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The Grandmaster

Mercoledì 09 Ottobre 2013 11:07

“Kung fu, due parole, orizzontale e verticale”

Era da anni che Wong Kar-wai aveva annunciato di volere realizzare un film di arti marziali come quelli tanto popolari in estremo oriente; un modo per discostarsi dai suoi ultimi lavori ed evitare l'accusa di regista manierato, mossagli dai detrattori. Un film dedicato alla figura di Ip Man, leggendario insegnante di kung fu, famoso anche per essere stato maestro di un giovanissimo Bruce Lee. Dato che i suoi tempi di lavorazione sono notoriamente lunghi, a Hong Kong hanno fatto in tempo ad uscire altre pellicole su questo personaggio prima che “The Grandmaster” fosse pronto. Fortunatamente “Ip Man” e “Ip Man 2”  di Wilson Yip con Donnie Yen nel ruolo del protagonista, ai quali vanno aggiunti “The Legend is born” con Yu-hang To (dedicato agli anni giovanili) e “Ip Man: The Final Fight”, con un bravissimo Anthony Wong (riguardante invece gli anni della maturità), entrambi diretti da Herman Yau, non hanno stancato il pubblico, evidentemente affezionato al maestro del Wing Chun; arrivato in sala, “The Grandmaster” ha incassato molto, divenendo, fra i film del maestro di “In the Mood for Love” e “2046”, quello più fortunato al botteghino. Dopo avere aperto fuori concorso il festival di Berlino (dove Wong era presidente di giuria), “The Grandmaster” è stato anche scelto per rappresentare il cinema di Hong Kong ai prossimi Oscar; una bella soddisfazione per il regista nativo di Shanghai, anche se l'Academy in passato non si è dimostrata troppo attenta nei suoi riguardi.
Contrariamente a quanto Wong aveva dichiarato, “The Grandmaster” non si segnala per una trama particolarmente lineare e piuttosto di raccontare la biografia di Ip Man in maniera convenzionale, come avevano fatto i precedenti film, preferisce mostrarcelo alle prese con alcuni incontri che hanno segnato la sua esistenza. Conoscendo le varie scuole di kung fu, Ip Man arriva alla conclusione, e noi con lui, che non esiste un solo grande maestro, ma più di uno (e anche la distribuzione internazionale è stata per un po' incerta su questo aspetto, visto che era stato pensato di distribuirlo col titolo al plurale, “The Grandmasters”).
A inizio film siamo nel 1936 e un Ip Man quarantenne vive sereno coi propri familiari a Foshan. Appartenente ad una famiglia agiata, ha potuto praticare le arti marziali per tutta la vita senza doversi preoccupare d'altro. Già la frenetica sequenza di combattimento iniziale (le coreografie sono di Yuen Woo-ping, maestro che ha fornito il suo impareggiabile contributo a film come “La tigre e il dragone”, “Matrix” e “Kill Bill”) ci fa capire com'è la sua vita, fatta di duelli ma anche di serate nei locali più eleganti della città in compagnia della moglie o disquisizioni con altri maestri di kung fu. 
L'incontro più importante è quello con Gong Er, orgogliosa figlia di Gong Dobei, un avversario sconfitto. Decisa a vendicare l'onore del padre, che poi verrà ucciso da un allievo traditore, la ragazza sfida Ip Man: più che un duello all'ultimo sangue il loro è una sorta di tira e molla destinato a durare anni, un legame indissolubile ma allo stesso tempo destinato a rimanere sospeso, come spesso lo sono nel cinema di Wong Kar-wai. Sarà la guerra a cambiare tutto e Ip Man sarà costretto ad affrontare anni difficili: dovrà rinunciare al suo stile di vita, sarà costretto a trasferirsi ad Hong Kong, a cercare un lavoro (naturalmente insegnante di arti marziali) e ad abbandonare la sua famiglia. 
Il film è assolutamente spettacolare a livello visivo, magnifico nella fotografia di Philippe Le Sourd e Song Xiaofei (ma è un peccato che il sodalizio tra Wong e l'australiano Christopher Doyle si sia interrotto). Irrinunciabile anche il contributo di William Chang, che ha creato scenografie e costumi curatissimi, oltre ad avere partecipato al montaggio. Molto suggestivo il commento musicale di Shigeru Umebayashi e Nathaniel Méchaly (con la “Stabat Mater” di Stefano Lentini), dagli echi morriconiani (e il film per la sua riflessione sul valore della memoria è stato accostato a “C'era una volta in America”, ma è pur vero che quello è una tematica ricorrente nel cinema di Wong). Tony Leung, attore feticcio del regista, è un Ip Man molto fascinoso ma è Zhang Ziyi, nei panni di Gong Er, credibile e intensa nelle scene d'azione come in quelle drammatiche, a lasciare un segno indelebile. La moglie del protagonista è interpretata dall'attrice coreana Song Hye-kyo (attesa nel prossimo lavoro di John Woo) ma il suo ruolo è piuttosto ridotto (come del resto negli altri film su Ip-Man); Chang Chen fa qualche fugace apparizione nei panni del personaggio denominato il Rasoio, un altro maestro la cui strada sfiora quella dei protagonisti, senza però diventare mai parte integrante della trama, risultato forse di alcuni aggiustamenti durante il montaggio.
Uscito in patria nella versione da 130 minuti, “The Grandmaster” arriva in Italia in quella da 108 che è stata distribuita in America. Molti hanno imputato a questi tagli una certa fumosità nella trama, dimenticando il metodo di lavoro di questo maestro: cinema di atmosfera e suggestioni, il suo, dove fortunatamente certi didascalismi hanno poco spazio.
 
                                                                                          
Mirko Salvini