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Visualizza articoli per tag: David Siena

La La Land

Domenica 11 Settembre 2016 08:45
Lo scorso anno “Everest”, film d’apertura dell’edizione 72 della Mostra del Cinema di Venezia, aveva portato il gelo sul Lido, raffreddando da subito gli animi. Quest’anno invece, un sole caldo caldo scalda i nostri cuori e li tocca con la musica dell’amore. Grazie a La La Land (pellicola scelta per aprire Venezia 73), musical romantico dal sapore vintage diretto da Damien Chazelle, regista del pluripremiato Whiplash (2014). Sembrerebbe proprio un film necessario in questi periodi storici, inzuppati del male più bieco. Un film che ci riconcilia con la vita e ci fa riscoprire i buoni sentimenti. La nascita dell’amore e il suo piacevole andamento musicale trasporta i due protagonisti, Mia (Emma Stone) e Sebastian (Ryan Gosling), verso la realizzazione dei propri sogni. La semplicità e la forza del sentimento più potente che ci sia dovrebbero farci capire che le dannazioni dell’animo contemporaneo sono solo una nostra creazione. Sarebbe tutto così lineare se solo non ci lasciassimo influenzare dalle mode, che sentono solo la voce dell’apparire e del dover soffrire in continuazione nel raggiungimento e nel compimento dell’amore. Bentornati sognatori, questo è il film per voi. 
 
“La” è la particella musicale per indicare L.A. (Los Angeles), luogo dove è ambientato il film. Qui, la giovane aspirante sceneggiatrice/attrice Mia incontra il musicista jazz Sebastian. Non subito scatta la scintilla, ma quando i sogni contaminano la vita dell’altro è impossibile non farne parte. Passione e aspirazione muovono il mondo e anche i giovani innamorati verso le proprie destinazioni finali. Non sarà una strada semplice da percorrere perché la città degli angeli è di nascita castrante e le frustrazioni non mancheranno, ma in questo inno ai sognatori ad un certo punto le strade, gli Studios e le feste assumeranno una parvenza irreale da far sembrare Los Angeles un paradiso. 
 
Damien Chazelle non abbandona la passione per il Jazz e ci coccola con una colonna sonora, che sostanzialmente sorregge l’intera pellicola. Onirico di nascita, La La Land non è solo un ottimo esercizio di stile, è anche un film emozionale, che ci avvolge nella sua magia con riprese continue dove i tagli sono pressoché assenti. Il regista dimostra competenza con la macchina da presa portandoci con garbo nelle atmosfere della Hollywood che fu. Il prologo è un omaggio ai musical americani, un lungo piano sequenza che strappa applausi. La cinepresa danza a ritmo di musica.
Nello sviluppo della drammaturgia, curata anch’essa da Chazelle, vengono intrecciaci modelli di influenza tra il passato e il presente. Variabili che consentono alla narrazione di modernizzare il genere, portando un certo tipo di musical demodé accessibile alle nuove generazioni. Condivisione di una memoria che viene attualizzata. Nella parte centrale della pellicola vi è un leggero affossamento di ritmo ed alcuni snodi nella sceneggiatura sembrano essere troppo legati ai classici cliché. Ma la forza di La La Land sta proprio nell’uscire dalla buca della convenzionalità e sorprenderci con un finale che ribalta i concetti base del musical americano più radicale. Reale e sincronico senza perdere di vista l’aspetto poetico. Malinconia ed una non trascurabile dose di amarezza contaminano uno dei generi intoccabili di Hollywood, perché prima o poi la canzone finisce e l’apoteosi del ritornello deve arrendersi alle note più tristi. Mai drammatiche, con un assenso verso la positività di vivere che ringrazia dell’amore ricevuto.
 
Attentamente curato dal punto di vista estetico il film non si dimentica di omaggiare icone del passato: i migliori jazzisti, la musica anni 80, il tip tap, attori e locandine di meravigliosi film. 
 
Bisognerà aspettare fino al 2017 per vedere al cinema quest’opera, che potrebbe sembrare un po’ stramba, ma a conti fatti affascina con discreta eleganza. La La Land non si trascina, ma ci trascina in un mondo magico, che riapre i nostri cassetti della memoria legati a musical come West side story ed Un Americano a Parigi. La sua leggerezza potrebbe fare da trampolino per una vagonata di nomination all’Oscar 2017, sinceramente meritate.
 
David Siena
 

Neruda

Sabato 21 Maggio 2016 15:15
Presentato in anteprima mondiale alla Quinzaine des réalisateurs e ripresentato in occasione della 73esima Mostra del Cinema di Venezia, l’ultimo lavoro di Pablo Larrain è un film atipico, forse difficile da inquadrare, ma artisticamente geniale; lavora con diverse forme d’arte realizzando un’opera armoniosa, che rapisce ed emoziona.
 
