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Pappi Corsicato. Tra arte, humor e surrealismo

Martedì 25 Febbraio 2014 12:48
 
Tra arte, humor e surrealismo. Pappi Corsicato, che negli anni novanta affiancava la regia di Pedro Almodovar, da allora suo mentore, ha continuato quello stesso percorso raccontando la realtà alla sua maniera visionaria. La quotidianità più comune, diventa dissacrazione popolare, mescolando mitologia e fantascienza. Sin dal primo lungometraggio Libera (1993) a I buchi neri (1995), adopera un linguaggio carico di simbolismi e rimandi pasoliniani. Fino ai più recenti Il seme della discordia (2008) e Il volto di un’altra (2012), nel quale sembra quasi non esserci una distinzione tra personaggio e manichino; chiari sono i rifacimenti ad Almodovar ed inevitabilmente a Truffaut, per il continuo defilè di gambe femminili, in entrambe le pellicole. Fumo e vari effetti evanescenti dissolvono le sequenze, marcando il forte gusto kitsch di ambienti e costumi.
L’attenzione ai minimi dettagli e le inquadrature strette su particolari imbarazzanti, favoriscono l’erotismo e le pulsioni sessuali di tutti i personaggi coinvolti. Nei suoi film sono ricorrenti tematiche tabù e infatuazioni, trattate con una spontaneità semplice e naturale, amalgamata nell’insieme a soggetti insoliti: dal prete gay al suono di “Angelitos Negros” in dialetto, a prostitute storpie, o mute che ansimano attraverso una canzone, dal venditore di fertilizzanti sterile, alla fioraia con orgasmo ritardato. E non mancano i voyeurismi, tipici della commedia sexy all’italiana. 
Corsicato, esplicitamente ritenuto “outsider” rispetto agli altri cineasti italiani, ha uno stile che si distingue dai contemporanei della scena nostrana. Uno stile non convenzionale, fatto di accostamenti improbabili che può non coinvolgere l’intero pubblico che affolla i multisala, ma un numero notevole di devoti al cinema d’autore.
 
Pappi Corsicato ha tenuto, nei giorni scorsi a Firenze, un laboratorio sui documentari artistici da lui realizzati e sull’arte in generale. L’ho incontrato per farmi raccontare il suo cinema.
 
 
Quanto ha inciso il fatto di aver lavorato con Almodovar, l’adottare uno stile surrealista/simbolista, genere poco usato in Italia ?
P.C. Non è stata una scelta premeditata, è avvenuto tutto in maniera naturale. Mi piace il surrealismo trattato e visto con ironia, vedere la realtà in maniera assurda e alterata.
Più che una effettiva narrazione dei fatti, quello che voglio mostrare, è il concetto inverosimile del reale, omettendo alcuni passaggi ed inserendone metafore. 
 
Da dove parte l’idea per i suoi film e documentari?
P.C. Mi ritengo un “citazionista”. Traggo ispirazione un po’ da tutto, dai libri e dalle storie, letture varie, se mi rimane impressa una frase o un’immagine, mi piace amplificare il suo significato, inserirla in un contesto, creandole attorno la trama di un film.
 
Nei suoi film, alcune immagini possono essere considerare delle allegorie?
P.C. Certo, è tutto basato su figure simboliche, elementi essenziali che esprimono un qualcosa di preciso nel contesto. Voglio che lo spettatore abbia suggestioni diverse dalle semplici immagini. Tutto può avere molteplici significati e diverse valenze.
 
La donna è spesso la figura centrale delle sue trame, che visione ha della donna?  
P.C. Ho sempre trovato interessanti i film con le donne come protagoniste, non per il loro aspetto o senso estetico, ma protagoniste di se stesse, per il loro essere, il loro agire. La donna ha varie sfaccettature, può mostrare il suo corpo ma può essere debole. E’ una figura complessa e cerco di rappresentarla anche nella sua fragilità, pur se è all’apparenza curata e forte.
 
Ha dei progetti in corso?
P.C. Per ora sono impegnato ad un altro documentario artistico, incentrato sulla figura di un grande artista e filmaker americano contemporaneo, Julian Schnabel. Egli è capace di usare più linguaggi di espressione: dalla pittura alla scultura, dalla fotografia alla regia, ed ha sempre altissimi risultati. Verrà girato per l’appunto negli Stati Uniti.
 
