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Fino a qui tutto bene

Mercoledì 18 Marzo 2015 12:01
Cinque amici per la pelle, tre uomini e due donne sulla soglia dei trent’anni, trascorrono gli ultimi tre giorni nel loro attico pisano, in cui hanno condiviso amori, liti, bevute, amplessi, esami universitari, sughi scaduti e cena a base di “pasta al nulla”. I tempi acerbi dell’università e degli spettacolini teatrali per parenti e amici sono finiti e ognuno di loro deve essere pronto ad affacciarsi all’età adulta e a proseguire singolarmente per la propria strada; c’è chi torna a casa di mamma e papà, chi programma il viaggio-svolta in Nepal e chi, come Guglielmo, è combattuto tra l’amore della sua vita e un posto come professore associato in Islanda. 
Su di loro aleggia il fantasma di Michele, amico morto misteriosamente in un incidente stradale. 
 
I protagonisti sono quei giovani, non più tanto giovani, ma che sembrano ancora abbastanza giovani. Una virgola tra il vecchio e il nuovo mondo. Aspiranti attori, aspiranti biologi e aspiranti madri.
Negli ultimi anni, politici e fenomeni da talk show si riempiono continuamente la bocca della parola “giovani”, ma raramente lo fanno per riferirsi a questa generazione di mezzo. Una generazione naufraga su una vecchia barca in mezzo al Tirreno, che prova goffamente a remare controcorrente. 
A prescindere dall’apparenza scanzonata e dai codici della commedia, il film contiene una vena amara abbastanza sostanziale e i personaggi, forse, tendono a essere coinvolti troppo spesso in scene madri di scazzi repressi. Johnson si prende più sul serio rispetto al suo precedente I primi della lista, ma disegna i personaggi con lo stesso affetto smisurato, che ricorda un po’ l’approccio e la passione per i losers nelle commedie di Carlo Mazzacurati. 
L'idea per il film è venuta al regista quando l'Università di Pisa gli ha commissionato un documentario, per il quale ha intervistato decine di studenti.
“La storia ha preso le mosse dai loro racconti” spiega il regista, che ha curato la sceneggiatura insieme alla compagnia Ottavia Madeddu (Hit the road, nonna – Duccio Chiarini, 2011) “poi li abbiamo mescolati a vicende di fantasia, a fatti accaduti a me, a ricordi”.
 
Negli ultimi decenni, buona parte delle commedie italiane mainstream (a parte rare eccezioni) sono state ridotte, da un’industria cinematografica arraffona, a prodottini usa e getta, piattoforme di lancio per il comico televisvo di turno o scialbe commediole romantiche destinate al dimenticatoio (da Brizzi a Genovesi). 
Fino a qui tutto bene è dotato di una dignità e di una genuinità in più rispetto ad altre commedie italiane, corali o meno, imperanti nei multisala dei centri commerciali. 
Il film, costato circa 250 mila euro, è stato realizzato in partecipazione, vale a dire che nessuno è stato pagato per il lavoro, ma tutti hanno avuto una percentuale di diritti del film. "Se il film incasserà più di 250 mila euro per me sarà un successo perché vorrà dire che ognuno potrà essere pagato per il lavoro che ha fatto - spiega il regista. 
Gli attori, misconosciuti ma fenomenali, hanno dormito nella casa del film per tutto il periodo delle riprese. Questo avrà senz’altro contribuito a creare fra loro il feeling intense che vediamo nel film. Torna Paolo Cioni (già presente ne I primi della lista), nel ruolo del cinico ed esilarante Cioni, affiancato da Melissa Anna Bartolini (la “tossica” con le Hogan nella sketch-comedy The Pills), Silvia D’Amico, Guglielmo Favilla e Alessio Vassallo. L’unico volto noto al grande pubblico è quello di Isabella Ragonese (Tutta la vita davanti, Il giovane favoloso), nel ruolo di una celebre attrice di fiction mediocri, nonché, ex fiamma di Andrea (Favilla).
 
Presentato in anteprima durante il Festival Internazionale del Film di Roma, nella sezione Prospettive Italia, Fino a qui tutto bene è un’opera semplice e sincera, dal finale aperto. Non sappiamo quali saranno le scelte dei protagonisti dopo l’ultimo festone d’addio. I loro ultimi tre giorni nella casa sono finiti, così come è finita una parte delle loro vite. Quello che succede dopo è un’altra storia.  
 