Cile, fine degli anni quaranta. Il poeta, ma anche uomo di politica Pablo Neruda (Luis Gnecco), viene ricercato dalla polizia dopo che il governo di Videla (Alfredo Castro) ha cambiato radicalmente i propri ideali. Lo stato, che fino ad allora era di tendenza comunista, è passato repentinamente a destra. Neruda, convinto sostenitore del popolo, non ha barattato i suoi ideali. E’ diventato così l’uomo a cui dare la caccia, nemico del partito in carica. Il poliziotto Peluchonneau (Gael Garcia Bernal) è l’incaricato di catturarlo. 
 
Come si è già potuto capire dalla sinossi, non siamo di fronte ad un classico biopic. Potrebbe altresì sembrare un film politico, ma anche questa strada non è da percorrere. Forse stretta analisi della poesia nerudiana? Proprio no. 
È un film che racconta semplicemente la storia del Cile e lo fa attraverso i personaggi sopra menzionati. Le sue città e le persone che le pongono: l’aristocrazia del potere, gli intellettuali, le povere famiglie, i bordelli, fino ad arrivare ai piccoli agglomerati delle praterie e alla propria natura e vegetazione, che ci fa scoprire la sua inaspettata anima western, donata alla pellicola in un surreale finale.
 
Cineasta innovativo, osannato dalla critica per i suoi ottimi lavori, che spaziano da Tony Manero a No, I giorni dell’arcobaleno, Pablo Larrain dirige il suo Neruda con mano morbida e mai pesante. Visionarietà spiccata, che viene fuori celando la figura del Premio Nobel per la Letteratura in inquadrature ingannevoli. Quando ci accorgiamo della sua presenza sembra di guardare un quadro prendere vita. Omaggio all’arte, che da un significato all’esistenza.
Attraverso la glorificazione della narrazione, novella nella novella, scopriamo quanto il narratore della storia, il commissario Peluchonneau debba la sua esistenza proprio all’artista Neruda. Identificazione dell’inseguitore, al quale viene data una vita. Nasce così un rapporto tra i due che va oltre il realismo, diventa qualcosa di surreale, che si ripete all’infinito. Come l’arte stessa: senza tempo ne luogo. Celluloide, che diventa la tela dell’artista sulla quale imprimere il proprio volere e donare all’opera stessa: un nome, una vita propria e una libertà eterna. 
 
Enorme lavoro fatto in fase di stesura della sceneggiatura da parte di Guillermo Calderón, scrittore che aveva già collaborato con Larrain per il Club. Le molteplici e complicate sfaccettature dello script non appesantiscono, anzi, lo spettatore si lascia condurre dall’andamento dello spettacolo verso un comodo e caldo approdo riparatore. Racconto sanificatore che ricorda le ballad del cantastorie Bruce Springsteen e della sua Ghost of Tom Joad. Armonica che ristora i cuori della povera gente oppressa dalla polizia. 
 
Un film da non perdere, fotografato su toni scuri nella prima parte, dove vige un clima di oppressione e persecuzione. Svolgimento del testo in luoghi chiusi ed artificiali. La strada verso le libertà risplende poi di luce naturale, in spazi luminosi dai sapori country contornati dalla purezza della neve. Insomma un lavoro magistrale questo Neruda, speriamo di vederlo presto distribuito in Italia.
 
David Siena
 

Frantz

Martedì 20 Settembre 2016 09:49
In un paesino della Germania sconfitta dalla Grande Guerra, la giovane Anna (Paula Beer) giornalmente fa visita alla tomba del fidanzato perito durante il conflitto. Un giorno qualunque del 1919, la ragazza si accorge che non è la sola a recarsi sulla lapide del soldato. Qui entra in scena Adrien (Pierre Niney, Yves Saint Laurent - 2014), personaggio misterioso, che incuriosisce Anna. Quando il ragazzo, per forza di cose, entra nella vita del paese, si scopre essere di origine francese. Domande e dubbi attanagliano la comunità, che come Anna e la famiglia del promesso sposo, si chiedono il perché di questo insolito pellegrinaggio. 
 