A proposito di Corsicato… 
nell’ultimo film partorito dai fratelli Coen, A proposito di Davis, c’è proprio un omaggio al regista napoletano. “Pappy Corsicatto” dà il nome al locale in cui Llewyn Davis, il protagonista, si esibisce!!!
 
 
Francesca Savoia

Intervista a Roan Johnson

Venerdì 20 Marzo 2015 17:55
Il regista e sceneggiatore Roan Johnson, dopo l’esordio al Festival Internazionale del Film di Roma nel 2011 con la sua brillante opera prima, I primi della lista, torna dopo tre anni con una piccola commedia generazionale, ambientata nuovamente nella sua Pisa. Fino a qui tutto bene, storia di cinque amici per la pelle e dei loro ultimi tre giorni nell’appartamento pisano che li ha ospitati negli anni dell’università. Il film, vincitore del premio del pubblico come miglior film nella sezione Prospettive Italia, è stato realizzato in partecipazione, vale a dire che nessuno è stato pagato per il lavoro, ma tutti hanno avuto una percentuale di diritti del film. Roan ci racconta la sua esperienza.
 
Il film è nato dall'idea di girare un documentario sull'università di Pisa. In cosa consisteva il progetto nello specifico?
 
Loro ci avevano chiesto di fare un documentario e per noi pensare a un documentario sull’università è come pensare a un documentario sul mondo, ci sono mille punti di vista, mille sfaccettature e quindi abbiamo optato per uno step intermedio, anche perché loro non avevano i soldi per fare un vero e proprio documentario. Abbiamo deciso di fare comunque una ricerca e abbiamo inviato una mail a tutto l’ateneo con delle domande accademiche, ma soprattutto personali; del momento di vita che stavano vivendo, dell’esperienza dei fuorisede e varie cose. Ci sono tornate indietro 400 mail, abbiamo estratto quelle che ci interessavano di più e abbiamo intervistato 40 ragazzi. È venuto fuori un montatino di interviste che si chiama L’uva migliore, proiettato all’università di Pisa. Il giorno della proiezione c’era anche Beppe Severgnini, che ha apprezzato l’iniziativa e ha scritto un articolo sulla prima pagina del Corriere. All’università si sono gasati e ci hanno spinto a fare il documentario. Noi eravamo allettati da questa proposta, ma non avevamo trovato quello che ci serviva. Stavamo per rinunciare poi a Ottavia (Madeddu, ndr), che mi aveva aiutato nella ricerca, è venuta in mente l’idea del film. 
 
 
Quanto c’è di autobiografico?
 
Qualcosa c’è. Abbiamo riscritto le storie e le sensazioni che ci hanno dato i ragazzi, però c’era anche tanto di nostro. Io ho vissuto in diverse case con diversi coinquilini ai tempi dell’università. Abbiamo fatto una specie di mescolanza tra i racconti dei ragazzi di oggi e quello che abbiamo vissuto noi al nostro tempo.
 
Quali sono state le difficoltà produttive rispetto a I primi della lista? 
Come siete arrivati all’idea di realizzare il film in partecipazione? 
 
Io stavo aspettando di fare un altro film con Carlo Degli Esposti, che dovrei girare il prossimo anno, solo che c’era giustamente una sorta di coda. Carlo, produttore de I primi della lista, stava per produrre i film di Martone, Tavarelli e Amelio. Quindi davanti ad Amelio non è che dici “Vado prima io”. Quando abbiamo capito che sul teritorio c’era un aiuto da parte dell’Università di Pisa, del Comune e della Toscana Film Commision, ci siamo resi conto che forse ce l’avremmo fatta anche da soli andando in partecipazione. Non siamo nemmeno tornati a Roma a chiedere ai produttori. Sapevamo che ci saremmo sentiti dire che come minimo avremmo dovuto aspettare un anno. Io sapevo che poi avrei dovuto girare l’altro film e Fino a qui tutto bene non l’avrei più potuto fare. Avevo l’impressione che o l’avrei girato ad agosto o non l’avrei girato più. Il progetto mi era entrato dentro, perché era una storia che mi piaceva tanto poter raccontare con quella libertà. Così abbiamo deciso di rischiare e in questo devo ringraziare gli studenti che abbiamo intervistato, perché sono stati loro a darci questa sensazione di coraggio. Erano tutti ragazzi che non volevano arrendersi di fronte alla crisi. Io non c’ho manco colpa di questa crisi, dicevano, perché mi dovrei trincerare e non seguire le mie passioni. Quindi ci siamo buttati a occhi chiusi e ce l’abbiamo fatta. 
 
