Una giovane coppia spensierata viene fotografata a Milano, sullo sfondo di una pandemia mondiale, a Piazza Duomo nel 2020. Sono l’attore Adam Driver e la diva del pop Lady Gaga, si abbuffano di panzerotti e li guarda tutto il mondo. Alcuni (giornalisti imbecilli) pensano perfino ad un vero scoop, ma stanno solo girando un film di Ridley Scott. La vicenda dietro a questa foto è ben più grande: è la storia della moda, la storia di una famiglia attraversata da una disgrazia, la storia di un amore da favola finito nel sangue, la cronaca degli ultimi fasti dei Gucci. Patrizia Reggiani (Lady Gaga) è una segretaria, lavora per la ditta di trasporti di suo padre e come una novella Cenerentola, ad una festa scambia il “principe azzurro” per il barman. Trova un pretesto per parlarci. Lui è Maurizio Gucci (Adam Driver) e la conquista senza averne la percezione: bacia mano, timidezza, galanteria educazione, la ragazza in ben che meno pende dalle sue labbra e sfrutta l’occasione per ballare con lui. Lei trasale a sentire il cognome che porta, si fa sedurre dalla sua gentilezza e intravede due cose: un matrimonio felice e la via per il successo. La favola finisce a mezzanotte, lui sparisce dopo un saluto veloce. Lei con una mossa da “stalker” lo accalappia all’uscita della biblioteca, gli estorce un appuntamento, lo ottiene e tra i due sboccia l’amore. La vita di entrambi viene messa sotto sopra, sotto il severo sguardo del padre di lui Rodolfo Gucci (Jeremy Irons) che, una volta incontrata la fidanzata del figlio, senza riuscire a persuaderlo, lo disereda. Il giovane sceglie una vita di fatica, pur di sposare Patrizia e dopo le nozze tutto procede a meraviglia fino alla comparsa nella loro vita dello zio, Aldo Gucci (Al Pacino) e del cugino Paolo (Jared Leto). Patrizia intravede una svolta che può davvero renderla ricca, incalzata da una cartomante (Salma Hayek), stravolge la vita del marito e della sua intera dinastia. Fin dal principio ci rendiamo conto che le intenzioni del regista non erano quelle di riportare fedelmente un fatto di cronaca nel dettaglio, lo avrebbe altresì fatto con precisione e accuratezza storica, bensì accostare i fatti più salienti della vicenda alla sua interpretazione dei personaggi, Patrizia diventa affascinante ma perfida, Maurizio l’uomo perfetto nonostante sia infedele, Paolo repellente e grottesco (un irriconoscibile Jared Leto), Aldo e Rodolfo, a metà tra due aristocratici d’altri tempi e i boss di una raffinata organizzazione criminale. Il bel paese si respira nelle location: la Valle d’Aosta, Roma, Milano, i protagonisti nella versione originale si sforzano di omaggiare la lingua con battute volutamente in italiano. Alla base della scrittura c’è il romanzo di Sara Gay Forden, The House of Gucci (2020). La colonna sonora ci propone una ventina di grandi successi. Passiamo da “La ragazza col maglione” (Pino Donaggio) e “Sono Bugiarda” (Caterina Caselli) per poi toccare anche “Ashes to Ahses” di David Bowie. Il film ha avuto una gestazione difficile, dal 2006 allo scorso anno, soffre delle limitazioni dovute alle difficoltà di girare nel 2020 ma mantiene la promessa di raccontare una pagina della storia della moda italiana e alimentare la leggenda dietro ad un cognome tanto blasonato quanto “maledetto”.
Francesca Tulli
Diabolik ha “mille volti” ma sono maschere, non è “un eroe”. È il protagonista affascinante di una serie a fumetti progressista che portò alla nascita del genere “fumetto nero italiano” creato nel 1962 da due donne, Angela e Luciana Giussani, due sorelle milanesi che ne scrissero più di 800 storie.
Sono stati i registi Marco e Antonio Manetti a trovare il favore e l’aiuto nella stesura del soggetto di Mario Gomboli, attuale detentore dei diritti della casa editrice Astorina, per la riduzione cinematografica, dichiarando fin dal principio di voler scrivere non “un film su Diabolik” ma il “film di Diabolik” con tutti i suoi difetti, con tutte le sue sporcature, un ladro che senza “rubare ai ricchi per dare ai poveri” si fa beffa della legge e la fa sempre franca. Siamo negli anni Sessanta a Clerville (le strade di Bologna in questo caso fanno da location), l’ispettore Ginko (Valerio Mastandrea) insegue una Jaguar E-Type nella notte. Di Diabolik (Luca Marinelli) vediamo solo gli occhi, le mani al volante, fugge dall’inseguimento con l’ennesimo trucco di prestigio. La legge è sua acerrima nemica, ha un nascondiglio dietro ad una montagna di cartapesta, si annida nella casa della facoltosa Elisabeth (Serena Rossi), sua ignara amante, usando lo pseudonimo di Walter Dorian. Una vedova, la bellissima Eva Kant (Miriam Leone), torna dall’Africa a Clerville con la sua cospicua eredità. Tesori inestimabili tra cui un diamante rosa, Diabolik deve rubarlo.