Nasce enigmatico ed all’insegna del thriller il nuovo camaleontico lavoro del regista francese François Ozon (Potiche – La bella statuina, nel 2010 in Concorso a Venezia). Frantz, che fa parte della line-up in corsa per il Leone d’Oro a Venezia 2016, è tratto da uno spettacolo teatrale di Maurice Rostand e precedentemente adattato al cinema da Lubitsch nel 1931 con il titolo “Broken Lullaby”.
Il regista d’oltralpe gira per la prima volta in bianco e nero ed in lingua tedesca. Rimane comunque fedele al suo cinema inventivo ed illusorio, riuscendo a mixare diversi generi e tematiche. Ozon imbastisce una regia che esalta la narrazione, tenendo alta l’asticella dell’attenzione, depistandoci per poi riallinearsi. Azzecca i tempi e fa fiorire i sentimenti, stati dell’anima dubbiosi e vaghi, per certi versi inafferrabili. 
Frantz è una parabola sul perdono. Nelle sue scene, che sembrano materia viva, camminano parallelamente Anna ed Adrien, in cerca di qualcosa che metta pace nelle proprie esistenze. Gestione complicata ed estremamente riflessiva di due diversi tipi di assoluzioni. Scopi diversi nell’affrontare i propri viaggi.
Chiamiamola vittoria e sconfitta, come è nell’intento del regista francese, se si paragonano le situazioni di Germania e Francia dopo la Prima Guerra Mondiale con quella dei due protagonisti. Viaggi personali e di culture, che per i tedeschi sarà la base della costruzione di un futuro di follia e morte. Nell’iconico dipinto “Il Suicidio” di E. Manet risiede parte dell’interpretazione della pellicola. Ad un primo sguardo il soggetto maschile sembra dormire un sonno riparatore, ma sotto l’attenta lente d’ingrandimento di Anna si realizza il suo nefasto significato: la fine figurativa dell’umanità, vittima della guerra e dei suoi strascichi. 
 
Nell’eleganza senza tempo del bianco e nero, paradossalmente risiede il punto a sfavore e forse un po’ banale del film. I momenti di spensieratezza si colorano, tutto il resto: i ricordi delle battaglie, il lutto ed il pericolo non hanno colore. Una strada battuta parecchie volte, che sinceramente ha il sapore del déjà vu. 
 
In evidenza per la sua bravura Paula Beer, premio Marcello Mastroianni per la migliore attrice emergente. La sua interpretazione è malinconica ed allo stesso tempo sentita e tenace. L’artista tedesca è aiutata anche dal buon lavoro fatto da Pierre Niney, capace di incastrarsi tra le riflessioni della ragazza, nascondendo e mettendo in evidenza il mistero.
 
Franzt è un film ben raccontato. Non si urla al capolavoro, ma scorre senza noia e ci si affianca ai due protagonisti immedesimandoci ai perdenti e stando assolutamente dalla loro parte. Sensi di colpa, amore e coraggio sono un buon viatico per assistere a quest’opera, che può essere considerata un moderno romanzo storico ben realizzato.
 
David Siena
 

Golden Globes 2020: tutti i premiati.

Lunedì 06 Gennaio 2020 10:48
Ricky Gervais caustico più che mai è il presentatore dei Golden Globes 2020. Australia, Me too, Greta e la natura, libertà di scelta, politica guerrafondaia di Donald Trump, non ci siamo fatti mancare nulla a questi 77 Golden Globes. 3 Premi a C’era una volta ad Hollywood di Quentin Tarantino, 2 al Joker di Todd Philips e Rocketman, film sulla vita di Elton John. Ma i 2 Golden Globes più prestigiosi vanno al film di Sam Mendes sulla prima guerra mondiale: 1917 si porta a casa il Miglior film drammatico e miglior regia.
 
 
Ma ora parliamo dei premi nello specifico, i veri protagonisti della serata al Beverly Hilton Hotel: Miglior film straniero al grottesco Parasite, un premio annunciato ma super meritato per il film sudcoreano di Bong Joon-ho.
Quentin Tarantino con il suo C’era una volta a Hollywood si porta a casa la miglior sceneggiatura, un po’ a sorpresa ha battuto Parasite e Storia di un matrimonio i favoriti.
 
Missing Link miglior film d’animazione. La Disney esce a bocca asciutta con i suoi super quotati Frozen 2 e Toy Story 4.
 
La cinicissima avvocatessa Laura Dern in Storia di un matrimonio vince il premio Miglior attrice non protagonista.
 
Elton John si porta a casa la miglior canzone originale per il suo Rocketman.
 
Olivia Colman miglior attrice nella serie The Crown eguaglia la regina Elisabetta più giovane Claire Foy di due anni fa.
 
Una meravigliosa Charlize Theron premia con Il Cecil B. DeMille alla carriera l’immenso e commosso Tom Hanks.
 
Sam Mendes miglior regista per 1917, non ancora uscito in Italia, ma segnatevi il 23 gennaio. Giorno di uscita del suo film sulla prima guerra mondiale.
 
Hildur Guðnadóttir miglior colonna sonora per il cupo Joker dì Todd Phillips: super azzeccata.
 
Brad Pitt miglior attore non protagonista per il suo ruolo in sottrazione in C’era una volta a Hollywood.
 