Quindi sei partito subito dal presupposto di non rivolgerti alle case di produzione. Perché? Quali sono secondo te le falle della nostra industria cinematografica? 
 
La trafila Rai-Ministero presuppone una serie di tempi molto lunghi e comunque una sorta di imbuto creativo. Certo, almeno che tu non abbia alle spalle una forza produttiva e creative come Sorrentino e Garrone. La commedia, considerata il genere più forte perché fa botteghino, paradossalmente deve avere degli stilemi molto omologati. Si pensa che vada un certo genere di commedia, quando invece, secondo me, riuscire a fare una commedia originale, diversa, che racconti qualcosa in più del semplice divertimento in sala, diventa paradosalmente più difficile che fare un film d’autore, non solo da un punto di vista dei finanziamenti, ma soprattutto dal punto di vista artistico-creativo. Avevo già provato altre volte a portare dei film, concepiti come low budget, a produttori più piccoli, indipendenti e loro mi dicevano che chiedendo pochi soldi a Rai Cinema e al Ministero sicuramente ce li avrebbero fatti realizzare. Quindi comunque sempre di là dovevo passare. Sapevo che comunque c’era una tempistica e mi sono convinto che saremmo stati in grado di farcela da soli. Ho preso questa scelta solo quando sono stato sicuro che amici professionisti, come il direttore della fotografia Davide Manca o il fonico Vincenzo Santo, accettassero anche loro quest’impresa un po’ folle. È stato lì che mi son convinto. Abbiamo avuto la conferma che anche gli attori stavano a questo gioco. Addirittura abbiamo avuto delle sorprese; io Alessio Vassallo, che comunque era già inserito in molte fiction Rai, onestamente non l’avrei nemmeno chiamato. Quando lui è venuto da me a dirmi che voleva fare il film, io gli ho spiegato che sarebbe stato in partecipazione e che avrebbe dovuto dormire con gli altri attori per tutto il periodo delle riprese. A lui non fregava nulla, gli piaceva il progetto, gli era piaciuto I primi della lista e voleva lavorare con me. Gli ho fatto comunque un provino ed è stato veramente eccezionale. È ovvio che questa della partecipazione non può essere una regola, lavorare con il rischio enorme di non vedere mai i soldi. Anche perché a me non piace lavorare gratis e non mi piace far lavorare gratis gli altri. Però ogni tanto ci può essere un'eccezione. Questo per me e per la storia del film era sicuramente il momento giusto per fare questo esperimento  
 
 
Hai parlato degli stilemi omologati della commedia di cassetta, tra questi ci sono senza dubbio le star.  La maggior parte degli attori del tuo film, invece, sono sconosciuti al grande pubblico.
 
Penso ci sia una sorta di umoralità nel cinema italiano. Quando ci fu l’esplosione di Accorsi dopo L’ultimo bacio, se tu non facevi il film con Accorsi sembrava che il film non si potesse fare. Questo secondo me va a discapito sia del film sia degli attori, perché magari si trovano a fare ruoli che non sono giustissimi per loro o ad avere una sovraesposizione mediatica che rischia di bruciarne qualcuno. Ora Accorsi sembra che stia vivendo una seconda fase della sua carriera, però c’è stato un momento di indigestione, dopo quella prima abbuffata, in cui lui sembrava un po’ scomparso. Per quanto riguarda la commedia di cassetta, lo stesso vale per molti comici televisivi. Se ci pensi la maggior parte dei film che vanno viene sempre da gente che ha fatto televisione e così si tende a snaturare anche un po’ la figura dell’attore. Io credo che se gestito bene anche un comico può fare un ottimo film, ma non può essere una regola. Albanese è diventato un attore molto bravo, ma ha fatto un percorso molto studiato ed è arrivato anche a fare film con Soldini e Amelio. 
Il mio obiettivo è sempre quello di trovare gli attori giusti per i ruoli giusti e non mi frega niente se siano famosi o meno. Per me è uno sforzo trovare le facce e le personalità giuste, perché se ne sbagli anche solo una il film zoppica. Per fortuna in questo caso ho avuto il 100% di libertà e gli attori si sono rivelati tutti molto gentili e disponibili. Si sono messi in gioco totalmente, hanno vissuto nella casa per 5 settimane fra prove e riprese. Io li amo. Credo che il film si fondi su loro 5 e se è venuto bene è soprattutto grazie a loro. 
 