Eva è scaltra, conosce gli uomini, si trascina dietro di sé il viceministro Caron (Alessandro Roja), un uomo grezzo che le fa la corte, ma il suo cuore è più complicato. Quando Diabolik si intrufola nella sua stanza d’albergo, la bracca con un coltello e la guarda negli occhi, quello sguardo basterà ad entrambi per accorgersi della loro somiglianza. Tra i due nasce un grande reciproco amore. È nel fumetto numero 3 (1963) che fa la sua prima comparsa Eva Kant, una “Catwoman” nostrana, figlia dell’amore per la filosofia delle autrici (il cognome Kant è un riferimento a Immanuel Kant), il suo ruolo è centrale, mette quasi in ombra il suo partner, che a favore di sceneggiatura in questo film viene interpretato da tanti attori, quelli di cui ruba l’identità. Diabolik con le sue maschere in silicone riesce a simulare altre persone, caratteristica particolare, resa possibile grazie al lavoro di composting di Diego Arciero. Gli effetti speciali di questo film sono tradizionali, ricordano quelli del cinema di Bava (Mario Bava nel 1968 adattò egli stesso il fumetto nel suo film Danger: Diabolik), c’è del posticcio nell'utilizzo di materiali “teatrali” ma che rende tutto assolutamente verosimile. Anche i costumi di Ginevra de Carolis, sono perfetti considerando quanto è difficile rendere credibile un personaggio che esce dai tombini di notte con una tuta nera aderente su tutto il corpo. Le musiche sono di Aldo de Scalzi e Pivio con l’aggiunta di un brano inedito di Manuel Agnelli (“La profondità degli abissi”). Gli attori protagonisti ci hanno rivelato (alla conferenza stampa di Roma) di essersi documentati senza farsi influenzare troppo dalle controparti cartacee, rendendo i personaggi propri, così che Valerio Mastandrea si è convinto che il commissario Ginko “non vuole” davvero prendere Diabolik, perché a detta anche del protagonista Luca Marinelli, entrambi non esisterebbero senza l’altro. È una caccia all'uomo che non termina mai, un classico senza tempo che potrebbe risultare anacronistico per certi versi ma mantiene una purezza di base che può attirare anche un pubblico giovane. Il film si divide involontariamente in due “casi” da risolvere, dà a tratti l’impressione di vedere due episodi di una serie televisiva (inizialmente infatti si era pensato di farlo) tuttavia, nonostante questo porti ad un ritmo altalenante, si riesce a trovare una chiusura, con un classico scontro finale. Ha il pregio di essere negli ultimi dieci anni una dignitosa trasposizione di un fumetto italiano, che si trascina dietro una tradizione che (restando nei confini dell'Europa) non ha niente di meno di quella dei BD francesi e, come un diamante prezioso, ha bisogno di splendere ancora.
