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Non e' mai troppo corto

Giovedì 27 Marzo 2014 23:09 Pubblicato in Concorsi
Scadenza Bando: 31 luglio 2014
 
“Non è mai troppo corto” si svolgerà dal 10 al 12 ottobre 2014 a Gravina di Catania. Il concorso è aperto a cortometraggi nazionali e internazionali, inediti oppure editi o anche già selezionati in altri festival. E’ ammesso qualsiasi genere di una durata non può superiore ai 20 minuti.
Il miglior film si aggiudicherà un premio di 500 euro. Le opere potranno essere inviate entro e non oltre il 31 luglio 2014 (farà fede il timbro postale), in formato dvd pal, insieme con la scheda di iscrizione compilata e firmata all’indirizzo: Associazione “Gravina Arte”, Via Del Carabiniere, 1 – 95030 Gravina di Catania (CT).
Il bando completo e la scheda di iscrizione di “Non è mai troppo corto” Festival dei corti underground possono essere scaricati dal sito del comune di Gravina di Catania: www.comune.gravina-di-catania.ct.it.

I fantasmi di San Berillo

Giovedì 27 Marzo 2014 22:07 Pubblicato in Recensioni
Per Edoardo Morabito deve essere stata un’esperienza sorprendente rinvenire, tra i vicoli di San Berillo, quartiere popolare di Catania, le tracce di una storia sotterranea ma visibile che rimanda agli eventi recenti di una Sicilia sospesa tra mito e modernità; una storia di cui quei volti e quei corpi che aveva inizialmente indagato diventano testimoni – o narratori – indiretti, lasciando al quartiere, alle sue pietre e alle sue rovine, l’onore di divenire oggetto principale d’indagine.
Cuore artigiano e popolare della città, San Berillo, situato fra la stazione e il porto, è sempre stato un quartiere-ghetto in cui venivano confinate le marginalità socio-economiche (poveri, prostitute, transessuali, traffichini) entro l’usanza universale di mettere in quarantena gli esseri umani pericolosi di attentare al benessere e all’ordine della classe borghese. Un quartiere virale, malato, dunque, di cui rimane oggi soltanto un frammento – come a custodia di un passato ovunque dimenticato – sovrastato dalla moderna “via delle banche” che ha rimpiazzato il vecchio cuore popolare.
Immagine simbolo dei processi di modernizzazione del secondo dopoguerra, che sradicano un passato con le ruspe di un rinnovamento urbanistico che troppo spesso diventa scempio e annullamento della memoria (tanto da perdere, a tratti, la sua determinazione spazio-temporale per parlare di una storia comune ai tanti quartieri popolari della vecchia Europa), San Berillo è qualcosa di più di un pattern dei fenomeni di trasformazione urbanistica e di gentrificazione dello spazio urbano. San Berillo è il brandello di storia che ricorda l’indimenticabile spazio di concentrazione di tutte le case chiuse della città siciliana e, dopo il ‘58, quartiere a luci rosse fra i più noti del Mediterraneo, in cui si riversavano centinaia di prostitute da tutta Italia. Nel suo animo martoriato San Berillo porta ancora dentro di sé le cicatrici dell’essere stato vittima di due deportazioni: la prima, avvenuta appunto nel 1958, anno in cui la legge Merlin metteva fine alle case di tolleranza, quando il quartiere venne raso al suolo e i suoi trenta mila abitanti trasferiti forzatamente nella Nuova San Berillo; la seconda, nel 2000, quando un blitz delle forze armate mise fine alle attività erotiche del quartiere e gli abitanti furono di nuovo costretti ad abbandonare le loro case per disperdersi nei viali del lungomare.
È in questo rimpallo fra passato e presente, fra un solido bianco e nero e un colore scolorito, fra le immagini pornografiche pre-legge Merlin e i primi piani dei volti e dei corpi demodée delle superstiti, che si rintraccia l’anima di questo lungometraggio. 
