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Visualizza articoli per tag: federico fellini

La Grande Bellezza

Sabato 01 Giugno 2013 23:26
La Grande Bellezza, il nuovo film di Paolo Sorrentino, è stato al centro di un dibattito critico che ha visto opinioni contrastanti. 
Jep Gambardella (Toni Servillo) è l'istrionico protagonista, sessantacinquenne scrittore e giornalista di successo, dedito alla vita mondana, circondato dalle variopinte figure del ceto altoborghese capitolino, tra feste, pettegolezzi e sfarzo ostentato nella cornice del centro storico di Roma. L'accento napoletano del protagonista ne sottolinea una vaga dimensione di estraneità rispetto alla capitale, che ospita da circa quarant'anni questo singolare flâneur investito dalla solennità della Città Eterna. Sono evidenti i rimandi all'opera del regista Federico Fellini, che in quello stesso setting descriveva una umanità pagana sgretolata, come gli affreschi e le statue sotterranee nella sequenza della metropolitana in "Roma" (1972) e lanciava nuove mode (la stessa definizione di "paparazzo" è un'invenzione de "La dolce vita" del 1960). Fellini ha segnato un'epoca, dettando i riferimenti del gusto e dichiarando l'essenza della capitale: un "set a cielo aperto", una forma di spettacolo, prima che una città. 
Jep è circondato da relazioni e amicizie frivole, mostri dell'upper class e nobili decaduti; Romano (Carlo Verdone) è uno scrittore fallito e provinciale, in una parola sfigato; Sabrina Ferilli è invece Ramona, spogliarellista lampadata e quarantenne col tatuaggio di papa Wojtyla; per tutto il film parla solo in dialetto romanesco. Romano/Ramona, come Antonello Venditti, che vediamo in una breve apparizione nel ruolo di se stesso, sono il pop. Icone del contemporaneo, delineano la dimensione nazional-popolare. Ramona è ignorante, Romano è privo di talento, ma sono personaggi umili ed onesti e dunque "puri di cuore", ingenuo e plausibile oggetto di identificazione da parte del pubblico. 
Il personaggio di Jep, come il Guido Anselmi di "8 e 1/2" (1963), è segnato dal suo passato. I suoi ricordi, bagnati di nostalgia, scolpiscono i turbamenti e le ansie dell'autore in crisi, pur essendo vissuti come antidoto al malessere. Riproporre in chiave onirica il trauma del passato nella dimensione di una relazione adolescenziale ha però un significato ben diverso rispetto al mito dell'infanzia, che in Fellini era viscerale e totalizzante. 
La pregnanza del film si gioca quasi tutta nelle immagini suggestive, rese memorabili dalla fotografia curata da Luca Bigazzi; c'è chi lo ha considerato una eredità contemporanea del grande cinema d'autore, chi lo ha salutato come l'ultimo grande film su Roma, chi invece lo ha trovato pretenzioso e snob, chi poi ha letto nelle numerose citazioni un ruffiano ammiccamento alla poetica del regista riminese.
Effettivamente il riferimento a Fellini in questo film è talmente invadente da innescare un confronto fin troppo azzardato: la materia è la stessa, la straordinaria solennità di una Roma clericale e insieme babilonica, nonché la crisi dell'autore che si confronta con i propri fantasmi; purtroppo però qui il racconto non è altrettanto inedito ed ispirato.
 
Rossella C.
 
“L’artista è un trasgressore, ci deve quindi essere qualcosa da trasgredire, dei limiti che non permettono alla creatività di essere totale”.  In una delle scene che prendono parte a questo patchwork filmico,  omaggio al grande cineasta italiano, Fellini espone ad un dinoccolato Mastroianni il suo punto di vista nei confronti della creatività, cavallo pazzo da ammansire per poter essere cavalcato. Ettore Scola, collega, compagno e intimo amico di Fellini, sembra recuperare queste sue riflessioni per costruire quello che può essere accolto come un messaggio d’amore inviato in una bottiglia di vetro che assume le fattezze di una telecamera.
Inizialmente concepito come ricordo del regista riminese in occasione del ventennale della sua morte, su proposta di Roberto Ciccutto di affiancare i ricordi personali di Scola al materiale d’archivio, il progetto si trasforma in una sorta di album di memorie che non proseguono secondo una linea retta ma si mescolano in un mush up di aneddoti, frasi, set, foto, frammenti di film. Un vero e proprio Amarcord, realizzato con l’aiuto delle figlie Paola e Silvia che hanno rovistato tutto il materiale delle Teche e scritto la sceneggiatura insieme al padre. 
All’inizio di tutto c’è l’incontro fra un giovanissimo Ettore Scola e un già conosciuto Federico Fellini, di dieci anni più grande, presso la redazione del giornale satirico Marc’Aurelio, nella Roma del secondo dopoguerra. Poi ci sono le riunioni informali nei bar romani fra Scola, Fellini e Massari; i giri in macchina nelle notti insonni in una città pulsante; gli incontri notturni con un’umanità varia; il teatro  5 di Cinecittà, seconda casa di Federico.
I momenti di fiction in cui i due giovani Scola e Fellini sono interpretati dai nipoti di quest’ultimo, Giacomo e Tommaso Lazotti, si sovrappongono ai filmati d’archivio e ad alcune scene fondanti della filmografia di Federico, ovvero del cinema italiano. Curiosa la scelta di affidare a controfigure sempre poste in penombra la parte di Federico ed Ettore già registi affermati, impegnati in scorribande per la città o su qualche set, utilizzando la vera voce del primo, ripresa da interviste d’epoca, remixata e introdotta nel film. Quasi magici gli incontri con una prostituta gioiosa e scaltra (Antonella Attili) e con un madonnaro barese (Sergio Rubini) che ricorda ai due amici come il cinema sia solo la settima arte, mentre la pittura è la terza. Esilarante la scena di repertorio con i provini a Gassman, Mastroianni e Sordi per la parte del Casanova, quando già si sapeva che nessuno dei tre avrebbe avuto la parte.
La matrice dell’ironia pervade l’intero racconto e riproduce, al tempo stesso, il senso del cinema di Fellini, secondo una struttura onirica che è, di per sé, felliniana. Compresa la scena che chiude il film-documentario (o meglio l’album di ricordi), in cui il regista si rilassa seduto nella sua sedia di fronte ad un mare calmo nel tramonto caldo. La sensazione di malinconia e di commozione, assolutamente non ricercata da regista e sceneggiatrici, prende comunque parte a questo ritratto amichevole che sembra quasi dire “abbiamo perduto qualcosa”, coinvolgendo in questo moto tutto il sistema cinema, compresi quegli stessi studios in cui Fellini e i suoi hanno fatto rivivere il cinema italiano, ora trasformati in parco giochi o in rovina. E tuttavia, nell’onorare i ricordi e i grandi momenti della filmografia felliniana e della sua vita aperta all’esperienza, Scola vuole dire ciò che ha già detto in conferenza stampa, ovvero che “Fellini non manca, così come non manca Leopardi. C’è e continuerà ad esserci con il suo contributo fondamentale alla cultura italiana”.
Questo “piccolo ritratto di un grande personaggio”, presentato fuori concorso a Venezia (con una proiezione speciale alla presenza del Presidente della Repubblica, il quale ha poi dichiarato, emozionato “Solo Scola poteva fare questo film su Fellini) è, in ultima istanza, un elogio alla gioiosità di un regista e di un uomo che riprende vita nello sguardo di un amico e nella narrazione in terza persona di un bravissimo Vittorio Viviani.
 
Elisa Fiorucci