Taron Edgerton, grande sorpresa, miglior attore in film commedia/musicale per il suo EltonJohn in Rocketman. Ha battuto il quotato Leo di Caprio.
 
Awkwafina attrice protagonista per The Farewell-una bugia buona, un piccolo film-una grande Protagonista.
 
C’era una Volta a Hollywood miglior film dell’anno nella categoria commedia/musical. Conferma l’ottima onda mediatica che ha avuto il film negli Stati Uniti. Tarantino e il suo atto d’amore per il cinema conquista la Stampa Estera ad Hollywood.
 
Joaquin Phoenix miglior attore drammatico per il fantastico Joker. Potente ed indimenticabile!
 
Renée Zellweger miglior attrice in un film drammatico per Judy. Annunciassimo questo premio per la messa in scena degli ultimi tormentati giorni di vita della grande Judy Garland.
 
1917 miglior film drammatico dell’anno. Sconfigge Joker e soprattutto The Irishman, totalmente ignorato HFPA: zero Globi d’ori.
 
Ci vediamo nel 2021 per la prossima notte d’Oro dei Globi cinematografici.
 
David Siena

Alone in Berlin - Lettere da Berlino

Domenica 21 Febbraio 2016 11:51
Alone in Berlin racconta la drammatica storia di una coppia di coniugi tedeschi, che hanno perduto il figlio durante la Seconda Guerra Mondiale. Otto (Brendan Gleeson) e Anna Quangel (Emma Thompson) devono rinunciare all’amore del figlio per colpa assoluta del regime nazista. Il ragazzo spedito a combattere sul fronte francese non tornerà mai nella sua amata Berlino. Siamo nel 1940, quando l’annebbiamento procurato dalla devozione per il Führer si dissolve completamente davanti agli occhi dei genitori rimasti senza il proprio ragazzo. La cortina di menzogne divulgata dalla propaganda nazista deve essere smascherata. Otto inizia a scrivere cartoline anti regime, che con scaltrezza lascia in luoghi strategici, con l’augurio che il loro contenuto possa in qualche modo scuotere la popolazione e reagire alla macchina folle innescata da Hitler. Nessuno scrupolo ferma la corsa intrapresa da questa famiglia spezzata prematuramente. Non vi è nessuna esitazione neanche da parte del partito in carica ad assoldare un ispettore della Gestapo, che sia in grado di mettere la parola fine al clima sovversivo che sta crescendo per le strade, nei palazzi e negli uffici pubblici di Berlino. Herr Escherich (Daniel Bruehl) è l’uomo giusto per dare la caccia ad Otto ed Anna. Con ogni mezzo cercherà di stanare i nemici per portarli allo scoperto e catturarli. 
 
Alla regia di questo dramma storico troviamo un attore svizzero, quel belloccio di Vincent Pérez (uno dei suoi film più rappresentativi è il Cyrano de Bergerac del 1990), passato dietro la macchina da presa e rimasto stregato dalla profondità etica del romanzo “Ognuno muore solo” di Hans Fallada, dal quale il film è tratto. La denuncia, in Alone in Berlin, avviene dai cittadini tedeschi e non dai colpiti (ebrei). Una prova di civiltà e di amore per la propria patria che sta andando allo sbando. 
 
Ispirato ad una storia vera, Alone di Berlin sbarca al Festival tedesco con molte ambizioni. Piazza predestinata per ospitare questo coraggioso manifesto della lotta popolare contro il cancro del nazionalsocialismo più estremo. 
 
Senza girarci troppo intorno possiamo affermare fin da subito che il risultato di quest’opera è decisamente deludente. Costruito per far riflettere e per ricordare in profondità, il film non mantiene queste promesse, o almeno non le sviscera completamente rimanendo troppo in superficie. Può essere etichettato come un prodotto per la televisione, una fiction da vedere comodamente sul proprio divano, ma niente più. 
Il film di Pèrez rimane in una comfort zone massimizzata non riuscendo così a far esplodere i contenuti. Non basta ricordare le nefandezze del despota Hitler per fare un gran film.
Nel vivere la quotidianità con il male bisogna essere forti e non mollare mai. Mettere una corazza e sperare di non perdere pezzi per strada. Questa tenacia e bisogno estremo di combattere non si vedono, sono solo sussurrati.
 
Il problema sta nella scrittura, che si limita a descrivere e non a concretizzare personaggi e motivazioni. L’elaborato piano di messaggi escogitato dalla coppia risulta visibile solo nell’atto del deposito dei biglietti, tutto il resto: l’organizzazione mista agli stati d’animo è latitante. Il crescere di pathos emozionale, che è una caratteristica di questi film, scende proporzionalmente con le ambizioni del regista, che si limita a offrirci una cartolina dell’epoca. Cartolina patinata e lustra, se almeno fosse stata scolorita e sofferta, causa del logorio del tempo e del dolore accumulato, sarebbe apparsa credibile.
 
