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Visualizza articoli per tag: edoardo leo

Smetto quando voglio

Martedì 25 Febbraio 2014 12:15
In Italia tutti gli stupefacenti e le sostanze psicotrope sono iscritti in due tabelle che vengono aggiornate dal Ministero della Salute. Se una sostanza fa parte di almeno una di queste due tabelle è illegale. 
Sette ricercatori universitari senza contratto, frustrati dall’assenza di prospettive che si pone loro davanti, decidono di mettere a frutto le proprie conoscenze per creare (e vendere) una smart drug purissima e del tutto legale (non essendo presente nelle tabelle del Ministero).
Scordatevi i precari di Virzì e i film piagnoni sulla “generazione mille euro”. Nell’opera prima del salernitano Sydney Sibilia i molteplici riferimenti a icone della cultura contemporanea sono altri: dalla commedia all’italiana a Breaking Bad, passando poi per i Soliti Sospetti e The Snatch.  
La fotografia satura e allucinogena è legata rigorosamente alla materia del film: la droga e i suoi effetti di alterazione. 
Non è un caso se questo film viene realizzato mentre sono in atto dibattiti sulla legalizzazione della cannabis; quando quello stucchevole paternalismo tipicamente italiano viene messo a dura prova dalle condizioni in cui versa il Bel Paese.
Lo spettatore non riesce mai ad assumere una visione moralizzatrice sulle attività (criminose o meno) dei protagonisti, nemmeno quando qualcuno di loro si lascia prendere un po’ troppo la mano e la situazione degenera in un delirio esilarante. 
“Vendere droga ai ragazzini” è sempre stato uno dei tabù morali inviolabili nella nostra società, ma nonostante ciò, non possiamo fare a meno di tifare per la banda dei ricercatori, il cui unico modo per far parte del sistema è sovvertire il sistema stesso. 
La sola cosa che potrebbe lontanamente indignarci, invece, è il fatto che sette fra le migliori menti del paese siano costrette a impieghi di fortuna per stipendi da fame.
Lo stato di alterazione, di cui è costantemente pregna la fotografia, non è quindi solo quello psico-fisico dei clienti tossicomani di turno, ma quello di un’intera società drogata e in prossimità di un'overdose letale.
Smetto quando voglio, però, è una commedia priva di particolari ambizioni civili; il suo scopo non è quello di portare a galla i nostri più reconditi istinti sovversivi e qualunquisti contro il governo ladro e una casta di politici magnoni (vedi Viva l’Italia di Massimiliano Bruno). Il suo scopo rimane quello di far ridere. E ci riesce, grazie ai simpatici protagonisti, perfettamente in sintonia fra loro, e ai tempi piacevolmente dilatati che caratterizzano la prima metà del film. Molti di noi sono finiti per snobbare simili intenzioni, essendo abituati a una commedia popolare desolante, vestito su misura per il comico televisivo di turno, dilagata a macchia d’olio in Italia negli ultimi decenni. Smetto quando voglio ci dimostra invece che si può ridere al cinema senza essere dei totali decerebrati e senza votare Berlusconi.  
L’unico punto debole del film sembra essere il finale troppo affrettato e confuso. Qui Sibilia non sfrutta a pieno (anzi, non lo fa proprio per niente) il fattore suspance che caratterizza un certo cinema di genere, contaminazione verso la quale il film sembrava accostarsi.  
“Errore di gioventù”. 
 
Angelo Santini

Non ci resta che il crimine

Giovedì 10 Gennaio 2019 18:28
Alcuni momenti storici hanno il particolare potere di restare per sempre cristallizzati nella memoria di chi li vive. Molti li ricordano come i migliori anni della propria vita, pagine dense di euforie e grandi scoperte. Il 1982 fu un anno che segnò indelebilmente l’immaginario collettivo italiano. Un anno rimasto impresso a tutti i ragazzi per il lancio nel mercato del mitico Commodore 64, e a tutti gli italiani per la vittoria dell’Italia ai mondiali di calcio. Quell’anno lo ricordano bene anche Moreno, Sebastiano e Giuseppe, amici di lunga data, che all’epoca erano dei curiosi ragazzi, ed ora nel 2018, si ritrovano a dover fare i conti con una realtà ben diversa e costellata di difficoltà.  Ma forse non tutto è compromesso, e Moreno decide infatti di coinvolgere i suoi amici in un’impresa molto bizzarra: organizzare un “Tour Criminale” della Roma di una volta, città teatro di una delle organizzazioni criminali più note, la Banda della Magliana.  L’idea potrebbe promettere un rilevante successo e soldi a “palate” se non fosse che, per un imprevedibile scherzo del destino, i tre vengono inspiegabilmente catapultati davvero nel 1982, proprio nel gloriosi giorni dei Mondiali di Spagna. Tra calcio e scommesse ad alta tensione, Moreno, Sebastiano e Giuseppe arriveranno a confrontarsi con uno degli uomini più pericolosi e potenti della criminalità romana, il terribile Renatino. Ma il pericolo è dietro l’angolo, Renatino e i suoi uomini coinvolgono i tre in un giro malavitoso contornato da soldi, violenza e incalcolabili imprevisti. Riusciranno a ritornare all’agognato futuro ora che si ritrovano intrappolati in un arrischiato 1982? Non ci resta che il crimine ha la grande potenza di mescolare due registri ben diversi, ossia quello del poliziesco anni ’70 e quello del cinema comico dei giorni nostri. Quella diretta da Massimiliano Bruno, aiutato nella scrittura da Bassi, Guaglianone e Menotti, è una commedia che alterna in modo misurato tensione e ironia, senza però cadere preda di luoghi comuni o situazioni già note. Un esperimento riuscito, scorrevole e pieno di richiami a quel cinema che ha segnato un’intera epoca rimanendo impresso per alcuni stilemi molto esclusivi, quali fotografia dai toni saturi e colonna sonora graffiante, perfettamente amalgamata alla storia. In Non ci resta che il Crimine infatti, la colonna sonora affidata a Maurizio Filardo, dona un tono vintage e un carattere autentico, tipico dell’epoca. Nel film non mancano sequenze spassose, capaci di regalare un piacevole intrattenimento all’insegna della risata, ne è l’emblema la buffa ed esagerata scena della rapina, forse uno dei migliori momenti di questo lavoro. Perfettamente inseriti nei loro ruoli sono gli attori protagonisti Marco Giallini (Moreno), Alessandro Gassman (Sebastiano) e Gianmarco Tognazzi (Giuseppe), che si confermano un gruppo affiatato nella vita e sullo schermo.  Altrettanto convincente Edoardo Leo (Renatino) per la prima volta alle prese con un ruolo da “villain”, al quale l’attore romano dona un tocco personale e credibile quanto basta. Non ci resta che il crimine, dal 10 gennaio al cinema, è un film che si lascia guardare senza alcuna difficoltà e con molta curiosità, prendendo quasi le distanze per stile e trama da molto cinema italiano in sala. 
 
Giada Farrace