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La Jalousie

Lunedì 23 Settembre 2013 00:52
Appena varchi la soglia della sala in cui stanno proiettando “La Jalousie”, e magari ti capita di arrivare con quei due minuti di ritardo che – accidenti! - ti hanno fatto perdere il primo scambio di battute o qualche scena introduttiva, ti sembra di essere inavvertitamente finito in una botola del tempo che ti riporta al bianco e nero degli anni ‘50, alla politique des auteurs, a Renoir e Godard, ad una forma di cinema che è prima di tutto riflessione filosofica  e rivoluzione mediatica. “La Jalouise” appartiene ad un tipo di cinema che forse non esiste più ma, proprio per questo, pone una domanda fondamentale all’industria cinematografica circa il suo futuro. Direi quasi una questione morale.
Senza nostalgie lacrimose o spirito anacronistico, mi sembra realistico chiedersi se c’è ancora spazio per un cinema fatto di parole, di storie semplici che girano intorno a concetti universali, di sceneggiature ridotte all’osso, di improvvisazione, di cenni autobiografici che non hanno bisogno di essere celati. Ne “La Jalousie” c’è tutto questo, in stile “antico reportage”, volutamente rievocativo delle vicende artistico-personali della famiglia Garrel, catturate dallo sguardo del piccolo Philippe (che nel film diventa una bambina): il papà, Maurice Garrel, giovane attore di teatro, qui interpretato dal nipote (Luis, anche lui attore), lascia la mamma e s’innamora di un’attrice, la quale piace subito alla figlia di Maurice, facendo esplodere la gelosia dell’ex moglie. Finché non è lo stesso Maurice-Luis a cadere preda della gelosia, scoprendo che la sua nuova fiamma – suo “amore definitivo” - si lascia andare a scappatelle notturne e giunge persino a lasciarlo per giocare il ruolo della femmina trofeo di un ricco intellettuale. Chissà sin dove si spingono le immaginazioni del piccolo Philippe per colmare i vuoti di memoria e fin dove arriva, invece, la realtà di quella gelosia possessiva che sfiora la morte.
Credo che con questo ménage parigino Garrel voglia dirci sostanzialmente due cose. La prima è che si può girare un film a basso costo, in un periodo di tempo relativamente breve, che non lesini nei contenuti e nella forma, scegliendo come set le case autentiche, le strade e i bar conosciuti e abitualmente frequentati. Insomma si può usare la realtà che viviamo, o il ricordo di un’altra realtà, per costruire una storia che ruota attorno ad un concetto, in questo caso la gelosia. La seconda è che la comunicazione fra le persone è un fatto molto complicato, e nelle maglie dell’incomunicabilità cresce la passione triste della gelosia, che sceglie i colpevoli e che pone un interrogativo morale dentro alla coppia.
Fondamentale il nesso fra gelosia e incomunicabilità, leitmotiv di autori come Antonioni e Moravia, ai quali Garrel ammette apertamente di rifarsi (“La noia” come “La gelosia”, elementi pervasivi di un certo contesto borghese che i due autori vivono e rappresentano), sottolineando la comune natura occidentale dei temi. Perché di una gelosia introversa, che si dispiega in sé stessa e non altrove, parla Garrel. E di una difficoltà di comunicazione che irrompe nella coppia quando la paura dell’abbandono e della progettualità finiscono per ridare forma alle pratiche sociali eteronormative in cui la coppia stessa s’ ingabbia.
Ma, al contrario di ciò che si potrebbe pensare, non c’è nessuna vena romantico-nostalgica in questo attraversamento filosofico: la gelosia stessa appare piuttosto una zavorra dalla quale, sembra suggerire il regista (e i quattro sceneggiatori che hanno lavorato con lui), dovremmo allontanarci per vivere con maggiore serenità quegli spazi di condivisione che illuminano alcuni periodi della nostra vita, ma che non sono eterni. Per non parlare della comunicazione: parlare (con ogni mezzo) a volte fa male; le parole traumatizzano più dei gesti e non sempre possono essere qualificate come antidoto all’incomprensione.
In un certo senso con questo film Garrel distrugge il concetto di infedeltà quale attitudine del singolo, per inserirlo a pieno titolo nella società occidentale contemporanea, dove la maggior parte delle coppie vive al massimo un pezzo di vita insieme, senza sperimentare la possibilità di un amore fedele ed eterno. In fondo, - il cinismo dell’autore sale ancora di un gradino – “quando due persone stanno insieme è un malinteso felice. Che può diventare un malinteso infelice nel caso di drammi della gelosia come quello del film”.
Benché Venezia ’70 non gli abbia riservato alcuna attenzione, mi sembra che “ La Jalousie” apra uno spazio enorme di riflessione, tanto sul cinema, quanto sulle nostre modalità di vivere i rapporti.
 
Elisa Fiorucci