Alone in Berlin tratta un argomento abbondantemente inflazionato, visto e rivisto sul grande schermo. Ci voleva qualcosa di più per rendere grazie ad una delle pagine storiche più nefaste per l’umanità. Si salvano a pieni voti i due protagonisti principali: Emma Thomson e Brendan Gleeson. Prove all’altezza dell’argomento trattato, che in un certo senso riequilibrano lo spettatore verso il consono grado di tormento, che manca al film. 
 
David Siena

Quando hai 17 anni

Sabato 20 Febbraio 2016 14:21
L’adolescenza, si sa, è uno dei momenti della vita in cui si cresce a braccetto con la confusione. Esplodono sentimenti sconosciuti e si vive una libertà selvaggia. Una Babele di stati d’animo disordinati, che ci portano a godere di qualcosa di non maturo, ma per questo non necessariamente aspro o sbagliato. Anzi, in quel vivere con spavaldo coraggio si impara a conoscere se stessi con sempre meno vincoli. Ecco, il film di Téchiné (L’Età acerba e La mia stagione preferita tra i suoi lavori più rappresentativi) riesce nell’intento di spezzare quei nodi psicologici, proponendoci una parabola autentica, dove anche la lotta ed un pugno in faccia sembrano essere qualcosa di logico e necessario.
 
Queste turbolenze sono al centro del rapporto tra Damien (Kacey Mottet Klein) e Tom (Corentin Fila). Entrambe vivono in un paese ai piedi dei Pirenei: il primo con la madre Marianne (Sandrine Kiberlain, vista nel sorprendente Polisse), che cerca di sopperire alle mancanze del padre, militare in perenne trasferta; il secondo è figlio adottivo di contadini che non abitano in città. La casa di Tom è sperduta tra le montagne, dove i genitori gestiscono una florida fattoria. Ogni giorno il ragazzo deve fare molta strada per recarsi a scuola. Quando la madre rimane incinta la soluzione più plausibile è quella di alloggiare, fino al termine dell’anno scolastico, con Marianne e Damien. I due diciassettenni sotto lo stesso tetto non si sopportano più di tanto, le scintille erano già partite a scuola e continuano con vigore a casa. Potrebbe essere un problema razziale, dato che Tom ha la pelle mulatta, ma sotto la cenere brucia qualcos’altro: un sentimento innominabile, che fa paura e spaventa i due adolescenti.
 
Quand on a 17 ans vive sulla forza bruta ed allo stesso tempo libera della narrazione di Téchiné e Céline Sciamma. Qui non si fa moralismo, ma si indaga con realismo ed autenticità nel nucleo dei sentimenti più reconditi dei ragazzi d’oggi. Usando l’anno scolastico come strada maestra del film possiamo scoprire, insieme ai due giovani, la loro tendenza sessuale con la rispettiva esplorazione, resa intima da una regia presente, ma non soffocante. Una storia che al suo interno ci mostra personaggi genuini, che vivono in simbiosi con la natura che li circonda e ne influenza i comportamenti. Tom e Damien assorbono quel senso di grezzo e di incolto e lo portano nel loro rapporto. Bravura del settantaduenne Téchité nel confezionare un opera semplice, che si fa notare per la sua legittima naturalità. L’unica nota stonata, che gli si può imputare, è che non cambia mai registro. Perdura nelle sue intenzioni lasciando un po’ indietro l’aspetto emozionale e di pathos, che passa di fianco allo spettatore, ma non lo tocca completamente nel vivo. Appiattimento temporaneo che non fa sorgere a sole caldo il film.
 
Di Quand on a 17 ans si ricorderà di come sia estremamente affascinate scoprire se stessi. Un amore sordo, che finalmente sente qualcosa, anche se solo un leggero soffio di vento sussurrato tra le montagne. Consigliato a chi sa che da sotto alla neve prima o poi apparirà un prato verde. L’autore francese qui mette le basi per coltivarlo e mantenerlo forte, parlando senza barriere e con sincerità ad ognuno degli spettatori in sala. 
 
