Tennessee Williams non si chiamava davvero Tennessee Williams. Il nome con il quale lo conosciamo tutti era lo pseudonimo di Thomas Lanier Williams.
Così la sua America, filtrata dalla lente del natio Mississipi, profuma di distillati clandestini e fieno, di drammi complessi e compressi all'interno famiglie allargate, di figlioli improdighi, di sesso, consumato in fretta, per sbaglio, per forza. Nulla è mai ciò che dovrebbe essere, per convenzione, imposizione sociale, opportunità. Ognuno rincorre ciò che non sa e fugge dalla stessa cosa, in un gioco impari con una gravitazione cinica e beffarda.
Resiste una traccia indelebile del suo melodramma non sentimentale nelle viscere più profonde dell'America contemporanea, quella dei nipoti privilegiati, segnati tuttavia dalla stessa primigenia condanna, vagabonda e disperata.Cianfrance, un passo prima del suo meraviglioso “Blue Valentine”, con l'acceleratore della moto truccata, premuto sulle corde del patetismo senza lacrime – vale l'unica straziante eccezione di Gosling – narra, in fondo, un'angoscia putrida, sudata, analoga a quella del drammaturgo di Columbus.
Un'unica sorte, oltre i pini, per chi è condannato dalla storia dei padri a correre più veloce del destino, a innalzare Dioniso sopra Apollo: epilogo infausto per gangster romantici e impavidi fuorilegge. Eppure lo sprovveduto, fragile stuntman Luke, Luke il Bello, come Johnny, ma senza vendetta, solo la voglia di garantire al proprio figlio un futuro migliore del suo, non è un nemico pubblico n.1. E' uno sbandato qualunque, in un vicolo qualunque dell'America del ventunesimo secolo, in una casa uguale a mille altre, con la cornetta del telefono, stretta nella mano sbagliata.
Allora, come adesso, conta chi spara per primo o chi ha la fortuna di dichiarare l'ordine più comodo, accettabile, delle cose, ma la tragedia è soltanto una chiazza di sangue dietro la testa, da pulire presto, da dimenticare, ancora prima, in qualche scaffale polveroso di un dipartimento di polizia di provincia. Allora, come adesso, lo spettro di Banquo, del senso di colpa, affiora impietoso per vittime e carnefici (quali, poi?), dentro la cornice perfetta di un ritratto in uniforme o nel ritaglio fotografico di una felicità particellare, custodito come la reliquia di un malum culpae non emendabile.
L'ordine (in)naturale del potere costituito che tutto sovrintende, corrotto e ipocrita, resta il solo possibile perno di una ciclicità bara, sembra dirci, con amarezza, il regista statunitense. I figli viziati, ma forse parimenti soli, sul podio di una vittoria annunciata, quelli orfani, abbandonati anzitempo, di nuovo in sella a una moto, a cercare un destino che non potranno che trovare, di nuovo e sempre, al di là dei pini.
Ilaria Mainardi
Se esista una poietica cinematografica della mente umana, attraverso complessi edipici e squarci di sapienza shakespeariana, il cinema sonda dalla sua nascita, nel sodalizio tra Bunuel e Dalì, nell’onirismo lynchiano, nella schizofrenia deterministica di David Cronenberg.
In questo “Only God Forgives”, lontanissimo dai lidi di “Drive”, più assimilabile al precedente, bellissimo, “Valhalla Rising”, Nicolas Winding Refn dà il suo prezioso contributo all’indagine epistemologica.
La riflessione del regista danese inserisce di tutto, traslando però il limite di sovrabbondanza rococò (ciò che, incredibilmente, gli si imputa) in virtù di sintesi espressiva e concettuale, filosofica e letteraria.
Non altrimenti si spiegherebbe la performance incredibile di Gosling, nuovamente diretto da Refn, dopo l’exploit del 2011: follia pura parlare di fissità espressiva quando ci si trova di fronte a un interprete che, con coraggio e adesione molto poco calcolata, in termini di marketing divistico, accetta un ruolo tanto rarefatto e silenzioso. I mondi di Macbeth e di Edipo, ma anche di Elettra, nel suo acutissimo femminino, attraversano lo sguardo struggente, doloroso, intenso dell’attore canadese che, quando la mdp gli si inchioda in faccia, parla con le pieghe del collo, col sudore, col ritmo del respiro.
Julian non esiste, per questo non parla quasi mai, lo fa la mente (o l’animo, l’anima) che attraverso i suoi occhi noi scorgiamo, lacerata e divisa. Il senso di colpa noi vediamo, demiurgo, trasfigurato in un vendicatore kurosawiano, che punisce per l’uccisione incolpevole, destinata di Laio, e non può che tormentare in eterno colui che, sembra suggerire la madre/consorte, Kristin Scott Thomas: “Ma non mi fido (né comprendo) della tua natura: troppo latte d'umana tenerezza ci scorre, perché tu sappia seguire la via più breve.”
Una strada che è già scritta, come negli eroi sofoclei, da un fato imperscrutabile, che sfugge il controllo degli stessi dei olimpici. Ma anche la fortuna in senso shakesperaniano e nietzschiano, una ruota che, girando, bilancia impulsi dionisiaci e apollinei, eros e thanatos, e che turba il protagonista: egli sa, come Macbeth, che il fatto, una volta fatto, non esaurirà nell’azione le proprie nefaste conseguenze, né sembra suggerircelo l’imago mortis scenografico che lo circonda.
Ma non vi è una prospettiva soteriologica in “Only God Forgives”, se non attraverso l’ironia beffarda del titolo: la macchia del peccato non potrà trovare redenzione ultraterrena. La metafisica del silenzio non assurge perciò a strumento di autoconsolazione dell’individuo nei confronti delle proprie azioni: nella penetrazione della madre, sangue nel sangue, con le mani colpevoli che ella stessa aveva mosso, si realizza piuttosto la nota massima di Wittgenstein, “su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere”. E che la profezia della sfinge, dunque, si compia: gli occhi che hanno guardato siano resi ciechi da spilli acuminati, i pugni lordi, si alzino consapevoli, martoriati, per l’ultima volta, sotto il peso della colpa atavica.
Ilaria Mainardi