Angelo Santini
 

Ho ucciso Napoleone

Sabato 28 Marzo 2015 12:05
Anita (Micaela Ramazzotti) è una donna in carriera fredda e determinata. Lavora per un’azienda farmaceutica che commercia in pillole dimagranti e il suo unico obiettivo nella vita è la carriera. Ha una storia d’amore clandestina con il suo capo viscido e fedifrago, Paride (Adriano Giannini), che la mette incinta e la licenzia. Con l’aiuto di Biagio (Libero De Rienzo), giovane avvocato apparentemente timido e impacciato, Anita mette in piedi un piano vendicativo ai danni dell’azienda, per riprendersi il suo posto di lavoro e spodestare Paride. Ma da gelida manovratrice la donna diventa a sua volta la pedina di un gioco più grande e malsano del suo. 
Napoleone è il pesce rosso che la figlia dei suoi vicini di casa le affida per l’inverno, ma che Anita butta prontamente nel cesso pochi secondi dopo aver chiuso la porta in faccia alla ragazzina. Ma Napoleone è anche lo stratega, l’uomo d’azione pragmatico e manipolatore, che la protagonista uccide metaforicamente e  condanna all’esilio. 
Dopo il successo di Amiche da morire, Giorgia Farina torna dietro la macchina da presa con un’altra commedia dalle tinte black tutta al femminile, scritta a quattro mani con Federica Pontremoli. Micaela Ramazzotti passa da essere la bambinetta ingenua di Virzì, Avati e Luchetti alla spietata dark lady rigida e borghese. I capelli da diavolessa, gli occhi pestiferi e i costumi iconici “un po’ alla Joan Crawford” di Maria Rita Barbera le conferiscono un’aura meno attinente alla vita reale di tutti i giorni e più fumettistica. 
Ho ucciso Napoleone non è iscrivibile in quel genere di commedie “che fanno ridere ma fanno anche riflettere”. Quella di Giorgia Farina è una commedia leggera, che si ferma in superficie e lascia poco spazio alla riflessione. Il vero problema, d’altro canto, è che non fa nemmeno ridere. A parte in qualche raro momento, i tempi comici e l’enorme potenziale del cast non sono mai pienamente sfruttati. Le stilizzazioni dark, noir e potenzialmente pulp si confondono in un frivolo calderone pop da commediola americana anni ’80. La regista perde l’occasione di mettere in scena un personaggio femminile atipico per il cinema italiano, che ci ha abituato a vedere le donne come femme fatale, come sante (madri, mogli o figlie) comunque subordinate al personaggio maschile di turno. Complice anche la Ramazzotti che, purtroppo, non riesce a reggere il peso del suo personaggio.
Nel film nessuno è come sembra, tranne la protagonista stessa, che stronza era e stronza rimane anche alla fine della sua crociata personale, pur attraversando diversi stadi. Il ribaltamento diabolico nella seconda metà del film, però, non si avvale di armi narrative efficaci. Scatta così, di punto in bianco, senza aver seminato prima le motivazioni di questa svolta nella caratterizzazioni dei personaggi.  
Anche quando cerca di superare gli stereotipi del gentil sesso vittimista, finisce per crearne altri, quello degli uomini mammoni ad esempio, o delle stesse donne sull’orlo di una crisi di nervi che si imbottiscono di pillole dimagranti fino al coma farmacologico per affermare la propria femminilità. 
Prodotto da Angelo Barbagallo per la Bibi Film, insieme a Rai Cinema, Ho ucciso Napoleone è nelle sale dal 26 marzo in 270 copie.
 
Angelo Santini
 

L'altra Heimat - Cronaca di un sogno

Giovedì 09 Aprile 2015 11:00
Edgar Reitz, fra i maggiori esponenti del Nuovo Cinema Tedesco, all’età di 82 anni mette in scene la genesi della saga epocale cominciata trent’anni fa.
Il primo Heimat, presentato a Venezia nel 1984, è composto da 11 capitoli, ognuno dei quali è praticamente un film a sé, per una durata complessiva di 924 minuti. Heimat 2 - Cronaca di una giovinezza conta 13 capitoli per 1532 minuti, il film più lungo della storia del cinema, mentre Heimat 3 – Cronaca di una svolta epocale si ferma ai 600. La trilogia, realizzata tra il 1979 e il 2006, è un monumentale affresco della Germania del Novecento, dalle macerie della Grande Guerra all’alba del nuovo millennio, visto attraverso le vicende private della famiglia Simon. L’altra Heimat – Cronaca di un sogno non è strettamente legato al ciclo, è un prequel autonomo e come tale può essere visto anche se non si conosce il resto dell’opera. 
 
Siamo nel 1843, sempre nell’immaginario villaggio di Schabbach, nell’Hunsrück, la regione dove Reitz è nato nel 1932. Qui ci vengono presentati gli antenati della famiglia Simon, artigiani sottoproletari, che, giorno dopo giorno, combattono contro la miseria e le ambizioni del figlio minore Jakob, illuminato dal sogno di abbandonare la piccola patria per fuggire in Sudamerica. Maldestro e vergognoso, Jakob passa le sue giornate immerso nei libri, a studiare lingue e idiomi degli indiani d’America. Come l’albatros di Baudelaire, è esule in terra fra gli scherni, che gli impediscono di volar via con le sue ali di gigante. Il ritorno dal fronte prussiano del fratello maggiore Gustav comprometterà gradualmente la sua smania di emancipazione.
 
