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Visualizza articoli per tag: David Siena

Ash is purest white

Sabato 19 Maggio 2018 16:06
Gloria e potere sognano Qiao (Zhao Tao) e Bin (Liao Fan), giovane coppia di malavitosi, costantemente devoti alla triade. Il teatro delle loro imprese è Datong, città dello Shanxi. Siamo ad inizio nuovo millennio ed esattamente nel 2001. Pazzamente innamorati l’uno dell’altra, Qiao e Bin non mancano di dimostrare ai rivali la loro forza, ma una sera vengono avvicinati ed attaccati senza pietà da chi gli vuole sottrarre la leadership. Bin si difende con caparbietà, ma subisce colpi tremendi. Qiao è costretta ad estrarre una pistola e sparare verso il cielo per far terminare il massacro. E’ il momento nel quale tutto si spezza irrimediabilmente. La ragazza viene portata in carcere dove sconterà una pena di 5 anni. Una volta uscita, Qiao prende la strada di Fengjie, alla ricerca del suo grande amore. Ma ora Bin non è più il boss di un tempo, anzi è avvilito e il suo sguardo al futuro è annebbiato e senza una vera prospettiva. L’incontro non porta a nulla. Qiao non ha più presa su di lui e quella che sembrava una coppia indistruttibile deve arrendersi alla realtà. Ora dove è diretta quella giovane donna, che sognava di diventare una grande ballerina al fianco del suo leale gangster? Vaga sola con la sua anima ormai perduta, rintronata ed intontita. Le botte sembra averle prese lei e le cicatrici bruciano ad ogni suo passo. La ritroviamo dieci anni dopo, esattamente nel 2016, tornata a Datong e ora matrona e padrona di una casa da gioco. Inaspettatamente si fa vivo Bin, sempre meno uomo, costretto su una sedia a rotelle accetta le cure della sua vecchia fiamma, ma lo fa con disprezzo. 
 
Ash is purest white, in concorso al Festival di Cannes 2018, è scritto e diretto dal cinese Jia Zhang-ke (Leone d’Oro a Venezia 2006 con Still Life). Questo nuovo lavoro ricalca i suoi precedenti, a partire dalle zone geografiche dove è ambientato, tanto care all’autore. Lo Shanxi è la sua provincia natale. Non può mancare anche la sua compagna di sempre: l’attrice Zhao Tao, presente in quasi tutti i suoi film. Diviso in tre parti ben distinte come Al di là delle montagne, altra sua pellicola dal potente contenuto. Gioca in casa Jia, zona confort e modus operandi di sempre, che non gli impediscono di realizzare ancora una volta un gran film. Mette in scena il tradimento dell’amore, che si consuma in parallelo con il fallimento di quel futuro (globalizzazione) che prometteva solo felicità, ma che è solo disuguaglianza e decadenza morale. 
 
Jia Zhang-ke ci regala un film, che non manca di criticare le promesse fatte e non mantenute da quella terra promessa chiamata modernizzazione. E lo fa con un inteso melodramma. L’amore desiderato da tutti, che va ad impattare contro il muro di una realtà (tanto voluta da noi stessi), che di amorevole e complice non ha proprio nulla. Il futuro che viviamo giornalmente è violento e in perenne sofferenza. Esplicativo è il superbo piano sequenza dell’aggressione a Bin. Ash is purest white non è mai didascalico, è un film dolente e poetico. Nella sua universalità, non vediamo solo una Cina tradita, ma anche un po’ di noi stessi e il nostro sguardo abbassato su un piccolo schermo nero, in grado solo di portare alienazione. Il ritorno alla tradizione è impossibile e, usando un termine tecnologico, navighiamo senza sosta verso un mondo senza alternative. E’ questo lo sfogo del regista, e a parte una lunghezza eccessiva della pellicola, non gli si può dar torto. Non può mancare un altro suo segno di fabbrica, l’ufo che svolazza beato nei cieli e che rafforza l’incoerenza della realtà. Mondo irrazionale, che ormai non ha più la forza di tornare indietro. Felicità presente solo nei piccoli e insensati gesti. (Qiao che condivide una bottiglietta tra le sue e le mani di chi incontra per caso sul treno). Provare a credere in qualcosa, solo per il gusto di credere ancora (uomo che propone un bizzarro lavoro a Qiao in treno).
 
Tanta roba nel film di Jia Zhang-ke, che punta incessantemente il suo faro sulle discordanze del rinnovamento e sulla conseguente instabilità sociale, che innalza il divario tra ricco e povero. Sentita anche l’importanza del passare del tempo su quello che ci emozionava e che ora rimane solo un sordo sussurro. Ingente il supporto attoriale dei due protagonisti, che attraversano i primi 17 anni del nuovo millennio sprigionando magnificamente paure, orgoglio, determinazione e debolezze, con la loro superba performance. Mettono in scena l’esistenza che fa rima con sopravvivenza. La costruzione e la demolizione. 
 
David Siena
 

Yomeddine

Venerdì 18 Maggio 2018 16:27
Senza infamia né lode l’opera prima dell’egiziano A.B. Shawky. Forse non proprio da concorso di Cannes, ma in un’annata dove le piattaforme più gettonate del nuovo millennio (Netflix e Amazon) sono state boicottate senza diritto di replica, ci si può aspettare un’opera forse non proprio all’altezza di un palmares così prestigioso, che ha comunque il pregio di non mettere in scena gli scontati stereotipi politico-culturali dell’Egitto contemporaneo. Crediamo nella sua sincerità e a conti fatti gli si può perdonare il suo fare ricattatorio e moralista. 
 
