La gelosia, ultimo lavoro di Philippe Garrel, mette in scena una storia intima della vita del regista, una vicenda realmente accaduta al padre, riproposta e sviluppata in chiave familiare. Garrel dirige suo figlio Louis (che interpreta suo nonno all'età di 30 anni) in un bianco e nero minimalista, all'interno di una cornice artistica dove uno squattrinato teatrante si aggira come un flâneur, nutrendosi di arte e amore. Spazi piccoli, poche location e quasi tutte interni, persi in minuscole, povere e spoglie stanze, le uniche che il ruolo impone, un clichè consolidato che vuole che per il fuoco sacro della recitazione non ci si arricchisca. Ed è proprio la vacuità dell'esistenza che viene rappresentata nell'alienazione di residuati contemporanei di un '68 ormai annacquato. I dialoghi contestualizzano la vicenda arricchendola di elementi sulla durezza del vivere quotidiano ma il vero fulcro sono le conversazioni su un amore libero e superiore, quello incarnato dalla coppia di Louis e Claudia (Anna Mouglalis), un amore che ti incatena ancor più di qualsiasi convenzionale ménage. Louis è un giovane padre, perso in un sentimento folle, idealizzato e pieno di crepature, che non ammette un termine se non la morte; Claudia, attrice incompresa e decaduta, piena di sensi di colpa inespressi, si piega a dei compromessi nella capacità di dedicarsi solo a se stessa. Un titolo più adatto a questo film avrebbe potuto essere "Tradimenti" visto che di gelosia ce n'è poca impressa sulla pellicola e per il resto ciò che ci arriva è un susseguirsi di dubbi, ansie, fragili discorsi sui massimi sistemi, fricchettoni amori universali e corna. Un film la cui breve durata, poco più di un'ora e un quarto, basta abbondantemente a spiegare una storia per la quale sarebbero stati sufficienti pochi minuti o che forse avrebbe potuto essere raccontata meglio, con più convinzione e miglior approfondimento dei protagonisti. Un segmento a sé, un estratto di vita, in cui Garrel figlio, pregevole in altre situazioni ma del tutto carente e a tratti caricaturale in questa, dà sfogo ad un personaggio poco convinto di ciò che sta vivendo, con una partner che più che apparire una misteriosa e ammaliante creatura (come si evince dalle note di regia) trasuda il fascino malato di colei che prima usa e poi getta via l'amante di turno. Tutto questo perché la vita è un ciclo e brevi momenti sono capaci di segnare un'intera esistenza.. almeno nell'intenzione alla base del progetto.
J’accuse di Roman Polański è stato oggetto di una rovente discussione prima dell’inizio della competizione veneziana. Il film del regista polacco, per la presidente di Giuria Lucrecia Martel, non avrebbe dovuto competere nel concorso ufficiale, che assegna i premi della kermesse. Invece, il direttore della Mostra Alberto Barbera, si è schierato a favore dell’artista Polański, non giudicando l’uomo, sul quale pende ancora un’accusa di molestie sessuali. Sta di fatto che l’opera presentata al Lido aveva tutte le carte in tavola per ricevere un premio, e questo gli è stato assegnato: il Leone d’Argento – Gran Premio della Giuria. Lucrecia Martel sperava che il regista avesse girato un altro “Pirati” (1986) o un’altra “Nona Porta” (1999); in questo caso non avrebbe avuto problemi a escluderlo dal palmares. Invece, obbligata o meno, ha dovuto far dietrofront e dare un Leone di prestigio al film. Comunque, a parte la polemica, J’accuse è un film interessante, sicuramente non qualcosa di indimenticabile, ma una spy-story confezionata con precisione e con una messa in scena impeccabile.