Francesca Tulli
È il 1962 quando sull’albo a fumetti “Amazing Fantasy #15” Stan “The Man” Lee e Steve Dikto crearono il personaggio tuttora più popolare della Casa delle Idee Marvel: l’Uomo Ragno, Spider-man. Morso da un ragno radioattivo, dopo aver ottenuto poteri straordinari (tra cui quello di lanciare ragnatele e arrampicarsi) il giovane Peter Benjamin Parker diventa l’eroe del suo quartiere, ironico e sagace con la maschera, timido e introverso senza, si scontra con la sua condizione, cambia la percezione del “supereroe con superproblemi” e fa innamorare cinque generazioni, diventando nel tempo anche un’icona del cinema. Spider-Man: No Way Home di Jon Watts segna una tacca importante nella vita di chi ha seguito le sue storie fino ad oggi. Spider-man (Tom Holland) è stato smascherato, tutto il mondo conosce la sua vera identità, alcuni sono diventati suoi fan, altri gli gettano mattoni alla finestra, la sua popolarità è diventata un vero incubo, anche per il suo migliore amico Ned Leeds (Jacob Batalon) e la sua fidanzata Michelle Jones per gli amici M.J. (Zendaya). I tre ricevono una lettera di rifiuto per l’ MIT, nessuna scuola vuole immischiarsi nelle faccende ultraterrene, Peter da sempre ossessionato dal senso di colpa, si reca dal Doctor Strange (Benedict Cumberbatch) lo stregone che può risolvere ogni cosa, emanando un incantesimo per far dimenticare a tutti la sua identità segreta. Mosso dalla compassione Strange, decide di aiutare il ragazzo, ma l’incantesimo viene compromesso. Sul ponte di Brooklin compare un supercattivo, il Doctor Octopus (riprende il suo ruolo Alfred Molina), ed è solo il primo alla ricerca di Peter Parker ma tutto prende una piega inaspettata quando egli, proveniente da un altro universo, non riconosce il volto dell’eroe. “Da un grande potere derivano grandi responsabilità” e tutti meritano una seconda occasione, il personaggio principale è così tenero da generare simpatia anche nelle sue scelte più infelici. La sua crescita poterà nuova linfa alla continuità dell’MCU. Sulle note del compositore Michael Giacchino, il citazionismo è così pertinente da far dimenticare le ingenuità degli espedienti narrativi che portano al compimento della storia e la soffocante Cgi. Frutto di una contesa durata anni tra Sony e Disney/Marvel Studios, dopo più di una decade passata a contendersi i diritti per la trasposizione, No Way Home è il premio per la costanza dei fan e il simbolo della pace che le due major hanno risolto a beneficio di tutti. La quadra tra una buona soluzione economica, vantaggiosa al botteghino, e la dolce dedica a chi ha perseverato nella speranza di vedere il più possibile, scegliendo di incentrare tutto intorno ad un bene che non si può comprare: i ricordi.
Francesca Tulli
“Ziggy played guitar. Jamming good with Weird and Gilly, the Spiders from Mars” così incarnandone l’alter ego da lui stesso ideato, David Bowie raccontava al mondo (con il brano “Ziggy Stardust”) chi fosse questo affascinante alieno, venuto da Marte sulla terra per esibirsi in pubblico nell’omonimo Tour in 103 concerti, 60 città dal 29 Gennaio del 1972 (Aylesbury) al 3 luglio del 1973. L’ultima tappa (filmata dal regista D.A. Pennebaker) avvenne a Londra sul palco dell’Hammesmith Odeon.
Il figlio del regista, Frazer Pennebaker, oggi ha riproposto (in qualità 4K con audio 5.1) quella giornata straordinaria con il progetto “Ziggy Stardust & The Spiders from Mars: il film” (in Italia a cura di Nexo Digital) per riportarlo cinquant’anni dopo nei cinema di tutto il mondo. Il documento di straordinaria importanza, non è un vero e proprio “film” come suggerisce il titolo, ma una versione inedita del concerto, con la scaletta completa e l’aggiunta (rispetto alla versione precedente) della performance di “The Jene Genie” e la chiusa di Jeff Beck .
Facciamo un salto nel passato: nei (pochi minuti) di dietro le quinte, Bowie, instancabile professionista, è nel suo camerino, con lo staff di truccatrici e costumiste che gli sistema un look già perfetto. Angie, sua prima moglie, ironizza sul suo rossetto e lui risponde sardonico: “Sei una ragazza, che ne vuoi sapere di trucchi”. Il ragazzo di appena 26 anni, sta per incantare un pubblico di 5000 fan scalmanati, con alle spalle l’esperienza degli Stati Uniti e del Giappone, di cui ha assorbito l’essenza, durante il concerto indossa (tra gli altri) un abito striminzito da donna, con un coniglio ricamato , che si dice trovò dimenticato in una vetrina e che, neanche le signore lo volevano, ma lui riconobbe il talento dello stilista Kansai Yamamoto e lo comprò, stringendo poi un’amicizia con l’ideatore con cui nacque una collaborazione straordinaria negli anni a seguire.
Bowie si approccia al palcoscenico non solo come cantante ma piuttosto come attore, racconta delle storie e come tutte, ne scrive l’inizio e la fine. Quel concerto raccontava l’epilogo della brevissima vita di Ziggy, un personaggio vissuto per poco più di un anno che, romanticamente con la canzone “Rock’n’Roll Suicide”, si congedava dal suo pubblico di adoranti con le note che accompagnano i versi: “Gimme your hands cause you’are wonderful”. Il 13 aprile del 1973 Bowie, pubblicherà un nuovo album che avrà il nome di quello che lui stesso definiva lo “Ziggy Americano” Aladdin Sane, con la celebre saetta sul volto, a testimoniarne il suo lascito, che gli permise una lunga e straordinaria vita consacrata alla sua arte.
Francesca Tulli