David Siena
 

Morte a Sarajevo

Mercoledì 24 Febbraio 2016 14:32
Non abbiamo ricordo di momenti gioiosi che accumuniamo all’ex Jugoslavia, terra purtroppo maledetta dove il male cova fin da tempi dell'assassinio dell'Arciduca Ferdinando da parte di Gavrilo Princip. Correva l’anno 1914, momento storico di assoluto rilievo, che sancisce l’inizio della prima grande guerra per l’umanità. Nell’Hotel Europa, che fu il centro nevralgico d’accoglienza durante le Olimpiadi Invernali di Sarajevo del 1984, forse unico momento storico di mediatico interesse non belligero, sono in corso i preparativi per la celebrazione del centenario della prima Guerra Mondiale. L’hotel non è in un buon momento economico ed i suoi dipendenti sono pronti a scioperare. Quale momento migliore di questo, per richiamare un po’ di clamore, che consentirebbe ai lavoratori di ottenere lo stipendio che manca da due mesi. Un ferreo direttore sta cercando, in ogni modo possibile, di far saltare la protesta con l’aiuto di una indomita collaboratrice, ahimè figlia della leader del gruppo di manifestanti. Parallelamente agli eventi che avvengono nei corridoi dell’albergo, sulla terrazza si stanno svolgendo una serie di interviste proprio per ricordare la Grande Guerra. Infine per non farci mancare nulla, sono state messe delle telecamere nella suite dove alloggia l’oratore principale, indaffarato a ripetere il suo discorso, che di lì a poco lo vedrà raccontare gli eventi della guerra in Bosnia. 
In questo clima da polveriera, Danis Tanovic, regista delle guerre slave, ha pensato bene di metterci il proprio zampino, dirigendo ed adattando il romanzo “Hotel Europe” di Bernard-Henry Lévy.
 
Il regista premiato con l’Oscar nel 2002 per il memorabile No Man’s Land riceve, per la seconda volta, il Gran Premio della Giuria al Festival di Berlino. Il primo Orso d’Argento lo vinse nel 2013 con An Episode in the Life of an Iron Picker, pellicola che mostrava i pesanti problemi sanitari della Bosnia-Herzegovina, suo paese d’origine.
 
Morte a Sarajevo non fa altro che mettere in evidenza i pregi ed i difetti di un regista accurato come Tanovic. Cineasta capace di guizzi di grazia e raffinatezza con la macchina da presa, che qui però, ancora una volta, sembra un po’ troppo legato al suo linguaggio. Modus operandi che alla lunga non disturba, ma di fondo non stupisce più come in passato. Rimane comunque un buon sapore, un’essenza di compiuto. Risplendente lucidità nel fotografare i sogni e gli incubi politici di una terra tribolata e senza pace. Si scorge anche la sua mano di esperto documentarista. Attraverso le voci delle interviste mette sul tavolo l’oggettivo che ha disintegrato la Jugoslavia. Con la sua onestà ci regala un “Birdman” incentrato sull’incomunicabilità atavica tra razze.
 
Sviscerando la sceneggiatura, che si sviluppa in una mattinata, si mettono in evidenza la disarmonie odierne del popolo slavo. Dal latino medievale “slavus”, che significa schiavo. Proprio come lo sono le popolazioni, schiave di se stesse. Senza comunicazione. Dialogo obbligato a stare alla base di un muro del quale non si vede la fine. Nei gironi danteschi dell’Hotel Europa risiede il messaggio asciutto e senza fronzoli di come le incomprensioni riescono a sferrare il proprio attacco e di come sotto forma di virus si sono fatte largo nella gente comune.
 
Consigliato a chi piace l’enfatizzazione, segno distinguibile di Danis Tanovic. La storia della Jugoslavia attraverso i suoi discussi monumenti. Anch’essi simboli di destini certi e prestabiliti, come quelli che usa l’autore, che con acume e sagacia imbastisce situazioni delle quali si può presagire l’esito e puntualmente diventano realtà.  
 
 
David Siena

Il cliente

Sabato 21 Maggio 2016 11:17
Teheran, giorni nostri. Una giovane coppia deve fuggire dalla propria abitazione, causa pericolo imminente di crollo dell’edificio. Costretti a cercare con urgenza un posto dove stare, Emad (Shahab Hosseini) e Rana (Taraneh Alidoosti), chiedono se è possibile dormire per qualche notte nel teatro dove entrambe stanno preparando lo spettacolo “Morte di un commesso viaggiatore” di Arthur Miller. Il responsabile offre loro una sistemazione più comoda: un appartamento lasciato libero da una donna, che con l’intensificarsi della narrazione, scopriremo avere avuto un passato a dir poco permissivo. Un sinistro episodio, che ha come scena del misfatto proprio la nuova casa, cambierà per sempre la vita dei coniugi.
 
Premio per la miglior sceneggiatura ad Asghar Farhadi e miglior attore a Shahab Hosseini (egregia prova da navigato attore teatrale) al Festival di Cannes 2016, dove il film era in concorso per la Palma d’Oro.
 
Asghar Farhadi, regista di A Separation (Golden Globe e Oscar miglior film straniero nel 2012) e di Il Passato, torna a descrivere il proprio paese, un Iran profondamente avvinghiato alla propria cultura. Mondo segnato da una ben definita ideologia, che abbraccia calorosamente la religione. Su questa base elabora, con acume da esperto di teatro, un’intricata drammaturgia affiancando la vita di due giovani innamorati a quella della famiglia protagonista dell’opera di Miller “Morte di un commesso viaggiatore”. Metacinema come base per un revenge movie guidato da un cuore ferito, che non riesce a darsi pace.
 
