppo in ombra le divergenze dei protagonisti. Divide al contrario il bimboragno di Tom Holland, troppo giovane, troppo scemo, geniale, ognuno risponde soggettivamente, resta che le battute e le citazioni che fa, spezzano la pesantezza dello scontro fratricida tra i due protagonisti senza renderlo ridicolo. L'attore Chadwick Boseman è la nuova rivelazione. Con un ritmo di partenza altalenante, veloce, poi lento, poi nuovamente frenetico, dà il tempo allo spettatore di fare il punto della situzione. Dopo il (per troppi versi) deludente Avengers: Age of Ultron (2015), e il convincente Captain America: The Winter Soldier (2014), Civil War entusiasma gli appassionati ma penalizza lo spettatore che non conosce a fondo l'universo di cui fa parte. E' un pezzo di un puzzle apprezzabile a pieno solo all'interno di una serie di film, è il coerente punto di raccordo tra tutti "Uniti si vince, divisi si perde". Se avete amato fino ad oggi questi eroi, questo è il film che stavate aspettando. 
 
Francesca Tulli
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