 
Come li hai selezionati?
 
Quando io e Ottavia abbiamo scritto la sceneggiatura avevamo molto chiaro quali erano i personaggi. Avevamo solo scelto Paolo Cioni, non a caso il suo personaggio si chiama Cioni 
Per gli altri abbiamo fatto un casting abbastanza aperto su internet. Ci sono arrivate 2000 mail che abbiamo provato a scremare. Non conoscevo Melissa Anna Bartolini, che ci ha mandato tre clip di tre puntate con i The Pills. Lì lei parlava in romanesco e io pensavo fosse romana. Invece è arrivata e aveva un accento totalmente diverso, poi ho scoperto che era di Firenze. Lei era venuta per il ruolo di Ilaria, poi siamo riusciti a spostarla. Però anche Ilaria per me non poteva assolutamente essere del nord, doveva essere di un posto un po’ sfigato. Io me l’ero sempre immaginata di un paesino della Calabria o della Sardegna. Poi è venuta Silvia D’Amico, che io avevo visto a teatro un paio di volte. Ottavia se l’era ricordata e continuava segnalarmela. A lei abbiamo fatto un solo provino per capire che era quella giusta, mentre gli altri hanno dovuto fare un po’ un tour de force. Vassallo, già te l’ho raccontato, si è presentato lui. Guglielmo Favilla lo conoscevo già, perché lui, oltre ad aver fatto il Centro Sperimentale, è di Livorno e anche se non pisani non ci dovremmo mai mescolare, mi è sempre stato simpatico. Aveva già interpretato un piccolo ruolo ne I primi della lista e prima ancora un altro piccolo ruolo, tagliato al montaggio, nel Terzo portiere (episodio del film 442 – il gioco più bello del mondo, ndr). Quindi è stato un misto fra gente che conoscevo già e gente che ho scoperto.
 
Qual è secondo te il futuro della commedia italiana?
 
In questo momento c’è una sorta di schizofrenia, perché da un lato se ne producono molte con budget grossi e che tendono a fare molto incasso. Però mentre prima andavano più a botta sicura, ultimamente ci sono state un po’ di delusioni rispetto a questa modalità. 
È un meccanismo un po’ strano, perché mi è capito spesso di andare a vedere film che dovrebbero fare tantissimo ridere, ma non di non ridere per niente. Il cinepanettone è morto, quidi già c’è stata un'evoluzione, ma onestamente non è che vedo una grande spinta. D’altra canto, quali sono le grandi commedie che provano a prendere una via un po’ più originale? Mi viene in mente Zoran il mio nipote scemo, Si può fare, però non è che vedo tanto altro. C’è stato un momento molto felice di Soldini e sicuramente Virzì ha provato per molto tempo. Il capitale umano mi è piaciuto tantissimo e aspettavo una svolta simile in Virzì. Anche Tutti i santi giorni si muoveva su una direzione diversa del solito Virzì, era una direzione più indie, più da sundace, più europea e a me è piaciuto molto. C’è una lotta ed è difficile capire chi la spunterà, ovviamente io tifo per questo secondo tipo di commedia e vediamo che succede. È vero che se i film italiani incassano è comuqnue un bene per l’industria, ma è anche vero che c’è una sorta di feedback con il pubblico; se tu dai al pubblico dei film il pubblico inizia a rispondere, a capire e seguirti. 
 
Il film che stai preparando?
 