L’autore iraniano, come ormai da qualche anno a questa parte, ci regala un lungometraggio contraddistinto da una conoscenza profonda del narrare. Efficacia del testo mai celata e resa preziosa dai dialoghi e dal saper descrivere complicati rapporti umani. Si rimane avvinghiati ai dettami della società, che poi sono proprio la causa scatenante del divampare delle frustrazioni. Lo sviluppo del testo è stupefacente, un thriller disseminato di complessi labirinti personali. Viaggi conservatrici con iconici cartelli affissi su ogni protagonista. Un pannello da optometrista stampato addosso con la scritta più visibile che dice: “Vergogna”. Sotto più sfuocate, ma presenti, le parole: fallimento ed insoddisfazione. 
 
Farhadi ci insegna come un piccolo gesto può avere delle conseguenze enormi e modificare la vita di molte persone. Una minuscola fiamma che poco a poco prende aria bruciando tutto quello che si è costruito con amore e perseveranza nella vita. Qui si arriva con un groppo in gola, tensione alle stelle costruita attraverso una impressionante conoscenza delle dinamiche umane, che stordisce e lascia impietriti. Un dettagliato sguardo nell’anima della propria gente tradotto con un linguaggio delle immagini unico ed esaustivo.
Emad ad un certo punto vorrebbe morire perché ha fallito come il commesso viaggiatore, che trova nella morte la riparazione a tutto. La dipartita morale di un docente, aimè troppo idealista.
 
The Salesman è il film da non perdere. Perla di rara bellezza nel palinsesto cinematografico contemporaneo. Ad oggi non è ancora prevista una data di uscita italiana, ma siate pronti ad osservare il mondo frantumato del coraggioso cineasta iraniano, colmo di difficoltà nel gestire la propria famiglia anche quando appartieni ad una classe media ed istruita. La Palma d’oro morale.
 
David Siena
 

Arrival

Sabato 10 Settembre 2016 15:55
Arrival di Denis Villeneuve (Sicario - 2015, la Donna che canta - 2010) era tra i film più attesi della Mostra di Venezia edizione 73. Con grandi aspettative è sbarcato al Lido e ci è restato a pieni meriti. Il regista canadese, ancora una volta, ci ipnotizza trasmettendo una tensione che dal primo all’ultimo minuto fa mancare il fiato. Troppo celebrale e con la croce di essere un sci-fi, per entrare nel palmares dei premi. Peccato perché sarebbe stata l’occasione per andare oltre le barriere e razionalizzare che il cinema odierno è qualcosa di più di una telecamera fissa e che la genialità sta anche in altri mondi. 
 
Improvvisamente arrivano sul pianeta Terra diverse navi aliene. Questi mezzi extraterrestri hanno la forma  di una melanzana gigante e fluttuano a pochi metri dal suolo. Una paura collettiva accomuna tutti i paesi del mondo, che si vedono costretti ad organizzarsi per difendersi. Prima di intraprendere una strada bellicosa, gli stati più potenti cercano di stabilire un contatto con questi esseri. Il colonnello Weber degli Stati Uniti (Forest Whitaker) chiede aiuto a Louise Banks (Amy Adams), affermata linguista che già in passato aveva collaborato con il governo. Decifrare il linguaggio degli ospiti sarà impresa ardua anche per la migliore. Trepidazione e curiosità invadono l’animo della donna nel momento del contatto con gli eptapodi. Il dono di Louise sta nel tradurre l’intraducibile e dentro questo c’è qualcosa per se stessa e anche per noi.
Il resto è tutto da scoprire, compresi gli ignoti e sorprendenti viaggi che la pellicola ci regala.
 
Il film e tratto dall'antologia di racconti Stories of Your Life di Ted Chiang. Eric Heisserer ne ha curato l’adattamento cinematografico in perfetta coesione con lo stile di Villeneuve, riuscendo con un perfetto equilibrio nella narrazione, a nascondere gli indizi che portano all’apertura della scatola finale. Una sorta di M. Night Shaymalan elegante.
 