Lontano dalle piramidi e dal turismo, un’anonima località egiziana ospita un lebbrosario. L’elemento umano più rappresentativo si chiama Beshay (Rady Gamal). Per lui la tremenda malattia ha fatto il suo corso. Non è più infettivo e ora l’unico suo pensiero è rivolto alla moglie, in gravi condizioni di salute. Beshay non ha mai lasciato la colonia e probabilmente non ha idea della vastità del deserto che lo circonda. E’ stato portato lì da piccolo e quella minuscola porzione di mondo è tutto quello che possiede. Ma quando la consorte viene a mancare prende una rivoluzionaria decisione: intraprendere un viaggio in sella ad un asino alla ricerca del padre. Appena fuori da quella reietta comunità vive Obama (Ahmed Abdelhafiz), ragazzino nubiano rimasto orfano. Il lebbroso si è sempre preso cura di lui e anche adesso non lo abbandona al suo destino, ma lo porta con se. Inizia così un’improbabile viaggio avviato da altrettanti improbabili personaggi. Cammino in una terra povera, fatta di povere persone, alla ricerca di se stessi. La terra promessa si chiama famiglia, amicizia ed integrazione. Il mondo vero è duro da affrontare. Il percorso è impervio e pieno di buche (dispiaceri), ma in fondo alla strada la casa (con tutto il suo più umano e caldo significato) sembra non essere più solo un miraggio.
 
Anche i muri ormai sanno che il genere on the road è un tipo di film che aiuta a migliorare, perdere, ritrovare se stessi o i rapporti con gli altri. Forse i deserti però non lo sanno. A parte l’ironia, sono pochi i film in sella ad un somaro o ad un cammello rispetto ai classici motori. Qui il regista, che per il suo esordio dietro la macchina da presa ha collaborato con attori non professionisti, si avvale del genere ondivago per raccontare l’incredibile vita ritrovata di un personaggio ai confini del mondo insieme ad un affettuoso ragazzino a digiuno di genitori. Crescita impensabile alle premesse. E A.B. Shawky, con fare un po’ ruffiano, si prende cura dei legami; ne giova la confezione, che risulta gradevole. Il tutto coadiuvato da un lineare, frizzante, ed in alcune scene ironico, sviluppo narrativo. Scorre veloce senza appesantire. Il film non ha sotto testi particolari, è tutto lì, in superfice. Studiato per prendere il cuore. Diretto con uno sguardo occidentale; il ragazzo non si chiama Obama mica per niente. Decisamente a fuoco la fotografia, sincronizzata con il realismo della pellicola.
 
Tra i deformi della storia del cinema ci piace accostare Beshay a Sloth (dei Goonies). E’ un accostamento un po’ bizzarro, che fa sorridere, ma se pensate al risultato finale, il paragone calza a pennello. Chi non ricorda Sloth, quell’omone dallo storto sorriso, che tanto ci ha fatto tifare per lui e per la sua fuga da una famiglia crudele e terribile. La si fuggiva dalla famiglia, ma se ne trovava un’altra (con il suo fidato amico Chunk). Qui si fugge da un’esistenza spezzata in partenza e si arriva esattamente dove è arrivato Sloth. Entrambe sono storie di formazione, diametralmente opposte nel contesto (caccia al tesoro/deserto), che trovano nell’amicizia la formula per trovare un’isperata felicità.
 
Yomeddine non si piange mai completamente addosso e auto ironizza con intelligenza narrativa. Poi, come già accennato ad inizio recensione, il film può passare velocemente nell’anonimato. Opera dai buoni propositi, che non scopre nulla di nuovo e ha una forza limitata, in grado di colpire fino all’accensione delle luci in sala, per poi non lasciare per forza un ricordo indelebile nello spettatore.
 
David Siena

In Guerra

Sabato 19 Maggio 2018 16:40
Ancora una volta insieme Stéphane Brizé e Vincent Lindon, dopo l’amaro La legge del Mercato (Palma a Lindon come miglior protagonista nel 2015). E come allora, il regista francese scrive il suo En Guerre con Olivier Gorce.
La storia (di finzione) a cui assistiamo è la battaglia sindacale di un gruppo di lavoratori traditi dalla propria azienda. Hanno rinunciato a premi ed a diverse ore settimanali di stipendio per garantire alla società il proseguimento dell’attività. E poi questa decide di chiudere i battenti e trasferire la produzione all’Est, dove la manodopera costa meno ed i guadagni a fine anno avranno conseguentemente un notevole incremento.
L’azienda sventola orgogliosa la bandiera della competitività come arma di difesa. I lavoratori vogliono però far sentir la loro voce alla direzione tedesca e anche lo stato, che dovrebbe tutelarli, si schiera al fianco dei potenti. Il portavoce dei lavoratori all’interno delle assemblee e dei dibattiti è Eric Laurent (Vincent Lindon).
Funzionario tenace e sempre in prima linea. La lotta, dopo un lungo periodo di scioperi e proteste e scarse risposte, rende i 1100 dipendenti “En Lutte” irascibili e l’unione tra di loro piano piano viene a mancare. La troppa tensione mista alla paura di perdere tutto lacera irrimediabilmente i rapporti tra colleghi. Anche quando sembra che il dialogo con la dirigenza si possa riaprire, questo è solamente un castello di carte che alla prima leggera folata di vento viene giù peggiorando la situazione. Contingenza che diventa estremamente aspra e degenera in violenza.
 