Se io non avessi fatto Fino a qui tutto bene sarebbero passati cinque anni dal primo primo film e cinque anni senza girare per un regista vuol dire che non impari. Poi io, non essendo nato come regista, ma come sceneggiatore, tutte le volte che vado sul set imparo qualcosa e mi sento di migliorare. Se sul set non ci vado, vuol dire che non miglioro, anzi è probabile che ci arrive poi con ancora più ansia. 
 
Qualche anticipazione?
 
Sarà una sorta di prequel, nel senso che I ragazzi saranno di 19 anni. Ambientato sempre ai giorni nostri. Finalmente giro a Roma, anche perché Pisa ormai è una sorta di maledizione; tutti i film che faccio sono ambientati a Pisa, invece io abito a Roma da 15 anni, tanto che conosco quasi più Roma di Pisa e mi viene naturale pensare a storie ambientate qui. Anche se produttivamente sarà più un casino, ma sentimentalmente mi ci sento più calato dentro. 
 
Tu hai cominciato come sceneggiatore. Ora sei alla tua seconda opera da regista e stai preparando la terza, senza contare l’episodio di 442. Hai intenzione di dedicarti interamente alla carriera da regista o tornerai anche a scrivere cose per altri?
 
Io credo che in qualche modo, avendo fatto il regista, abbia acquisito anche più strumenti come sceneggiatore. A me piace molto scrivere e mettermi a servizio di altri, ma Fino a qui tutto bene è stato uno spartiacque e dopo questo film mi sono convinto che da grande voglio fare il regista. Poi a me piace molto lavorare in gruppo, mi piace molto stare in mezzo alla gente, mentre la scrittura è un lavoro più solitario. Il problema è sempre il tempo, dopo I primi della lista sono stato fermo tre anni, però ora ho girato Fino a qui tutto bene, ho terminato due puntate per Sky e sto per girare l’altro film, quindi bisogna capire la tempistica. Non mi va di fare troppe cose tutte insieme. 
 
 
Di che tratta questo progetto Sky?
 
È una serie, si intitola I delitti del BarLume ed è tratta da romanzi di Marco Malvaldi, che è uno scrittore giallista pisano per l’appunto. Cappuccio aveva già girato due puntante, poi ci sono stati dei problemi, non si sono trovati bene e mi hanno chiamato quest’estate per realizzare altre due puntate, che sono fondamentalemnte due film da novanta minuti. Sono entrato come a metà del film di un altro regista, il cast l’avevano già scelto: ci sono Filippo Timi e Lucia Mascino. Anche questo è stato un bel rischio, ma si è rivelata un’esperienza molto importante per me. Ho avuto a che fare con un alto budget, una troupe più grande e delle dinamiche produttive opposte rispetto a quelle di Fino a Qui tutto bene e mi sono trovato a gestire cose molto diverse da cui ho imparato molto. Ho trattato la serie come se fosse un mio film, ho provato a dare il mio tocco, la mia visione e sono rimasto molto soddisfatto e stiamo capendo se farne altre due l’estate prossima.
 
Poi Sky sta realizzando ottimi prodotti, basti pensare alla serie di Gomorra..
 
Sky è stato fondamentale. Dovendo battersi contro il duopolio monolitico di Rai e Mediaset, nelle fiction ha dovuto rischiare facendo cose che su Rai e Mediaset non avrebbero mai fatto. Questo in qualche modo, oltre a produrre delle bellissime serie, ha fatto sì che anche la Rai si iniziasse un po’ a smovere. Vedo un po’ di cambiamenti anche in Rai, speriamo che vadano veloci e che diano veramente alla serialità la possibilità di evolvere. Con le serie americane ci siamo abituati a un impianto narrativo, a un’originalità e a una direzione degli attori meravigliosa. Credo che la serie tv sia un nuovo passo in avanti della forma e della narrazione audiovisiva, quindi spero che anche in Italia riusciamo a stare al passo. 
 
Angelo Santini
Abbiamo incontrato Claudio Amendola in occasione della presentazione di Nero a metà, la fiction di Rai Uno in onda dal 19 novembre in prima serata. Gli abbiamo chiesto cosa ne pensa di integrazione razziale e dei suoi personaggi spesso al limite. 
 

Diabolik. Questione di anima e pantere.

