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Sherlock Holmes - Gioco di Ombre

Martedì 27 Dicembre 2011 23:06

A due anni dal primo capitolo della saga, tornano Sherlock Holmes ed il fido assistente e biografo dr. John Watson nella versione "tradotta" per le nuove generazioni ad opera del talentuoso ma incostante Guy Ritchie che, per l'occasione, sembra aver ritrovato in gran parte l'ispirazione. 

Il detective inglese ed il suo compagno di avventure, rispettivamente interpretati da Robert Downey Jr. e Jude Law, stavolta si trovano a sfidare uno degli acerrimi nemici di Holmes, ossia il professor James Moriarty (Jared Harris), che in un contesto delicato come la fine del Diciannovesimo secolo, attraverso una studiata rete di attentati, sta anticipando quella che, cinque lustri dopo, sarà la Prima Guerra Mondiale. Al duo si aggiungono personaggi noti come la doppiogiochista Irene Adler (Rachel McAdams), destinata ad uscire presto di scena, e la fidanzata di Watson, Mary Morstan (Kelly Reilly), ed altre new entry, quali Mycroft (un gigantesco Stephen Fry), lo spassoso fratello di Sherlock, e Sim (l'ormai internazionale Noomi Rapace), una zingara suo malgrado legata ad un importante tassello del complesso puzzle di Moriarty, che Holmes e Watson cercheranno di risolvere.
Il risultato è un misto di intrattenimento cerebrale, come le sofisticate deduzioni e le subliminali percezioni del celebre detective, e di azione anche fin troppo  scatenata e a tratti confusa, che si intrecciano in una particolare messa in scena, ottenuta dal regista insieme al direttore della fotografia Philippe Rousselot, usando una particolare macchina da presa digitale ad alta velocità, la “Phantom”. 
Un Ritchie in stato di grazia traspone la sceneggiatura dei coniugi Michelle e Kieran Mulroney, scritta in relativa libertà attingendo dai lavori di Sir Arthur Conan Doyle, in particolare dal racconto "L'Ultima avventura" – che avrebbe dovuto essere appunto l'ultimo, al termine del quale il detective apparentemente muore -, cui si sono ampiamente ispirati per il duello finale con Moriarty presso le cascate di Reichenbach, in Svizzera, proprio nel 1891, pur tradendolo (come fece lo stesso scrittore qualche anno dopo su insistenza dei lettori) con una conclusione che lascia intravedere un possibile terzo episodio.
Serrato come una partita a scacchi tra due campioni – metafora cui spesso si sono serviti gli sceneggiatori ed il regista nel corso della narrazione – il film, oltre che ai fantastici duetti tra Downey Jr e Law, deve molto anche al contributo insostituibile delle musiche “morriconiane” di Hans Zimmer. Un'unica nota di demerito va però alla povera Noomi Rapace, memorabile altrove, mentre qui assolutamente spaesata e drammaticamente trasparente.
 
Paolo Dallimonti e Chiara Nucera

Rapina a Stoccolma

Giovedì 20 Giugno 2019 19:52
E' noto a tutti il fenomeno della sindrome di Stoccolma, ma se qualcuno vi chiedesse da dove trae origine chi saprebbe rispondere? 
Tutto nacque nel 1973 durante l'occupazione della Sveriges Kreditbank di Stoccolma da parte di Jan-Erik Olsson e Clark Olofsson, che tennero in ostaggio 4 persone per 6 giorni. Il particolare comportamento degli ostaggi, che a un certo punto cominciarono ad aiutare i loro sequestratori contro la polizia, incuriosí gli psicologi, che conclusero i loro studi coniando la famosa espressione.
Robert Budreau (Born to be Blue) trae ispirazione dalla realtà per portare all'attenzione del grande pubblico la strana combinazione di eventi, coadiuvato da un cast dall'indubbio valore artistico come Ethan Hawke e Mark Strong nei panni dei due assalitori e Noomi Rapace, unica vera autoctona della vicenda, come una degli ostaggi.
L'ambientazione da anni '70 viene ricreata molto fedelmente, con una palette cromatica calda, e dei costumi che richiamano lo stile iconico del periodo. Il personaggio di Ethan Hawke in particolare, che all'inizio della vicenda cerca di fingersi americano, pare uscire di peso dalla cultura di Easy Rider e altri film di fine anni '60, creando uno strano mix istrionico e spavaldo, ma alla fine incapace veramente di comunicare il timore del classico pazzo omicida che sta tenendo in ostaggio una banca.
Il fatto che qualcosa non torni si avverte presto, perchè anzichè caricare l'atmosfera di tensione di fronte agli spari e alle urla in faccia agli ostaggi, un montaggio poco reattivo e una regia meno dinamica del solito per il genere sgonfiano la suspance, suggerendo che ci sia qualcosa di strano in questo assalitore, che abbaia ma non morde, e anzi mette della musica di Bob Dylan per far sentire a proprio agio gli ostaggi.
Quando arrivano delle vere e proprie incursioni nella commedia come cantare alla radio della polizia o chiedere la Mustang di Steve McQueen di Bullit come auto per la fuga, ci si rende ormai conto che lo scopo è delineare un quadro che attiri anche noi spettatori ad assecondare questro sequestratore gentiluomo, che in fondo sta solo cercando di aiutare il proprio amico d'infanzia ad evadere dal carcere e scappare verso la libertà.
Ovviamente le forze dell'ordine assumono i contorni degli antagonisti della vicenda, incuranti dei bisogni degli ostaggi, attirate solo dal proprio fine e giustificando ogni mezzo per fermare la crisi; con alle spalle una politica che si abbuffa comoda guardando discorsi di Nixon e che può permettersi di nascondersi dietro l'interesse della collettività sopra quello individuale. 
Se l'intento del regista appare quindi chiaro, non viene però supportato da un convincente sforzo in fase di sceneggiatura, perchè le dinamiche che portano gli ostaggi, il personaggio di Noomi Rapace in particolare, a comportarsi in favore dei sequestratori appaiono troppo poco approfondite e improvvisate. Il lavoro di compressione della vicenda ci consegna una visione ingenua dell'asfissiante ambiente in cui può nascere una dipendenza affettiva di tale genere, e lo sviluppo che la porta ad innamorarsi del suo aguzzino stride di un'eccessiva banalità.
Delle interpretazioni attoriali in parte, ma tutto sommato incapaci di brillare, completano il quadro di un film interessante ma afflitto da una realizzazione generale troppo semplicistica che tuttavia poco emoziona.
 
Omar Mourad Agha