At War (titolo all’inglese), in concorso al Festival di Cannes, è stato accolto da molti applausi. Ci sentiamo di condividere questa accoglienza, in quanto il film di Stéphane Brizé, anche se molto simile al precedente La legge del mercato (stessa forma e un marcato realismo), è un film compatto, che mette in evidenza quanto siano in caduta libera e ormai perduti i valori morali, calpestati e ghettizzati. Evidenzia con spietata verità le difficoltà dei lavoratori odierni in balia del cinismo delle grandi multinazionali. Di En Guerre colpisce la profondità e la potenza che emana. Il regista per la realizzazione di questo lungometraggio si è avvalso della consulenza di Xavier Mathieu, leader della rivolta degli impiegati della Continental di Clairoix. Il suo supporto ha potuto garantire all’autore una visione molto vicina alla verità. Lo sguardo pragmatico di Stéphane Brizé entra così prepotentemente all’interno di quei temi politici, a lui tanto cari.
Regia che si infiltra nelle riunioni tra dirigenti e sindacalisti, al limite del documentario. Ridotto al lumicino lo spazio per la fiction. Direzione attenta, rigorosa e scrupolosa. Usando anche le nuove tecnologie (fotocamera di uno smartphone) per avvicinarci sempre più alla realtà. Denuncia i fatti. Reportage televisivi degni della CNN. Tutto questo sfoderando uno stile asciutto, senza tanto perdersi in inutili magheggi. E’ perennemente presente nei momenti clou con il suo Virgilio, un Vincent Lindon strepitoso. La sua è una magnifica interpretazione in sottrazione: sofferta, energica e amara. Anima del film, baluardo ed icona di dignità. Rappresenta l’intera lotta e la débacle del suo gruppo. Brizé non vuole incitare alla violenza, ma vuole dare spazio a quelle persone che hanno perso tutto. In un mondo sempre meno attento al concetto di umanità. Praticamente deriso e schiacciato come una formica. Si schiera, ma fondamentalmente lo fa solo scegliendo di fare un film del genere, non nel film stesso. Non è retorico, ma rispetto alla Legge del mercato spinge un po’ troppo sul dramma. Piccola pecca, che comunque non lede il valore assoluto del film. 
 
En Guerre piace sicuramente a Ken Loach (Io, Daniel Blake, Palma d’Oro Cannes 2016). Evidente la tematica cara al pluripremiato regista britannico. Lo spettatore uscirà dalla sala con un groppo alla gola e uno stato d’animo destabilizzato dallo sconforto, che cresce minuto dopo minuto. Si perché, ad un certo punto, si percepisce che la strada intrapresa dai scioperanti non ha una via d’uscita ed il peggioramento non conosce fine. 
 
David Siena
 
 

The Golden Glove

Mercoledì 13 Febbraio 2019 17:25
The Golden Gloves (guanti d’oro), notare che qui troviamo una “s” in più rispetto al titolo del film, ma poco cambia per la disamina e il parallelismo che andiamo a spiegare, era una competizione di boxe amatoriale americana in voga dalla fine degli anni 20. Ci si deve essere ispirato Fritz Honka, il protagonista di questo film. E di conseguenza scommettiamo che il suo sport preferito sia stato proprio il pugilato, visto che era il numero uno, ahinoi, a prendere a pugni delle povere donne per poi ridurle a brandelli. I suoi non erano guanti d’oro, ma pugni di morte: il mezzo per esternare una grave malattia mentale, colma di diseducazione e di frustrazione.
The Golden Glove di Fatih Akin sconvolge così la kermesse berlinese (in concorso).  Il vincitore del Golden Globe 2018 per Oltre la Notte adatta l’omonimo romanzo di Heinz Strunk ,che racconta degli efferati delitti del serial killer Fritz Honka ad Amburgo nei primi anni 70. 
 
Nel quartiere a luci rosse della città tedesca vive l’alcolizzato Honka (Jonas Dassler). Il suo appartamento trasuda colpe e cattivi odori. Nelle sue mani tiene sempre ben salde una bottiglia ed un sega. Quest’ultima la usa per tagliare le sue vittime, per poi stipare i pezzi del corpo nei muri. Tutti si lamentano del fetore proveniente dalla sua casa, ma lui dà la colpa alla cucina dei suoi coinquilini di origine greca. L’attuale malcapitata si chiama Gerda Voss (Margarethe Tiesel), che accortasi degli strani atteggiamenti di Fritz riesce a scappare mentre lui è al lavoro. Quando tutto sembra precipitare l’uomo sembra rinsavire, fino al momento in cui si invaghisce di una collega ed i suoi incubi tornano a visitarlo. L’alcol diventa ancora il suo miglior amico. A braccetto vanno verso l’autodistruzione. La goccia che farà traboccare il vaso ha il viso di una bellissima teen-ager, che trascinerà il viscido individuo fino alle fiamme dell’inferno.
 