Mercoledì 04 Novembre 2020 14:13
Ambientato, seguendo una grande fedeltà al contesto e riprendendone lo stile visivo, in un periodo verso la fine degli anni 60, Diabolik, la cui uscita è prevista nelle sale il 31 dicembre, sta già facendo molto parlare di sè. I Manetti Bros, registi, sceneggiatori e autori del soggetto, quest'ultimo scritto insieme a Mario Gomboli (responsabile e direttore editoriale della serie a fumetti), ne hanno discusso proprio pochi giorni fa in occasione del Lucca Comics.
 
L'ambientazione anni 60, fortemente consigliata da Gomboli, sembra essersi rivelata una scelta fortunata e molto stimolante, con una ricerca estremamente minuziosa. Si parla addirittura di un inseguimento, nella scena iniziale del film, ricostruito utilizzando la cartina di Clerville sulle strade di Milano.
Gli anni 60, a detta dei Manetti, sono forse un'epoca in cui si sognava più di adesso ed era più facile credere in un personaggio che si infila la maschera e si trasforma in qualcos'altro. Quell'epoca ha permesso di entrare in un sogno molto più facilmente.
 
La forte diversità rispetto a tutti i precedenti trattamenti è un'altra peculiarità di questo lavoro. La difficoltà nel passato è stata proprio quella di trovare un soggetto attinente al fumetto, che da questo partisse senza discostarsi troppo. I Manetti sono riusciti a mantenere questa aderenza con la narrazione della storia creata dalle Sorelle Giussani, perché reali fan del fumetto, senza stravolgerne mai l'essenza. Parola di Gomboli. 
 
Accanto a Luca Marinelli nei panni di Diabolik, troveremo anche Miliam Leone (Eva), Valerio Mastandrea (Ispettore Ginko), Serena Rossi, Claudia Gerini, Alessandro Roia.
 
 
Ecco cosa è venuto fuori dall'incontro.
 
Come mai la scelta di far iniziare la storia proprio dall'albo n.3?
 
Mario Gomboli 
Secondo me il vero inizio di Diabolik è esattamente con l'albo n.3, quando si distacca da Fantomas e trova una compagna di vita che lo arricchisce rendendo la sua personalità molto più profonda e sfaccettata. All'inizio poteva essere un killer spietato che ammazza senza troppi pensieri, ma soltanto l'arrivo di Eva, che solamente due donne avrebbero potuto tratteggiare in modo così efficace, fa sì che lui rifletta su se stesso e che riesca a comunicare al lettore questa profondità. Fa un'autoanalisi che non è dichiarata ma che si legge tra le righe e che lo trasforma in un personaggio complesso. Se vogliamo dire che questo film parte dagli inizi di Diabolik è vero, parte dal momento in cui Diabolik diventa lui stesso, non più un figlio del passato. 
 
 
Eva sembra proprio indispensabile per Diabolik...
 
Marco Manetti
Diabolik si chiamerà  sempre Diabolik ma in realtà è Diabolik + Eva. La sua unicità nasce dalla componente femminile con cui le Giussani l'hanno scritto, fondamentale per lui, per definire se stesso.                                                                                                                                                       
 
Antonio Manetti
Da quando entra Eva in scena Diabolik si apre ad una componente psicologica che prima non era dettagliata e, da questo momento in poi, è difficile non immedesimarsi in lui. Nei dialoghi che hanno Eva e Diabolik si capiscono le motivazioni delle scelte di Diabolik, il senso di sfida, la sua anarchia, senza essere il cattivo tout court e sadico che, prima dell'entrata in scena di Eva, sembra solo un'ombra nera che uccide e ruba. 
 
Ribaltamento di prospettive
 
Marco Manetti
C'è un forte tono femminista nella storia.  Statisticamente, e ciò conferisce un'unicità nel mondo del fumetto, è più spesso Eva che salva Diabolik che il contrario, che è una rottura totale del cliché eterno della bella in difficoltà e dell'eroe che la salva. Ogni tanto lei glielo ricorda, glielo dice proprio in una battuta "Guarda che se hai ancora la testa sul collo è opera mia". Anche per questo Diabolik è l'unico personaggio non triste in una realtà spoglia e cupa solo dove Diabolik e Eva sembrano divertirsi 
 
Come è avvenuta la scelta degli attori?
 