La genesi della famiglia Simon è anche quella dello stesso termine “heimat”, che non ha un vero corrispettivo nelle lingue anglofone e neolatine, ma può essere tradotto con casa, patria, luogo natio. Privo del significato nazionalistico, ma con una forte connotazione melanconica, il concetto di heimat è comparso nella cultura tedesca proprio nel XIX secolo, in seguito all’esodo massiccio di popolazioni dalle aree rurali alle grandi città, con il dissolvimento dei piccoli stati in un unico nuovo stato tedesco a egemonia prussiana.
Quella raccontata da Reitz è la Germania rurale e arretrata, che sogna il nuovo mondo, “dove non c’è mai l’inverno”, ovvero, l’idillio a colori scolpito nel frammento di gemma che il taciturno Fürchtegott regala alla bella figlia Jettchen. Una Germania quindi completamente diversa da quella di oggi, florida e meta di immigrazione per eccellenza. 
 
Il tema, spiega Reitz, ospite dell'ultima edizione del Festival internazionale del film di Bari, "è naturalmente quello dell'immigrazione, il senso di dolore che c'è nel cuore delle persone che lasciano la propria terra. All'epoca eravamo un paese di emigranti, oggi siamo terra d'immigrazione".
 
Reitz rappresenta la quotidianità dei suoi protagonisti nel duro lavoro e negli affetti familiari, restituendo con realismo lo spirito e i crescenti mutamenti di un periodo storico che oggi sembra rimosso dalla memoria collettiva europea. 
Quando “eravamo noi a emigrare per cercare fortuna”, sopiti nel sogno e ancora incoscienti degli orrori che avrebbe riservato il secolo successivo.  
Il realismo della ricostruzione è quasi maniacale; le case di Schabbach sono state costruite di sana pianta, i costumi di Eshter Amuser tutti filati a mano e le fonti luminose sono state il più possibile restituite al naturale grazie all’uso delle riprese in digitale, che alternano un nitido bianco e nero e singoli elementi sporadicamente a colori (piante, fiamme, sole, sangue e denaro). 
Grande narrazione e forte impatto visivo firmati da un maestro del cinema tedesco. 
 
Angelo Santini
 

Short Skin

Giovedì 23 Aprile 2015 08:55
Il diciassettenne Edo (Matteo Creatini) soffre fin da piccolo di una malformazione al prepuzio, la cui pelle è troppo stretta e non permette al glande di uscire (la sua “short skin”, appunto)  Mentre intorno a lui tutti 
sembrano parlare solo e ossessivamente di sesso, Edo è timido e impacciato a causa delle sue inadeguatezze fisiche. I suoi genitori premono perché si dichiari a Bianca (Francesca Agostini), la sua vicina di casa tornata da Milano per le vacanze, che però sembra averlo relegato da anni nell’inesorabile abisso 
della friendzone. 
 
Una storia semplice raccontata con garbo ed eleganza, senza mai cadere nella deriva scollacciata del college movie à la American Pie; il polpo usato dal protagonista per le sue singolari pratiche masturbatorie (sotto suggerimento dell’amico Arturo) ricorda sì la torta di mele del cult di Paul e Chris Weitz, ma anche l’anguria “trombata” per scommessa da Paolo Cioni in Fino a qui tutto bene. 
Si sorride non solo per l’inadeguatezza del protagonista, ma anche per le nevrosi dei suoi comprimari, che vedono nel sesso l’unico obiettivo e mezzo per autoaffermarsi: che siano le pulsioni tardo-adolescenziali del compagnone Arturo, le scappatelle del padre fedifrago o le smanie voyeuristiche della sorellina Olivia, che vuole a tutti i costi far accoppiare il cane di casa. Ma la problematica sessuale è solo il tipico pretesto per rappresentare il passaggio all’età adulta e una riflessione su quello che trasforma un maschio in un uomo, 
sovvertendo qualsivoglia stereotipo machista. 
Duccio Chiarini, al suo primo lungometraggio di finzione dopo il documentario Hit the road nonna, sfodera la delicatezza comune a molti cineasti toscani della generazione post-Virzì, da Francesco Lagi con Missione di pace a Roan Johnson con il già citato Fino a qui tutto bene, in una commedia dallo stile più europeo (passatemi la definizione) ma profondamente radicata nell’immaginario toscano (pisano in particolare) sia nel linguaggio che nelle influenze. 
“Avevo appena letto il fumetto di Gipi LMVDN – racconta il regista, che cura la sceneggiatura insieme a Ottavia Madeddu e Miroslav Mandic – e quella storia di fragilità maschile raccontata in maniera così delicata mi aveva riportato alla mente una serie di disavventure sessuali vissute da adolescente che mi sembrava potessero diventare un film”.
Realizzato nell’ambito della Biennale College, Short Skin è stato presentato prima alla Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica poi al Festival del Cinema di Berlino. Distribuito dalla Good Films, il film esce nelle sale italiane il 23 aprile, mentre è prevista l’uscita anche in Francia, Regno Unito, Australia 
e Hong Kong. 
 