Fatih Akin dirige con mano da navigato cineasta. Piani sequenza magistrali che mettono in mostra l’estremismo di una mente malata. La regia si allinea all’oltranzismo del killer così da rendere il film estremamente vivido ed angosciante, complice anche una messa in scena impeccabile.
Il regista tedesco si affida ad una violenza vontrieriana ed a una scarsa sceneggiatura per legittimare le proprie intenzioni: comporre un film piatto, volutamente non empatico, ma rivoltante da far attorcigliare lo stomaco. Si perché il mostro di Firenze tedesco è privo di sostanza, è brutalità pura. Non c’era bisogno di entrare in chissà quale psicologismo. Solo ferocia per descrivere questo mostro contemporaneo.
Un riuscito B movie tendente al grottesco e non retorico, che se ne sbatte degli attuali movimenti pro-femminismo. Qui non c’è nessuna pietà per le donne, sgraziate e oltre l’orlo della crisi di nervi.
 
Di spessore la prova attoriale di Jonas Dassler. Il suo mostro è impressionante, aiutato anche da un trucco da Oscar. Spodesta il diavolo dal suo trono degli inferi e ci conduce al suo interno. Mondo di prostitute, desideri malati, alcol a fiumi, flatulenze e divampanti fiamme. 
 
The Golden Glove esce completamente dai canoni dei film precedenti del regista. I temi dell’integrazione, emigrazione lasciano spazio agli incubi e alle paure dell’autore. Fatih Akin è nato proprio ad Amburgo. Mettendo in scena l’uomo nero si propone di combattere i propri demoni e lo fa non risparmiandosi. Confeziona un film moralmente discutibile visto il suo atteggiamento scorretto, ma corretto nell’essenza e nei contenuti.
 
David Siena
 

The Miracle of the Sargasso Sea

Giovedì 14 Febbraio 2019 08:14

La cinematografia ellenica giova negli ultimi anni di un buon credito fornito dall’ormai consolidato regista Yorgos Lanthimos (The Lobster, La Favorita). Ispirati e spinti da questo creativo e scioccante autore, altri registi suoi connazionali tentano, non sempre con i risultati sperati, di sorprendere e stuzzicare il pubblico. E’ il caso di Syllas Tzoumerkas, che confeziona un’opera a tratti molto interessante, ma non pienamente riuscita. Un thriller dai risvolti disturbanti e controversi ambientato ai confini del mondo greco, nelle zone paludose di Missolungi. Città dimenticata da Dio tanto che gli stessi greci etichettano gli abitanti di Missolungi “quelli dell’aldilà”. Zona morta che vide anche la dipartita di George Gordon Byron, conosciuto come Lord Byron. In questo sito sperduto hanno luogo le vicende di The miracle of the Sargasso Sea, thriller perverso che mette a fuoco la vita di due donne, che non hanno avuto un’esistenza ordinaria. Non si veleggia solo all’interno delle soggettività e delle personalità, formatesi dà famiglie disagiate, ma si naviga e si scava anche nelle problematiche sociali e politiche del paese. Tutto questo usando un registro schizofrenico, cupo e a tratti surreale. Non mancano sequenze spaventose, che colpiscono. La tensione emotiva è alta, anche con qualche imperfezione nella sceneggiatura e l’uso eccessivo di simboli. Il viaggio in questo caso è più avvincente della risoluzione. Dove non tutto trova una risposta, vista anche la mole di sotto testi trattati. “Fuggi per la tua vita. Non guardare indietro e non fermarti dentro la valle: fuggi sulle montagne per non essere travolto!” (Genesi 19:17). Questa biblica frase può essere ben accostata alle due protagoniste del film, in fuga dalla loro Sodoma e Gomorra.

The miracle of the Sargasso Sea, inserito nella line up di Panorama al Festival di Berlino 2019, è scritto dal regista Syllas Tzoumerkas assieme a Youla Boudali (che nel film interpreta il personaggio cardine di Rita). Accostabile come climax alla prima serie di True Detective, con un taglio europeo e meno americaneggiante. Sostanzialmente più sporco, ma non per questo declassabile. Una sorta, al contrario, de La notte brava del soldato Jonathan con Clint Eastwood e con temi vicini allo Snowtown di Justin Kurzel.

2008, Grecia peninsulare. Elisabeth (Angeliki Papoulia) svolge con serietà il suo mestiere di investigatrice. Purtroppo è ricattata da terroristi pronti a riservarle una vendetta trasversale se decide di consegnarli alla polizia. Declassata e spedita a Missolungi in veste di capo del distretto, inizia una vita all’insegna dell’alcol e della depressione. Momento della sua vita che si protrae per ben 10 anni. Il suo compagno di bottiglia ed anche amante è Vassilis (Argyris Xafis). Non proprio la persona giusta per auto rivalutarsi. Ma la persona giusta arriva e si chiama Rita (Youla Boudali). Quest’ultima è una donna provata dalla vita, con un passato orribile. Rita lavora in un’azienda che alleva anguille. Malauguratamente il fratello drogato Manolis (Hristos Passalis) la perseguita continuamente. E’ da questo abominevole rapporto che Rita non riesce a ripristinare adeguatamente la sua dignità. Durante un’esibizione canora di Manolis, cantante da quattro soldi, Rita subisce ulteriori diffamazioni davanti a tutto il paese. E rischia di prendere severe botte dagli albanesi locali, che vogliono vendicarsi delle frasi scagliate contro di loro dal fratello, in evidente stato allucinatorio. Il giorno seguente Manolis viene trovato senza vita appeso ad una pianta. Qui entra in gioco Elisabeth, incaricata di far luce sull’accaduto. All’interno di questa macabra dinamica nasce il rapporto di aiuto e ricerca di assoluzione tra Elisabeth e Rita. Dalle ceneri dell’oblio, rinnegando le loro appartenenze e non solo, le due donne istaurano una loro comunità riparatrice, che Dio volendo le farà risorgere fenici.