Il fiore all’occhiello di Arrival è senza dubbio, come già accennato in precedenza, la regia chirurgica del talento canadese. Uno sci-fi raro, forse unico, con contaminazioni nolaniane che si fanno largo in quello che si può definire un trip completo. La direzione è focalizzata e concentrata. Con pochissimo materiale costruisce un climax che ascende ad elevate quote di trazione, rimanendoci ed espandendosi scena dopo scena.  
Villeneuve ha una visione di per sé aliena, non umana, un occhio scrutatore che si differenzia dal parco dei registi contemporanei. Tende a dare, ma anche ad avere: confeziona film per tutti e strizza l’occhio all’autorialità. La sua conforme illeggibilità è uno dei suoi segni distintivi. Qui inserisce inquietanti momenti horror, che by-passano le classiche cornici della fantascienza per ricrearla a sua immagine e somiglianza.
 
L’invasione aliena può essere anche vista come metafora degli avvenimenti sconvolgenti che la terra sta subendo negli ultimi 15 anni, dopo il nefasto 11 settembre 2001. Argomento attualizzato in chiave cine-fantascientifica. Quest’atmosfera di terrore e paura è resa più vivida grazie anche alla colonna sonora dell’islandese Jóhann Jóhannsson (compositore che ha curato buona parte dei film di Villeneuve). Il tema musicale è un vero protagonista, sempre presente al fianco della linguista e del matematico Ian (Jeremy Renner), trasmette dentro e fuori lo schermo disagio ed un’aliena inquietudine.
 
Nemici o amici? I grossi poliponi protagonisti di Arrival si riveleranno solo nel mese di Gennaio al pubblico italiano. Nel frattempo si possono solo lodare tutte le incognite del caso. Rebus magistralmente gestito che gioca con il tempo e la consapevolezza. Le scelte consapevoli sono esattamente il centro dell’attenzione di questa pellicola, decisioni che non hanno un giusto o sbagliato universalmente riconosciuto e nella loro accettazione risiede l’essenza della vita, bella o brutta che sia.
 
David Siena

Harmonium

Lunedì 23 Maggio 2016 15:43
Meritatamente premiato con il Premio della Giuria nella sezione Un Certain Regard 2016 del Festival di Cannes, Harmonium ci porta all’interno di una famiglia giapponese qualunque, mostrandoci dove il male si annida contro ogni previsione, occultato da una facciata di perbenismo, sistematicità e di perfezione.
In un paesino, che non ci è noto sapere, si vive la vita nella sua abitudinaria routine. Ci viene mostrata la casa di Yosho (Kanji Furutachi) e della moglie Aike (Mariko Tsutsui), fotografia di una comunità perbene, che amorevolmente cresce la figlia insegnandogli le buone maniere e come svago lezioni di harmonium. Il pater familias gestisce, all’interno del proprio immobile, un’attività di stamperia meccanica. Ligio al dovere manda avanti il suo businnes da solo, fino a quando un vecchio amico bussa alla porta chiedendo un lavoro ed un posto in cui dormire. Il passato, dalle non chiare tinte di colore, torna a fargli visita. In un susseguirsi di colpi di scena, gli equilibri della famiglia verranno messi alla prova, per poi trovarsi di fronte un’amara realtà di difficile gestione. Scatole che si aprono in continuazione con al loro interno pezzi di un puzzle, che esige di essere completato. Perché tutto quello, che si è maldestramente seminato, esige un prezzo crudele da pagare. 
 
Il film è un cerchio di suprema precisione stilistica diviso in due differenti metà. Parti dello stesso universo, che compongono questa storia. Il cosiddetto primo tempo sviluppa la quotidianità, che mano a mano si carica di mistero, il secondo da spazio alla ricerca e alla gestione del senso di colpa. Il regista Kōji Fukada, che qui cura anche la sceneggiatura, rappresenta con spietata armonia un escalation di eventi credibili usando due distinti colori per raccontarli; il bianco e il rosso.
Dimostra notevoli capacità visive ed infonde un ritmo musicalmente cadenzato alla sua opera. Alza e abbassa i momenti di pathos nel film come in una sinfonia perfetta; spartito, che ha nel suo sviluppo soavi andamenti seguiti da altri distorti e dissestati. L’harmonium del titolo rimanda proprio a questo, ed assume anche altri differenti significati: strumento di crescita e apprendimento per la ragazzina ed armonia della classica famiglia giapponese.
 
Il cast è ben diretto e artisticamente all’altezza. Yosho è l’icona della conformità e della compostezza giapponese. Razionale e lontano dalla religione. Aike evidenzia la sua vergogna con gesti ossessivi. La colpa che ricade su entrambe è gestita in maniera diametralmente opposta.
L’amico Yasaka (Tadanobu Asano), mafioso della Yakuza, incute fin dal primo sguardo e da come è fotografato sulla locandina del film, un marcato timore. Sguardo penetrante e maligno.
 
All’interno del compiuto Harmonium troviamo anche un potente uso del linguaggio meta cinematografico, con due istantanee del prima del dopo. Ritratti di vita serena e di crudele e mutilato cercare (forse) di ricominciare.
 
David Siena
 
 
 
 
 
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