Angelo Santini
 

Tale of tales - Il racconto dei racconti

Lunedì 25 Maggio 2015 23:37
Uno dei registi italiani più apprezzati degli ultimi vent'anni opta per un film dal respiro più internazionale (e quindi americano)  “che nasce prima di tutto con l'ambizione di essere un film per il pubblico poi per i festival” confessa lo stesso Garrone riferendosi alla candidatura a Cannes. 
Adatta tre delle fiabe de Lo Cunto dei Cunti, raccolta scritta da Giambattista Basile in lingua napoletana tra il 1634 e il 1636, diventata in seguito ispirazione per scrittori come Andersen, Perrault e i fratelli Grimm. 
Per farlo ricorre a un cast internazionale e a un budget di quasi 12 milioni di euro, ma l'ambizione annichilisce in parte quella ricercatezza estetica che ha caratterizzato lo stile del regista. 
 
A Garrone, si sa, è sempre piaciuto improvvisare sul set; la sceneggiatura era un canovaccio steso renoiriamente, che finiva per modellarsi nel corso delle riprese attorno alle caratteristiche fisiche e umorali degli  attori. Lui stesso, personalmente dietro la macchina da presa in tutti i suoi film, da Terra di mezzo a Reality, stava addosso ai suoi personaggi/persone per carpirne le inconsapevoli variazioni emotive, attento a non congelare forzatamente il fluire della vita esterna. Inoltre, ha sempre cercato di girare i suoi film in sequenza, lungo il filo cronologico del racconto, proprio per costatarne sulla pelle degli attori gli sviluppi drammaturgici. Insomma, un modo di fare e pensare il cinema che ha caratterizzato il genio di Garrone che gli è valso il premio speciale della giuria di  Cannes nel 2008 per Gomorra. Il budget mastodontico di Tale of the tales però ha finito paradossalmente per castrarlo; la sceneggiatura blindata e il frequente uso di green screen per gli effetti digitali gli hanno impedito di controllare le sue immagini come, da buon pittore, è sempre stato abituato a fare. 
Ma Garrone non è un regista qualunque pronto a genuflettersi di fronte al Dio Mercato. Imprigionato in una messa in scena suggestiva, ma senz'altro più standardizzata, Garrone prova ad imporre la propria autenticità e a far sentire ancora l'eco lontano della sua voce. Lo fa scegliendo di adattare il più antico e ricco fra tutti i libri di fiabe popolari, caratterizzato da quella forte componente partenopea molto familiare al regista. Il valore simbolico dei racconti selezionati incontra due dei piani tematici più cari a Garrone, le leggi del desiderio de L'imbalsamtore e la mutazione di anime e corpi; la vecchia che si fa scarnificare per tornare giovane e bella ricorda molto la figura scheletrica di Sonia in Primo Amore. Ma se nei suoi film precedenti era sempre partito dalla realtà contemporanea poi trasfigurata nell'azione fantastica, qui fa l'esatto contrario, partendo dai racconti magici che porta in una dimensione più concreta. La libertà espressiva repressa la ritrova nella ricerca di luoghi reali, che però sembrano ricostruiti in studio, mentre quelli ricostruiti in studio tendono all'iper-realismo, grazie anche alla mano dello scenografo Dimitri Capuano. 
 
Garrone rinuncia ai suoi cavalli di battaglia, non trova più il film facendolo, ma confeziona un buon prodotto adatto a un pubblico di diverse generazioni.
 