In conclusione, ricalcando le riflessioni fatte precedentemente, il film di Syllas Tzoumerkas è un’opera sulle occasioni perdute, ma anche sulle possibilità di redenzione che ci offre la vita. Una rinascita al femminile che è legittima e attuale, in tema con i movimenti pro femministi degli ultimi anni. Diretto senza delle regole precise e con uno stile psicologicamente instabile. La macchina da presa è decisamente più potente della scrittura. Ne consegue una scarsa compattezza. Il lungometraggio è sorta di western moderno, nel quale vivono persone strambe e al limite. Nella terra di nessuno, l’esatto posto dove non essere. Essere inteso come “io”, soffocato dalla misoginia e da una cultura troppo arcaica.

David Siena

Light of my life

Martedì 12 Febbraio 2019 08:51

Gli Aerosmith cantavano nella loro bellissima Amazing: “la vita è un’avventura, non una destinazione”. Qui l’avventura ce l’abbiamo, ma possiamo anche affermare che la vita è una destinazione. Sopravvivere, rimanere in vita, portare se stessi e qualcosa dei nostri cari nel futuro, questa è la destinazione di Light of my life.

Un padre (Casey Affleck), che non ha nome, è sdraiato con la giovane figlia Rag all’interno di una tenda. Fuori solo alberi ed i rumori di un silenziosissimo bosco. Le parole, che rompono il silenzio, raccontano di una volpe che mette in salvo l’amata consorte, ma anche molti altri esseri viventi. Ed è il genitore che con dolcezza e convinzione narra la storia alla figlia, dove troviamo diluvi ed arche a completare la biblica novella (sequenza meravigliosa che incarna appieno il senso del film). Il mondo al loro risveglio non è quello solito, una malattia ignota ha sterminato completamente il genere femminile. Il contesto distopico obbliga il padre e la figlia a vivere da eremiti ed a nascondersi perennemente. La ragazzina è camuffata da maschio per la costante paura di subire violenze dettate da un mondo in cui gli uomini ucciderebbero per una donna. Soprattutto ora che Rag lo sta diventando, Affleck ha il suo ben da fare per proteggerla da ogni persona che incontrano, che incarna un possibile pericolo.

Light of my life è un film che ha molto in comune con “I figli degli uomini” di Alfonso Cuaron e con The Road di John Hillcoat, quest’ultimo tratto dal romanzo capolavoro di Cormac McCarthy.

Casey Affleck, al suo debutto dietro la macchina da presa, si focalizza sulla forza dell’amore di un padre verso la figlia. Non in concorso qui alla Berlinale 2019, il film rientra nella line-up della sezione Panorama. Il premio Oscar per Manchester by the Sea scrive, dirige ed interpreta un padre che mette in risalto le proprie paure più profonde, sorretto dalla figlioletta Anna Pniowsky.

Casey Affleck confeziona un survivor movie intimo. Concentra la sua regia sul rapporto padre/figlia. Il regista cesella con cura queste immagini, le smussa, le accarezza, le coccola e così facendo gli dona respiro e profondità. Questi sono i momenti clou del film. Sembrano poveri in un primo momento, ma il contenuto è robusto e vigoroso. La sua è una sceneggiatura disidratata di materialità, da pochi punti di riferimento, decontestualizza e così facendo il climax è di paura perpetua. Il film ti tiene sempre lì, sull’attenti.

Light of my life pone la sua lente d’ingrandimento sull’umanità e sui suoi istinti, ma anche sulla disperazione, sugli affanni ed infine sulla speranza. Il film guarda verso la società contemporanea, che non sa bene come sarà il proprio futuro. Incertezza uguale a debolezza. Un’umanità senza nessun punto di riferimento fa da contraltare alla ricchezza di sentimento tra padre e figlia, dal quale scaturiscono emozioni palpabili e la speranza di un futuro. Assistiamo al ribaltamento dei ruoli, dove la figlia diventa genitore. Una sorta di   angelo salvifico, non solo del padre, ma anche del genere umano.

Il tutto è ambientato nei boschi e in quelle strade di provincia, nessun grattacielo o l’ombra di una società post-moderna, dove la genuinità regna sovrana, o comunque regnava. Incertezza che globalizza tutto il nostro mondo, anche quello più sincero e naturale.  

David Siena

MID90S

Venerdì 15 Febbraio 2019 10:13

La prima cosa che viene in mente pensando ad un film sugli adolescenti ambientato negli anni 90 è: qui ci divertiamo e ci rilassiamo. Possiamo così goderci un’ora e mezza di beata amarcord, condita da bella musica, perché questa certo non mancava negli anni 90. Invece Mids90 ci porta nel cuore di quegli anni e nelle caotiche vie della formazione di un tredicenne di nome Stevie (Sunny Suljic). Il debuttante alla regia Johan Hill (per intenderci è l’amico di abbuffate di Leo di Caprio in The Wolf of Wall Street) mette in scena un’opera che vuole essere un’elaborazione sentita di quella decade, usando il genere “coming of age” per spiegarci cosa successe di travolgente e devastante durante gli anni della crisi del capitalismo. Stevie è il suo Virgilio, anima pura che viene a conoscenza della parola violenza, subendola e vedendola ogni giorno. Ci accompagna attraverso un mondo depresso, in perenne difficoltà, dove le famiglie sono allo sfascio e molti giovani perdono la via. Il regista addentrandosi in queste paludi confeziona un film che ci fa vedere tutto questo, però con il pregio di non moralizzare, riuscendo così a donare all’anima del film una sorta di freschezza, che si apprezza per l’intera visione.

