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Ex Machina

Lunedì 03 Agosto 2015 14:27
Caleb, giovane e brillante programmatore, vince la possibilità di trascorrere una settimana nel laboratorio del fondatore dell'azienda per la quale lavora, Nathan, un ex bambino prodigio, creatore, in tenera età, del più frequentato motore di ricerca del web e adesso impegnato in un progetto semisegreto sulle intelligenze artificiali.
Quando giunge in questa sorta di rifugio antiatomico, asettico bunker isolato nella tundra norvegese, privo di finestre e con porte che possono essere aperte a seconda del “grado di expertise”, o meglio, in base ai privilegi di cui si dispone, Caleb scopre, via via con sempre maggiore consapevolezza, di essere il soggetto prescelto per una versione rivista e corretta del test di Turing: concretamente, interagirà con una donna-macchina, la splendida Alicia Vikander, che lui sa essere tale e che, col suo sembiante ibrido, glielo ricorda continuamente, contraddetta però da un atteggiamento che è umano, o che lo sembra. Il giovane informatico manterrà la consapevolezza di stare dialogando con una donna androide oppure meccanica e vis umana, filosoficamente sempre più convergenti, si confonderanno l'una con l'altra fino alla completa inestricabilità concettuale?
Mano a mano che la storia procede, come in un gioco di specchi, diegetici e allegorici, i rapporti tra i tre (più uno) protagonisti si complicano e le intenzioni di ognuno, reali, presunte, simulate, si disvelano. Forse...
 
E' vastissima la letteratura, anche cinematografica, sugli androidi e sulle intelligenze artificiali, tanto che se Alex Garland, esordiente dietro la macchina da presa, già sceneggiatore e romanziere, avesse voluto misurarsi con una “semplice” disamina sul rapporti uomo-umanoide, avrebbe dovuto senza dubbio fare i conti con celebri precedenti, talvolta iconicamente difficili da eguagliare.
Per fortuna dunque la strada scelta è stata un'altra, non meno impervia – a ciò si possono imputare le piccole sbavature della pellicola -  ma in un certo senso inedita, senza dubbio disturbante.
Più interessato a sondare i confini etici di un supposto postumanesimo scientifico che simula, per eccesso di ybris, la mistica cristiana del creazionismo, arrivando a proclamarsi esso stesso divino, più che alla fantascienza in senso stretto, il regista imbastisce un feroce gioco al massacro, caro al teatro novecentesco. Stringe i suoi interpreti, tre, come i superstiti nella stazione orbitante che fluttua su Solaris, apparenti emblemi della tripartizione platonica dell'anima, come pure delle istanze intrapsichiche freudiane e delle Critiche kantiane, ma in realtà tanto mossi e imprendibili da simboleggiare sovente nulla più che loro stessi, meravigliosamente veri, anche quando recitano il copione di una caccia tra gatti e topi che continuamente mutano apparenza ed essenza, in una struttura asfissiante e claustrofobica, contrapposta al fuori, un altrove verde, dal respiro quasi infinito, inafferrabile nella sua interezza.
Li fa muovere e parlare, osservandoli, anche durante i blackout elettrici, come Skinner con i suoi ratti, dà loro rinforzi positivi, elargisce punizioni, ciascuno operante, ma allo stesso tempo burattino di un gioco che trascende la possibilità umana di dominio. Colui che si erge a “deus” è la vittima designata di una debolezza umanissima che si chiama solitudine, il soldatino semplice che solo lo è sempre stato – e Nathan lo sa – dopo aver temuto o sperato, con noi, di poter divenire epidermicamente affine al proprio desiderio, tenta l'emulazione su un piano strettamente razionale, soccombendo per una ingenuità nella programmazione.
Il portato di sola, autentica umanità, diviene dunque, in apparente paradosso, la macchina, l'androide, la donna, colei che, potendo essere assemblata e dissemblata a piacimento da un dio-carceriere che non riconosce e che le imputa una colpa atavica, rivendica fino in fondo il diritto alla propria libertà, di arbitrio e non soltanto. Ava/Eva sceglie la pelle che vuole essere, fonde Anima e Animus, logos e eros, parla una lingua che è emozionale, infonde la vita, non più la meccanica esistenza, a un'altra come lei, una sorta di ombra che si aggira per il laboratorio di Nathan, geisha ballerina e serviente, che solo sul finire del film nasce nella comunione col proprio simile. In una scena che è foriera di morte e di vita allo stesso tempo, costretta in un claustrofobico corridoio, fotografato di bianco accecante, che rimanda a Tarkovskij, a Kubrick, Kyoko chiede e merita una compassione finalmente umana, in una lotta coreografata come in un macabro teatro dell'assurdo. Di fronte ai suoi occhi, Winnie si disseppellisce, la Prima Donna, che sempre è stata nuda, sceglie di vestirsi per uscire nell'Eden che è stato creato per lei. Se lo riprende senza bisogno di emendare alcun peccato originale. 
Mente, simula, si adatta. 
Si pensa libera e dunque lo diviene. 
Ma gli androidi sognano pecore elettriche? No, piuttosto incroci affollati (di ombre, diverse e identiche).
 
 
A margine: un trio di spettacolari interpreti impreziosiscono l'opera di Garland, scritta con eleganza e intelligenza. Oscar Isaac è uno dei più camaleontici interpreti della nuova generazione, tra i due, al massimo tre capaci di rendersi realmente irriconoscibili da una performance all'altra. Senza l'ombra del divismo maledetto e ostentato, recita, balla, canta, brutalizza, seduce a livelli difficilissimi da trovare. Chapeau. 
 
Ilaria Mainardi