Angelo Santini

Vacanze ai Caraibi

Mercoledì 16 Dicembre 2015 11:19
Il cinepanettone è come il cattivo dei film horror. Quando lo dai per morto e pensi che finalmente sia tutto finito, esce fuori dalla bara con un’ascia in mano per farti a pezzi. 
A quattro anni dall’ultimo capitolo del fortunato filone, Neri Parenti rimette insieme la vecchia banda in una commedia volgare e reazionaria. Tutto comincia a Roma, in un bar del quartiere Prati, dove si incontrano Parenti, Fausto Brizzi e Marco Martani, autori di decine di cinepanettoni (da Tifosi a Natale in crociera). Tutti e tre animati dall’esigenza impellente di tornare al cinepanettone duro e puro, quello con le ambientazioni esotiche in chroma key, le scorreggie e De Sica che dice «delicatissimo». 
In questi quattro anni il film di Natale targato Filmauro si è nascosto dietro la facciata pudica di una commedia dal respiro più ampio (Colpi di fulmine, Colpi di fortuna e l’imminente Natale col boss). Nel 2011, dopo Vacanze di Natale a Cortina, Aurelio De Laurentiis si era reso conto che i costi non avevano più i giusti ricavi e decise di cambiare registro. Ma a Parenti la «commedia sofisticata», come la chiama lui, andava stretta. Lui e De Sica ne girarono un paio, «anche perché – spiega Parenti - eravamo contrattualmente legati a Filmauro ancora per due anni», per poi tornare a fare quello che gli riesce meglio: le commedie con le scoreggie, perché si sa che le scoreggie fanno sempre ridere e in Vacanze ai Caraibi sono la ciliegina sulla torta. 
«Questo non è il Nothing Hill di Vigna Clara» avverte in conferenza stampa De Sica, proprio per prendere le distanze dalla piega soft dei nuovi film natalizi della Filmauro. La storia si articola in tre episodi. Mario (De Sica), un imprenditore in bancarotta, scopre che la giovane figlia intende sposare l’attempato Ottavio (Massimo Ghini). Inizialmente Mario e la moglie (Angela Finocchiaro) sono contrari, ma quando scoprono che è ricchissimo e che potrebbe risolvere i loro problemi finanziari cambiano idea, senza sapere che il futuro genero è in realtà uno squattrinato parassita. Parallelamente tra Fausto (Luca Argentero) e Claudia (Ilaria Spada) scoppia una passione irrefrenabile e animalesca, che li induce a mollare i rispettivi partner a bordo di una nave da crociera. La nave in questione è una Costa Crociere. Non è importante ai fini narrativi, ma per la dura legge del product placement il logo della compagnia di navigazione viene inquadrato ossessivamente. 
Infine, nell’episodio che è forse il meno brillante, un patito di tecnologia (Dario Bandiera) naufraga su un isola deserta senza cibo né wi-fi e si strugge in preghiere del tipo: «Aiutami o da quest’isola non me ne android». 
In questo prematuro revival, prodotto da Medusa e Wildside con il contributo della Regione Lazio, la formula torna più scollacciata che mai; la sceneggiatura autocitazionista pullula di gag che sembrano uscite da un generatore automatico di volgarità gratuite e già viste, sulle quali gli autori puntano tutto per ottenere la complicità del pubblico più nostalgico.
Secondo gli stessi autori, le mostruose maschere del cinepanettone hanno rappresentato per anni la volgarità degradante dei neoricchi rozzi e incolti sfornati dalla cultura berlusconiana, con il linguaggio scollacciato e sopra le righe della comunicazione dominante durante l’ultimo ventennio. Oggi, però, quel tessuto sociale sembra sempre più destinato a farsi da parte e lasciare il posto a un altrettanto mostruosa classe dominante, per cui, un po’ gattopardescamente, tutto va rottamato perché tutto rimanga uguale. Quei personaggi, tanto amati dal pubblico medio quanto stroncati dalla critica, oggi non possono suscitare altro che un misto di patetismo e tenerezza, come le gaffe di un Berlusconi al crepuscolo, che sbaglia comizio e si ritrova a sostenere il candidato di centrosinistra. 
Inoltre il cinepanettone non ha mai nascosto la sua natura di intrattenimento usa e getta, e quindi facilmente dimenticabile. Nei quattro anni di assenza anche il suo pubblico si è abituato ad altro, che sia la «commedia sofisticata» di cui parla Parenti – che poi di sofisticato, anche quella, ha ben poco -, o l’ascesa delle nuove star del piccolo schermo e del web. 
Per questo Vacanze ai Caraibi, oltre alle insopportabili discese abissali di uno stile vuoto e caduco, è anche un film estremamente reazionario. 
 
Angelo Santini

Francofonia

Sabato 26 Dicembre 2015 10:08
Primavera 1940. Durante l’occupazione nazista dello Stato Francese, l’ufficiale Franziskus Wolf-Metternich (Benjamin Utzerath) riceve dal Reich l’incarico di proteggere le opere d’arte contenute nel Louvre, con l’aiuto del direttore del museo Jacques Jaujard (Louis- Do Lencquesaing). Erano tante le ragioni che giustificavano la creazione di un Dipartimento per la protezione delle opere d’arte, soprattutto in seguito all’esperienza prima guerra mondiale, quando molte opere di valore inestimabile vennero perse per sempre sotto i bombardamenti. Grazie all’alleanza forzata dei due protagonisti – prima nemici, poi collaboratori - molti dei tesori del Louvre verranno salvati da uno dei più sanguinosi conflitti della storia. 
 