Presentato all’ultimo Festival di Toronto, si presenta qui alla Berlinale edizione 69 nella categoria Panorama.

Girato con formato un po’ agée: Rapporto 1,33 :1, ormai non più in uso. Questo era in voga negli anni dell’ambientazione del film. Mids90 rientra in un contesto cinematografico indie come il recente Lady Bird di Greta Gerwig. Johan Hill non ha solo diretto il film, ma lo ha anche scritto. La sua è una spec script (sceneggiatura speculativa), scritta senza una richiesta da parte di una produzione. Questi tipi di sceneggiature vengono introdotte nel mercato cinematografico per poi essere scovate da chi vuol scommettere sul progetto. 

Nella sua casa di Los Angeles Stevie vive con la madre Dabney (Katherine Waterston) e con il fratello Ian (Lucas Hedges, Manchester by the Sea). La sua vita di famiglia è turbolenta, manca equilibrio ed il fratello, piuttosto che essere affettuoso ed accomodante, è manesco e prepotente. L’estate è la stagione per fare nuove amicizie e Stevie si avvicina ad un gruppo di ragazzi amanti dello skateboard. Il luogo di ritrovo è proprio un negozio di skates, dove il tredicenne prova i primi vizi della vita: bere birra e fumare. I suoi nuovi amici sono più grandi lui e in questa comunità Stevie viene accettato dopo prove coraggiose, ma altrettanto pericolose. Impara ad andare con lo skate e non solo, si fa forte con i suoi nuovi compagni, scopre le femmine e giova della sincerità che vige nel gruppo. Ragazzi strampalati, ma trasparenti. Ecco che Stevie inizia a crescere. Nel bene o nel male la sua vita ha inizio, una lunga corsa verso l’accettazione di se stessi, alla ricerca del proprio posto nel mondo.

Il film di Johan Hill non è proprio una novità, ma ha il pregio di essere godibile. La regia ci regala qualche bel piano sequenza (i ragazzi con lo skate che vengono contro la telecamera percorrendo una strada con le macchine che gli passano sui fianchi). La metafora con la vita è evidente. I dialoghi non sono banali. Cospicuo uso dello slang, classico dei film girati negli anni 90. I cambiamenti del giovane Stevie li troviamo nel quotidiano: nelle minuzie e nelle sue piccole grandi imprese. Da qui prende il via l’identificazione di se stessi, passando da un dolore forse necessario, ma non per forza distruttivo, contro il quale combatte ogni giorno. Il giovane non ha molte coperte di Linus da portare con se. Solo nell’essere accettato dalla sua nuova compagnia trova la forza per sbocciare, errando parecchio.

Mids90 si fa forte di un linguaggio che non omette le bruttezze, diventando così un prodotto anni 90 a tutto tondo. In quegli anni il cinema cambiò prospettive. Il mondo viene spogliato e si decide di portare sul grande schermo la vita per quella che è. Un cinema che mette in mostra la violenza in società, ma anche tra le mura domestiche. Le paure contemporanee trovano il loro spazio sulla celluloide, che di lì a poco farà il grande salto al digitale. Una sorta di testamento sincero del millennio precedente. Droghe, sessualità esplicita, disturbi mentali, politica corrotta, stress e gioventù bruciata sono i temi cardine del cinema “made in 90s”.

David Siena

The Operative

Giovedì 14 Febbraio 2019 07:19

Diciamolo senza filtri: quando ci si trova davanti ad una spy-story ci si aspettano diverse cose. Una su tutte l’azione, quella alla Mission Impossible per intenderci. Oppure una ragnatela di intrighi ben congeniata, che sublima con il colpo di scena finale; qui siamo dalle parti di John Le Carré. L’importante, qualsiasi siano le intenzioni della sceneggiatura, è che non deve mai mancare la giusta dose di suspense. The Operative purtroppo non sorregge nessuna di queste peculiarità. Nel cercare di umanizzare al massimo la figura della spia, il regista Yuval Adler (praticamente all’esordio con il cinema che conta, prima solo poche opere home made) perde un po’ la bussola e si ritrova dentro un ibrido spy-noir, dove i tempi di narrazione risultano sbagliati e la stessa si sfilaccia troppo spesso. La confezione finale è poco invitante. Se dal cast ci si poteva esaltare, Diane Kruger (Oltre la Notte) e Martin Freeman (Lo Hobbit) sono attori con la “A” maiuscola, a conti fatti anche loro si perdono nella regia del film: scialba ed anestetizzante. La Kruger ci prova a donare alla sua protagonista quelle forze e fragilità che dovrebbero contraddistinguere il suo personaggio di spia, riuscendoci solo in parte. Freeman rimane inghiottito dal suo ruolo, decisamente non adatto all’attore britannico.

