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Gli Sfiorati

Sabato 25 Febbraio 2012 11:39

Méte (Andrea Bosca) è un trentenne irrisolto, esperto di grafologia, della quale ne ha fatto una professione, la sua crisi esistenziale inizierà quando il padre, che da molti anni ha una nuova famiglia spagnola, decide di ufficializzare il suo lungo sogno d'amore. Belinda (Miriam Giovannelli), è la bellissima e conturbante sorellastra che, giunta all'improvviso, provocherà in Méte inconfessabili fantasie. Con l'avvicinarsi della data delle nozze, il giovane si troverà a dover fare i conti con le proprie insicurezze, con un genitore assente per gran parte della sua vita e con una tempesta ormonale dagli incestuosi risvolti.

Una storia d'amore e di passione, repressa, somatizzata, interiorizzata, sconvolgente e allo stesso tempo talmente naturale da scendere giù come un bicchier d'acqua, è alla base del  romanzo omonimo di Sandro Veronesi, fotografia assai lucida degli anni ottanta, sullo sfondo di una Roma onnipresente. La trasposizione avviene ad opera di tre sceneggiatori Rovere, Piccolo e Paolucci (e del ghostwriter Procacci) che, lavorando ad un complesso riadattamento del testo letterario, smarriscono la direzione, riportando i fatti ai giorni nostri, sebbene alcuni personaggi risultino troppo cristallizzati nell'epoca degli yuppies incalliti. 
Partendo da un impianto drammatico, la pellicola si abbandona a sprazzi comici, stonature prive di fascino o motivazione, sulla scia dei pensieri di un protagonista avulso dalla realtà, privo di reali preoccupazioni se non quella fondamentalmente dilemmatica sul farsi o meno la caliente sorella. Comico, tragico, commedia amara? Tutto e niente, un universo in cui il bravissimo Andrea Bosca è una rivelazione interpretativa, capace di rendere a pieno un personaggio senza spessore alcuno, caricandolo di un significato e di un'intensità che lo rendono convincente, pur poggiando su un impianto narrativo nullo e su una sceneggiatura a tratti imbarazzante. 
La regia, molto simile allo stile del videoclip, si disperde in simbolismi reiterati, tutti intrisi di dejà-vu. Così abbiamo scontate consequenzialità nei riflessi di Méte su una parete specchiata o un viaggio in ascensore screziato di chiaroscuri alternati, una liberatoria scena finale in automobile, sotto una postmocciana pioggia, in cui la neo-famigliola appena riunita canta a squarciagola un'agghiacciante “Più bella cosa non c'è”.
Costantemente sul filo del ridicolo involontario, il film di Rovere assumerebbe un senso compiuto soltanto con un finale tragico, col sacrificio di uno dei personaggi principali e più inquieti, che invece gli autori, preferendo giocare la carta dello scandalo segreto ed intra-familiare e spingendo infine il pedale sulla commedia, si sono ben guardati dall'utilizzare, lasciando lo spettatore sgomento.
In tutto questo ci domandiamo chi siano gli “Sfiorati” e che senso abbia rintracciare in una categoria antropologica, con presunzione di scientificità, dei giovani ricchi, viziati e dissociati.  Se tutto ciò serve a dare motivazioni profonde dove non sussistono, Rovere compie un grande buco nell'acqua, sprecando i suoi bei protagonisti, vissuti bene dalla bravura del cast, ma che mancano di un corrispettivo che li incolli all'interno della storia, poiché una storia è proprio ciò che manca. Le atmosfere rarefatte, la bellezza eterea e allo stesso tempo carnale di Miriam Giovannelli, le tinte eccessivamente scure nei contrasti eccessivamente chiari dell'alternanza tra dentro e fuori, è tutto ciò che colpisce, il resto nemmeno ci prova a colpire, sfiorando, mai centrando, proprio come nel titolo.
 
 
Paolo Dallimonti e Chiara Nucera