 
Aleksandr Sukorov torna a usare il cinema per scavare nella civiltà europea, la cui grandezza sta proprio nella sua arte, che il regista elogia ed elabora in molti dei suoi film.
Come nell’Arca Russa  la voce dello stesso Sokurov guida il film e lo spettatore in un inno al coraggio umano, sintesi di un po’ tutto il suo cinema, dall’elegie alla trilogia del potere. 
A differenza di Arca Russa, però, il museo non è solo un pretesto per raccontare la vita che si nasconde dietro le opere, ma il luogo in cui la società ricorda, racconta e preserva la propria identità storico-genetica nei momenti di terrore. In una Francia spaccata dall’occupazione, salvare quei tesori, conquistati anch’essi col sangue durante le guerre napoleoniche, sembra l’unico modo per mantenere viva la cultura umanista profondamente radicata nella capitale del Vecchio Mondo. 
Un film che colpisce anche perché esce in un periodo in cui si invoca – e si impone - l’unità nazionale in una Francia ancora sconvolta dagli attentati del 13 novembre. 
 
Francofonia è un collage di libere associazioni più che un racconto in ordine cronologico, un percorso che segue i meandri visionari del pensiero dell’Autore.
Se il lungo piano sequenza che compone Arca Russa rappresentava la continuità dell’uomo nella Storia, qui Sokurov mescola diversi tipi di immaginari come i colori sulla tavolozza di un pittore: dall’opera d’arte eterna ai materiali d’archivio della seconda guerra mondiale, dalla rappresentazione scenica della grande Storia, attraverso i due protagonisti realmente esistiti, alla videochiamata su Skype fra l’Autore e il suo Amico, a bordo di una nave in tempesta che trasporta un’importante collezione d’arte museale. 
 
Una riflessione sul carattere unico e irripetibile dell’opera d’arte e della comune volontà di integrare quello che Walter Benjamin chiamava «l’aura» che essa emana. 
 
Angelo Santini
 

Creed. Nato per combattere

Giovedì 14 Gennaio 2016 18:13
Adonis Johnson (Michael B. Jordan) è il figlio illegittimo di Apollo Creed, morto sul ring poco prima che lui nascesse. Trascorre un’infanzia difficile, finché non viene adottato da Mary Anne Creed (Phylicia Rashad), la vedova di Apollo, che lo porta con sé in California. Si capisce subito che il protagonista è «nato per combattere»; da piccolo picchia duro i compagni di riformatorio, da grande s'è scisso fra un lavoro castrante ma redditizio a Los Angeles e gli incontri clandestini di boxe in Messico.  
Contro il parere di Mary Anne, il protagonista lascia l’agiatezza del suo mondo ordinario e si trasferisce a Philadelphia, la città dove si tenne il leggendario incontro fra Apollo Creed e Rocky Balboa. Una volta arrivato nella città dell’amore fraterno, Adonis rintraccia Rocky (Stallone) e gli chiede di diventare il suo allenatore.
 
Adonis non è il nero che lotta per uscire dal ghetto e diventare un paperone impaccato di milioni come Apollo. Vive già nell’idillio del sogno americano, all’ombra di suo padre: è istruito, ha un bel lavoro e una bella macchina. Ma tutto questo sembra andargli stretto. Adonis fa parte di una seconda generazione, che combatte per affermare la propria personalità indipendentemente da quella precedente; per dimostrare a sé stesso e agli altri di non essere un buffone, un “Baby Creed” insomma. Questa è anche la motivazione congenita del film stesso, che combatte per emanciparsi dalla serie di Rocky e non essere solo un reboot- fotocopia del primo film, sforzandosi di creare conflitti diversi e un ricambio generazionale. 
Non mancano però i riferimenti alla serie originale, come la leggendaria scalinata dell’Art Museum a Philadelphia, gli allenamenti spartani con le galline e una figura femminile cucciola e indifesa di cui il combattente si prende cura; nel primo film Adriana era una commessa impacciata ai limiti dell’autismo, sguattera del fratello/patriarca Paulie, mentre qui Adonis si innamora di Bianca (Tessa Thompson) una musicista che soffre di una degenerazione dismorfica all’udito. 
 
Con questo film Stallone, premiato con il Golden Globe come miglior attore non protagonista, ha finalmente ricordato che vuol dire la parola dignità. A quasi settant’anni lo abbiamo visto menare le mani con i suoi amici Mercenari duri a invecchiare, convinto che il pubblico ridesse con lui, mentre in fondo rideva di lui. Per la prima volta non mette mano alla sceneggiatura della sua saga e si dedica esclusivamente al lato interpretativo, mettendo in scena un Eroe/Mentore più tragico e crepuscolare dell’ultima avventura –patetica e un po’ surreale– di Rocky Balboa (Balboa, 2007), che lo vedeva tornare sul ring alla veneranda età di 65 anni.
In Creed Rocky/Sly supera quella crisi della terza età ed è costretto a combattere la sua (ultima?) battaglia contro un avversario più letale di chiunque abbia mai affrontato sul ring. D’altronde tutti quelli che lo circondavano sono morti e lo “stallone italiano” - come ancora lo chiama qualcuno nella vecchia palestra di Mickey - non può far altro che imparare dai suoi errori, accettare il tempo che passa e smettere di vivere fra le fotografie del passato incorniciate sulle mura del suo ristorante.
 