The Operative è una delle proiezioni speciali della Berlinale 69. Il film scritto e diretto dall’israeliano Yuval Adler è fuori concorso. Il lungometraggio è tratto dal recente romanzo di Yiftach Reicher Atir, ex agente del Mossad. Il libro ha soli 3 anni ed è anche il momento storico che vede Rachel (Diane Kruger) entrare a far parte del Mossad. Diventa così una pedina indispensabile in Iran. Il suo scopo è quello di boicottare l’avanzata verso il nucleare degli islamici più estremisti. La sua copertura consiste nell’essere un’esperta insegnante di inglese. Ma una volta recatasi a Londra per il funerale del padre Rachel scompare. Il suo maestro di intelligence Thomas (Martin Freeman) è l’ultima persona che l’ha sentita per telefono. Il teatro degli intrighi ora si sposta in Germania, luogo dove è più semplice per Thomas proteggere Rachel. Qui la donna riesce a portare avanti le proprie operazioni richieste dall’alto.

Come già ampiamente accennato nell’introduzione della recensione The Operative è un film spento, che cerca un’originalità, ma non la trova, anzi sembra di trovarsi davanti ad una pellicola estremamente vintage. La regia è caotica; troppo rimane sepolto tra gli intrecciati meccanismi dello spionaggio e il regista non riesce nel compito di rendere interessante la quotidianità delle spie. Pedine di una scacchiera impolverata, fuori dalle loro posizioni e quindi impossibilitate a fare scacco matto.

The Operative manca di compattezza e questo probabilmente è il vero limite del film. Si cerca una nuova versione della spy-story senza però sapere bene come muoversi. In questo campo minato si va troppe volte sulle mine. I colpi di scena non consentono esternazioni onomatopeiche degne del genere. Il puntare tutto sull’aspetto umano forse avrebbe trovato più senso in una serie tv, dove i verticalismi dei personaggi possono portare vie delle intere puntate, per poi chiudere con il giusto pathos.  

David Siena

Hellhole

Sabato 16 Febbraio 2019 12:43

Bruxelles, 2016. Lì per lì ci viene subito da pensare all’Unione europea e, visto anche quello che sta succedendo in questi periodi, alle aspre critiche verso l’Italia e alla sua politica economica. In Europa siamo considerati Hellhole, o poco ci manca. Ma l’oggetto del contendere in questa pellicola è un altro. E’ il terrore che hanno provocato gli attentati terroristici nella capitale belga nel 2016. Il titolo del film deriva da un’esternazione fatta dal presidente americano Trump, che ha etichettato Bruxelles come una città infernale. Il film scritto e diretto da Bas Devos (belga di nascita) è un emblematico affresco della situazione psicologica della città. Raccontare storie di persone che annaspano come medicamento agli accadimenti di panico e terrore. Hellhole è un opera che si prefigge di suggestionare; un film acre e malinconico. Non per forza necessario, ma nel suo intento efficacie. Il regista mette in scena dei quadri rappresentativi di vite scomposte, che impongono riflessione nello spettatore. Molto significativa la prima sequenza del film, dove degli alunni seduti ai loro banchi di scuola descrivono la città come la capitale jihadista d’Europa e che sarebbe meglio bombardarla. Poi una risata scoppia fragorosa, ma è solo un esorcismo. Le parole pronunciate fanno male e paura, il tremore è reale. Ne scaturisce un dolore da infarto, come si può vedere nella scena subito dopo. Ad una fermata della metropolitana un uomo arranca colpito da un forte malore.

Hellhole è presentato alla Berlinale 2019 nella sezione Panorama e racconta, con uno sviluppo narrativo ai minimi termini, tre vite problematiche che trasudano malessere inghiottite dalla città belga, luogo di nessuno.  

Mehdi (Hamza Belarbi) è un ragazzo algerino, che vive una vita anonima tra la sua compagnia giovanile e gli affetti. Alba (Alba Rohrwacher), donna di origine italiana, si trova a Bruxelles nelle vesti di traduttrice al Parlamento Europeo. Wannes (Willy Thomas) è un dottore di provenienza fiamminga sperduto e solo; non trova pace dopo la partenza del figlio per il servizio di leva. Stranieri in una terra che ormai è straniera anche per gli abitanti del posto. La libertà di muoversi come si vuole è soffocata da una situazione globale di paura. Lo straniero è comunque un ospite non ben accetto.

Il regista sa esattamente dove posizionare la macchina da presa, riuscendo a creare l’esatto climax di inquietudine globale (Bruxelles città piegata e percossa), fermandosi su immagini rilevanti in modo contemplativo. Estrapola, con la stessa apatia che provano i personaggi, il loro stato d’animo: cupo e depresso. E il disagio diventa palpabile.

E’ la summa della tendenza del cinema degli untimi 20 anni, dalle torri gemelle in poi. Un punto di vista e di arrivo autorale. Non si mette in scena la violenza oggettiva (nulla a che vedere con in vari “Attacco al potere”), ma quella che ne è scaturita dopo il male subito. Soggettività in panico. Una violenza subita che si protrae psicologicamente su tutti i cittadini. Nessuna bomba o sangue, solo il mutismo sordo dell’anima.

Come già anticipato precedentemente con Hellhole non si grida al miracolo cinematografico. Piccola produzione, che nel suo piccolo porta a casa il risultato, o almeno quello che promette mantiene. Bas Devos entra in una sorta di esistenzialismo. E ora dopo tutti questi eventi dove stiamo andando e cosa dobbiamo fare di noi stessi? Ora che anche la libertà è minata, il registro della nostra vita è fosco e i nostri sforzi sprofondano giù, nel posto più remoto dell’inferno.