L’ufficiale e la spia, titolo italiano, tratta del caso Dreyfus, capitano in forza all’esercito francese. Reo di aver passato informazioni strategiche ai nemici tedeschi. Ma la sua colpevolezza è solo una questione di razza, essendo il soldato di origine ebraica. Siamo esattamente nell’anno 1894 quando delle lettere compromettenti vengono intercettate ed attribuite al povero Dreyfus (Louis Garrel). Tutta l’intelligence francese, compreso il neo capitano Picquart (Jean Dujardin), non hanno dubbi: l’ex capitano deve scontare una pena durissima nella fantomatica Isola del Diavolo. La sua vita deve finire in quella cella sperduta in mezzo all’oceano. Ma Picquart scopre i magheggi politici, che hanno portato all’ingiusta carcerazione di Dreyfus. Eticamente corretto il capitano intraprende una battaglia lunga 12 anni (Dreyfus verrà prosciolto solo nel 1906), che lo porterà a scoprire la verità. In questo viaggio anch’egli troverà grandi ostacoli,che influenzeranno negativamente la sua esistenza. Ma quando entra in gioco il famoso scrittore democratico Emile Zola (François Damiens), con la sua lettera indirizzata al Presidente della Repubblica, scritto focoso che riprende per l’appunto il titolo del film “J’accuse”, l’opinione pubblica vacilla e con essa anche le più alte cariche istituzionali. Dapprima tutto sembra un fuoco di paglia, ma con l’andare degli anni le prove di colpevolezza di Dreyfus cadono come il più instabile dei castelli di carte.
Polański si affida ancora una volta al fidato amico e scrittore Robert Harris, autore del romanzo storico (2013), che ha come protagonista il malcapitato Dreyfus. I due avevano già scritto insieme la sceneggiatura di “L’uomo nell’ombra” nel 2010. Il film qui a Venezia ha ricevuto anche il premio Fipresci dalla federazione internazionale della stampa cinematografica.
Nel trafiletto pubblicato su Facebook, subito dopo la visione del film, abbiamo affermato che J’accuse è un film legato indissolubilmente al suo autore: un opera estremamente autoreferenziale. E’ anche vero che nel cinema di Polański poco non è autoreferenziale, ma non abbiamo potuto esimerci di costatarlo per l’ennesima volta. Qui il legame con il suo protagonista ghettizzato è veramente forte ed ancora ferocemente attuale. E anche qui come in passato troviamo tutte le sue ossessioni. La paura di essere costretto a rimanere in un luogo chiuso: la prigione sull’isola del Diavolo né è la testimonianza. Il timore profondo per l’acqua, che circonda irrimediabilmente la prigionia di Dreyfus. L’uomo Polański è così un’isola, tagliato fuori dal mondo. E’ uomo sotto costante accusa.
Ritroviamo nell’Ufficiale e la Spia anche quel senso spiccato per la chiusura degli avvenimenti presentati, che sublima con il ritorno alla libertà di Dreyfus. E non possiamo dimenticare certe scene prettamente teatrali, fotografate con spessore da Paweł Edelman. Le inquadrature sembrano quadri con un focus chiaro e pulito all’interno di stanze buie, colme di corruzione. La luce è la protagonista per poter fare la giusta chiarezza sugli avvenimenti.
Dal punto di vista registico c’è poco da dire, nel senso positivo del termine. La direzione è formale, compatta, meticolosa e un filo didascalica. Ed l’unico inciampo da parte del regista, che realizza un film tecnicamente perfetto, ma forse poco empatizzante per il pubblico. La macchina da presa è usata con attenzione nel mettere in risalto la cattiveria. L’energia e l’intensità che viene messa in scena per svilire e denigrare il personaggio pubblico Dreyfus, ma anche l’uomo, è possente (la scena dove gli vengono tolti i gradi in una pubblica piazza né è l’esempio lampante). I tempi sono dilatati. La verità va ricercata con scrupolo e dedizione, nulla va lasciato al caso.
J’accuse è un film contro l’antisemitismo, per un mondo che si dimentica troppo velocemente della storia e dei processi che ha subito. In Italia uscirà il 21 Novembre. Nel suo incedere con l’inchiesta si avvicina ad uno Spotlight del 900.
David Siena