Il regista Ryan Coogler (Prossima fermata – Fruitvale station, 2014), grande fan di Rocky fin da bambino, resuscita il franchise da 9 anni di dimenticatoio. Filma i match in modo meno frammentario e serrato del precedente Rocky Balboa; il primo incontro a Philadelphia contro Gabriel Rosado (sosia indiscusso di Fedez) è un unico long take con la macchina da presa che gira intorno ai due pugili, mentre la stessa tecnica viene usata per l’entrata sul ring durante il match finale con Ricky Conlan (Tony Bellew). 
 
Non un gran film, ma senz’altro un film dignitoso che non deluderà sicuramente i fan della serie. Tanto che già si parla di un sequel. 
 
Angelo Santini

Revenant

Lunedì 18 Gennaio 2016 16:27
1823. L’esploratore Hugh Glass, vedovo e padre di un mezzosangue indiano, viene assunto come guida per una battuta di caccia alla ricerca di pelli e pellicce tra gli Stati americani di Montana, North Dakota e South Dakota. Tra i suoi compagni è quello che più di tutti conosce le vergini terre americane, in cui soldati, mercenari e cacciatori si inoltrano per scopi commerciali, provocando sanguinosi conflitti con le tribù indigene. Dopo essere stato brutalmente attaccato da un grizzly, Glass rimane in fin di vita. Fitzgerald (Tom Hardy), il più arrogante della compagnia, si offre di rimanere con lui e di dargli degna sepoltura quando sarà il momento, ma lo abbandona fra la vita e la morte dopo averlo derubato del suo bene più caro.
Tratto da una storia vera, il film racconta l’epica avventura di un uomo che cerca di sopravvivere nelle terre impervie di un’America inesplorata grazie alla straordinaria forza del proprio spirito. 
 
È difficile parlare di The Revenant senza accennare alla sua programmatica corsa agli Oscar. Il film di Alejandro González Iñárritu, fresco di 12 nomination, sembra pensato apposta per replicare lo straordinario successo di Birdman, vincitore di 4 statuette tra cui miglior film e miglior regia.  
Il personaggio di Glass è un vestito cucito su misura per il premio come miglior attore. Un’opportunità irripetibile - costruita ad hoc - per permettere al bravissimo Di Caprio di stringere finalmente fra le dita la prestigiosa statuetta, dopo 4 nomination andate a vuoto e la pressione di un'opinione pubblica che ironizza sulle sue vittorie mutilate. 
«Per quanto riguarda gli attori la malattia paga» commentò cinicamente il critico Gianni Canova dopo le vittorie dello scorso anno: Eddie Redmayne, miglior attore protagonista nel biopic su Stephen Hawking e  Julianne Moore, miglior attrice nel ruolo struggente di una donna malata di Alzheimer in Still Alice. 
Anche senza malattie e disabilità permanenti, Di Caprio mette il suo corpo a dura prova nella performance più difficile di tutta la sua carriera. Nell’arco dei 9 interminabili mesi di lavorazione l’attore ha rischiato più volte l’ipotermia a causa della temperatura di 40 grandi sotto zero  - motivo che ha spinto diversi membri della troupe ad abbandonare le riprese -, indossato pellicce di orso e d’alce dal peso di 45 kg, mangiato fegato di bisonte crudo e dormito nella carcassa di un cavallo morto. Il suo personaggio si limita per tutto il tempo a subire una serie di sfortunati eventi, come un cartoon che non muore mai; roba che in confronto quello di Sandra Bullock nello spazio profondo di Gravity sembra un tranquillo weekend a Pescasseroli. 
 
Ma il film è anche una vetrina espositiva per Iñárritu, irrefrenabile forza della natura, e il superbo direttore della fotografia Emmanuel Lubezki (Oscar per Gravity e Birdman).
In Birdman, attraverso il lungo piano sequenza simulato e un pragmatico uso di effetti digitali, il regista messicano era riuscito a ricreare il fascino illusorio ed inspiegabile tipico del cinema delle origini. Quella magia che non troviamo nemmeno nei blockbuster più pirotecnici, dove la spettacolarità è un trucco dichiarato che non lascia spazio alla fantasia. Davanti a quei virtuosissimi movimenti di macchina, nel buio della sala, ci si chiede spesso «Ma come cazzo hanno fatto?». Interrogativo alla base dell’essenza stessa del cinema e non troppo lontano da quello degli spettatori di fronte ai primi capolavori di Méliès. 
 