Antonio Manetti
Scegliere gli attori è stato complicato perché si parlava di una trasposizione fra mezzi comunicativi differenti, quindi la scelta doveva essere per forza personale senza avere termini reali di confronto. Perciò abbiamo privilegiato, più che una somiglianza estetica, attori adatti al ruolo e bravi. Eva è venuta molto più automatica come scelta perché desideravamo da un po' lavorare con Miriam Leone, mentre avevamo più indecisione riguardo Diabolik e Ginko, rappresentando due icone molto forti. Abbiamo fatto anche un provino a Marinelli perché, pur essendo un attore eccezionale, rispetto al personaggio ha delle differenze e dovevamo convincerci che potesse diventare lui, facendo un suo Diabolik con delle caratteristiche che conferissero un'umanità che dalle tavole fredde del fumetto non fuoriesce. In questo Luca è stato molto di anima, dandogli spessore interiore.
 
 
 
"Mi ispiro alla pantera"
 
Marco Manetti
Dovevamo trovare l'umanità di uno sguardo, della voce, di un gesto involontario e con Luca è venuta fuori un'umanità profonda. Tu senti che quest'uomo freddo, glaciale, intelligentissimo, anche molto cinico, ha qualcosa dentro che ruggisce. Lo diceva anche Luca continuamente "io mi ispiro alla pantera", perché Diabolik nei fumetti ha un'origine legata ad una pantera, e questo è un suo apporto che ha conferito profondità al personaggio. Così come Valerio dà a Ginko una sorta di disincantata, malinconica, ironia.   
 
Per quanto riguarda l'abito di Diabolik, come avete lavorato?
 
Marco Manetti
Diabolik ha un dolcevita alla Michael Caine, non è esattamente una tuta completa, è difficile descrivere l'abbigliamento che abbiamo studiato senza togliere la magia. Ci siamo detti che Diabolik gira in tuta aderente e maschera per non farsi vedere nell'ombra e se all'improvviso lo beccano si toglie il cappuccio e potrebbe sembrare un passante qualsiasi. Abbiamo cercato quindi di fare uno stile vintage, creando un mix tra un abito normale e la classica tuta del fumetto. 
Per la maschera ci ha aiutato Sergio Stivaletti, è in realtà un calco sul volto di Marinelli rifatto di nero. E' come se la sua maschera fosse la maschera di se stesso, annerita per rendersi invisibile nell'ombra, ma con l'incavo degli occhi per mantenere libero il suo sguardo. 
 
Antonio Manetti
Ispirati dal film di Bava, che aveva lavorato in modo interessante sull'abbigliamento, abbiamo deciso lo stacco tra la maschera e il vestito, cosa che nel fumetto non c'è, facendo sembrare un unico pezzo. 
 
E cosa ne pensa Gomboli del film?
 
Io non ho ancora visto il film ultimato, ho però avuto modo di visionare un montaggio non ancora definitivo, senza musiche o effetti particolari. 
Quella che mi ha affascinato di più è Miriam Leone perché ho ritrovato in lei Eva Kant, come si muove, le espressioni, le sfumature che dà, a tal punto da essere a mio parere entrata perfettamente nella parte. Per quanto riguarda Mastandrea l'ho trovato molto calzante, il suo aplomb è stato essenziale, addirittura ha imparato a fumare la pipa e a tenerla in bocca non essendone un fumatore. Marinelli è Diabolik e non c'è niente da fare. Il suo temperamento, la freddezza di fondo, i suoi occhi non saranno grigi con il medesimo taglio ma sicuramente sono in grado di comunicare il gelo interno e l'indifferenza per il mondo che lo circonda, Eva a parte sicuramente, che sono le peculiarità di Diabolik.
Sul costume ne abbiamo parlato molto coi Manetti perché c'era il pericolo di essere troppo impeccabili a tal punto da scivolare sul supereroe Marvel. Imbottito sarebbe stato ancora peggio, e Diabolik non è un supereroe, anzi il suo punto di forza è che è un essere umano normale che può essere ferito, non ha una tuta antiproiettile, non è indistruttibile perché viene da Krypton, per cui è giusto che abbia anche in questo dei "difetti".
 
Chiara Nucera