David Siena

L'Ufficiale e la Spia

Mercoledì 20 Novembre 2019 10:31

J’accuse di Roman Polański è stato oggetto di una rovente discussione prima dell’inizio della competizione veneziana. Il film del regista polacco, per la presidente di Giuria Lucrecia Martel, non avrebbe dovuto competere nel concorso ufficiale, che assegna i premi della kermesse. Invece, il direttore della Mostra Alberto Barbera, si è schierato a favore dell’artista Polański, non giudicando l’uomo, sul quale pende ancora un’accusa di molestie sessuali. Sta di fatto che l’opera presentata al Lido aveva tutte le carte in tavola per ricevere un premio, e questo gli è stato assegnato: il Leone d’Argento – Gran Premio della Giuria. Lucrecia Martel sperava che il regista avesse girato un altro “Pirati” (1986) o un’altra “Nona Porta” (1999); in questo caso non avrebbe avuto problemi a escluderlo dal palmares. Invece, obbligata o meno, ha dovuto far dietrofront e dare un Leone di prestigio al film. Comunque, a parte la polemica, J’accuse è un film interessante, sicuramente non qualcosa di indimenticabile, ma una spy-story confezionata con precisione e con una messa in scena impeccabile.

L’ufficiale e la spia, titolo italiano, tratta del caso Dreyfus, capitano in forza all’esercito francese. Reo di aver passato informazioni strategiche ai nemici tedeschi. Ma la sua colpevolezza è solo una questione di razza, essendo il soldato di origine ebraica. Siamo esattamente nell’anno 1894 quando delle lettere compromettenti vengono intercettate ed attribuite al povero Dreyfus (Louis Garrel). Tutta l’intelligence francese, compreso il neo capitano Picquart (Jean Dujardin), non hanno dubbi: l’ex capitano deve scontare una pena durissima nella fantomatica Isola del Diavolo. La sua vita deve finire in quella cella sperduta in mezzo all’oceano. Ma Picquart scopre i magheggi politici, che hanno portato all’ingiusta carcerazione di Dreyfus. Eticamente corretto il capitano intraprende una battaglia lunga 12 anni (Dreyfus verrà prosciolto solo nel 1906), che lo porterà a scoprire la verità. In questo viaggio anch’egli troverà grandi ostacoli,che influenzeranno negativamente la sua esistenza. Ma quando entra in gioco il famoso scrittore democratico Emile Zola (François Damiens), con la sua lettera indirizzata al Presidente della Repubblica, scritto focoso che riprende per l’appunto il titolo del film “J’accuse”, l’opinione pubblica vacilla e con essa anche le più alte cariche istituzionali. Dapprima tutto sembra un fuoco di paglia, ma con l’andare degli anni le prove di colpevolezza di Dreyfus cadono come il più instabile dei castelli di carte.

Polański si affida ancora una volta al fidato amico e scrittore Robert Harris, autore del romanzo storico (2013), che ha come protagonista il malcapitato Dreyfus. I due avevano già scritto insieme la sceneggiatura di “L’uomo nell’ombra” nel 2010. Il film qui a Venezia ha ricevuto anche il premio Fipresci dalla federazione internazionale della stampa cinematografica.

Nel trafiletto pubblicato su Facebook, subito dopo la visione del film, abbiamo affermato che J’accuse è un film legato indissolubilmente al suo autore: un opera estremamente autoreferenziale. E’ anche vero che nel cinema di Polański poco non è autoreferenziale, ma non abbiamo potuto esimerci di costatarlo per l’ennesima volta. Qui il legame con il suo protagonista ghettizzato è veramente forte ed ancora ferocemente attuale. E anche qui come in passato troviamo tutte le sue ossessioni. La paura di essere costretto a rimanere in un luogo chiuso: la prigione sull’isola del Diavolo né è la testimonianza. Il timore profondo per l’acqua, che circonda irrimediabilmente la prigionia di Dreyfus. L’uomo Polański è così un’isola, tagliato fuori dal mondo. E’ uomo sotto costante accusa.

Ritroviamo nell’Ufficiale e la Spia anche quel senso spiccato per la chiusura degli avvenimenti presentati, che sublima con il ritorno alla libertà di Dreyfus. E non possiamo dimenticare certe scene prettamente teatrali, fotografate con spessore da Paweł Edelman. Le inquadrature sembrano quadri con un focus chiaro e pulito all’interno di stanze buie, colme di corruzione. La luce è la protagonista per poter fare la giusta chiarezza sugli avvenimenti.

Dal punto di vista registico c’è poco da dire, nel senso positivo del termine. La direzione è formale, compatta, meticolosa e un filo didascalica. Ed l’unico inciampo da parte del regista, che realizza un film tecnicamente perfetto, ma forse poco empatizzante per il pubblico. La macchina da presa è usata con attenzione nel mettere in risalto la cattiveria. L’energia e l’intensità che viene messa in scena per svilire e denigrare il personaggio pubblico Dreyfus, ma anche l’uomo, è possente (la scena dove gli vengono tolti i gradi in una pubblica piazza né è l’esempio lampante). I tempi sono dilatati. La verità va ricercata con scrupolo e dedizione, nulla va lasciato al caso.

J’accuse è un film contro l’antisemitismo, per un mondo che si dimentica troppo velocemente della storia e dei processi che ha subito. In Italia uscirà il 21 Novembre. Nel suo incedere con l’inchiesta si avvicina ad uno Spotlight del 900.

David Siena

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