In The Revenant Iñárritu e Lubezki si spingono addirittura oltre; lasciano i Kaufman Astoria Studios di New York – dove si svolsero interamente le riprese di Birdman – per le location incontaminate di Alberta, Canada e Argentina, dove, seguendo l’influenza di Herzog, «filmano l’impossibile», sfruttando questa volta solo luce naturale. 
La macchina da presa, attraverso i fluidi long take, sta letteralmente addosso al protagonista, mentre il suo respiro appanna l’obiettivo e gli schizzi di sangue macchiano lo schermo. 
La lettura politica dei conflitti fra nativi americani e invasori europei e quella spirituale, legata agli inserti onirici di Glass vagamente Malickiani e al suo desiderio di vendetta, risultano complementari nella potente messa in scena del rapporto fra l’uomo e la natura; dove gli alberi - la natura -  protendono verso il cielo, come le frecce infuocate scoccate dai nativi, civiltà nettamente superiore dei mercenari colonizzatori – l’uomo - che invece strisciano al suolo come vermi. 
Una gioia per gli occhi e poco più.
 
Angelo Santini

I Milionari

Giovedì 11 Febbraio 2016 15:31

Alessandro Piva approda al Festival Internazionale del Film di Roma con I Milionari, presentato in concorso all’interno della rassegna Cinema Oggi.

Libero adattamento dell’omonimo romanzo-inchiesta di Luigi Alberto Cannavale e Giacomo Gensini, il film racconta l’ascesa criminale di un gruppo di giovani banditi napoletani nel quartiere di Secondigliano.
Piva cambia tutti i nomi dei personaggi, aggiunge dettagli e ne omette altri, ma cerca di mantenere la stessa tensione realistica del libro, con l’obiettivo di disegnare una mitologia criminale di Napoli. 
Così il protagonista Paolo di Lauro, in arte e al lavoro “Ciruzzo ‘o milionario”, diventa Marcello Cavani, soprannominato a sua volta “Alendelòne” e interpretato da un deludente Francesco Scianna (Vallanzasca – Gli angeli del male, Allacciate le cinture). 
Regista di culto nell’underground pugliese, Piva sbarca a Napoli, con un film dal budget più alto rispetto ai precedenti, in cui vuole sottolineare l’impossibile convivenza tra le velleità borghesi di Cavani e la sua sostanza criminale. 
Tutto scorre piatto. 
Le immagini sono una successione di inquadrature banali, senza spessore, degne della più generalista delle fiction Rai (manca solo Beppe Fiorello). 
Non era facile reggere il confronto con i camorra-movie degli ultimi anni; prima Gomorra di Matteo Garrone, vincitore del Gran Premio della giuria a Cannes e di 7 David di Donatello, poi l’omonima serie, uno dei migliori prodotti televisivi italiani degli ultimi vent’anni, senza dimenticare il sottovalutato Fortapasc di Marco Risi, sulla breve esistenza del giornalista Giancarlo Siani ucciso dalla camorra. 
Francesco Scianna si conferma uno degli attori peggiori della sua generazione;
la recitazione caricata  trasuda insicurezza e dilettantismo. 
Dopo il sopravvalutato Il sud è niente, Valentina Lodovini si trova di nuovo relegata a un personaggio femminile debole e scritto male. 
Eppure il soggetto di spunti stimolanti potrebbe offrirne; lo scambio fra i regali nuziali (le “buste” ) e le bomboniere nella facciata borghese ha le stesse dinamiche dello scambio danaro-hashish nel retroscena criminale. 
Ma Piva sembra come spaesato e la sua regia approssimativa; dopo quello che sembrava essere un nuovo punto di partenza con il noir romano Henry, il regista delude irrimediabilmente le aspettative dei suoi fan più affezionati. Si concentra sulle megalomani aspirazioni del protagonista, ma non riesce a codificare i rituali della malavita in immagini che suscitino un minimo di interesse in più rispetto al canonico campo e controcampo.
I mostri un po’ grotteschi di La Capa Gira, ritratto della microcriminalità barese dai risvolti amari, lasciano il posto a personaggi privi di spessore, dalle evoluzioni sciatte e prevedibili. Si ricicla la figura stereotipata del bandito dandy e carismatico, ormai superata da anni sia nel cinema che nella televisione di qualità, tratteggiando un profilo superficiale e reazionario della criminalità organizzata. 
In comune con il film di Gomorra c’è lo sceneggiatore Massimo Gaudioso, storico collaboratore di Garrone e certe situazioni sembrano la parodia involontariamente demenziale dell’omonima serie tv.
 
Angelo Santini
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