Distante sia dal cinema d’autore che dalle regole linguistiche del documentario d’osservazione, “I fantasmi di San Berillo” poggia su di una struttura drammaturgica inusuale, frutto del desiderio dell’autore di dare vita ad un soggetto inanimato: “Non ho cercato di raccontare la storia di San Berillo con la linearità di una narrazione logica (perché ogni nostalgia è patetica e ogni presa di posizione un torto alla veridicità degli eventi), ma ho tentato di ascoltare le pietre, le insegne residue delle vecchie attività dismesse da decenni e ancora aggrappate ai cornicioni delle porte spesso murate; ho cercato le storie nei numeri civici senza alcuna corrispondenza, aggrappate a pareti rimaste in piedi solo per metà, seguendo i segni residui della vecchia città e lasciando che si intrecciassero fra loro, come fossero delle eco disperse fra i vicoli”.
La mente va a “Sicilia di sabbia” di Massimiliano Perrotta, al reportage giornalistico di Pasolini (“La lunga strada di sabbia” ) che lo informava, all’intervista ivi contenuta allo scrittore Domenico Trischitta che narrava lo sventramento del quartiere. Ma anche a “Le Città Invisibili” di Italo Calvino (i cui frammenti pervadono il testo filmico), alla poetica di Goliarda Sapienza, il cui fantasma percorre le strade del quartiere con la voce potente e dolente di Donatella Finocchiaro, a Vitaliano Brancati, cantore di avventure erotiche in una Sicilia censurata. Fantasmi di ieri che dialogano in uno scambio muto con i personaggi martoriati di oggi: le pochissime prostitute rimaste che attendono ancora gli sporadici avventori sull’uscio; quegli “esseri mezzo donna e mezzo uomo”, custodi di segreti inconfessabili; Franco, anziano siciliano che rimembra la giovinezza felice vissuta fra i bordelli del quartiere; Vincenzo, abbandonato da moglie e figli, rinchiuso dentro un’esistenza solitaria nel nuovo quartiere del centro storico; Orazio, che si aggira nostalgico tra i muri scrostati scorgendo in ogni pietra la forza del ricordo di un momento intenso che mai più tornerà (“Uno certe volte può sembrare nostalgico, patetico, ma quali cazzi? È la dolcezza della memoria, il sapore di certi ricordi che ti fanno venire veramente un nodo alla gola, ti riportano a quando da bambini scoprivamo i luoghi, la curiosità della vita”).
L’immaterialità del ricordo si scontra con la fotografia realistica di una ferita ancora aperta nel volto della città siciliana, con la materialità di quei giochi politici che hanno pianificato lo smantellamento della vita del quartiere e la correlata costruzione di un abitato per l’accoglienza dei “deportati di San Berillo”: l’ISTICA (Istituto Immobiliare di Catania) e il piano Brusa (dal nome dell’architetto che lo realizzò), appoggiati dalla DC e lautamente finanziati da Stato, Regione, Banca Vaticana, ed altri. Infine la recente riqualificazione dell’area prima affidata alla supervisione architettonica di Massimiliano Fuksas, poi sostituito da Mario Cucinella. Come se i nomi importanti potessero, in qualche modo, restituire il chiacchiericcio e la vitalità di uno spazio ormai perduto, vittima del bigottismo e del progresso, quando invece un altro mondo, un’altra architettura sociale, hanno sostituto le rovine di uno spazio che non c’è più, trasfigurato in una meta-città descritta dalle parole di Goliarda Sapienza: “Le vecchie cartoline non rappresentano questa città com’era, ma un’altra città che per caso aveva lo stesso nome di questa”
Miglior documentario al Torino Film Festival del 2013, “I Fantasmi di San Berillo” ci ricorda quanto è viva la memoria e quanto è forte quel cinéma du réel italiano consacrato da TIR e SACRO GRA.
 
Elisa Fiorucci

EU 2013, L'ultima Frontiera

Giovedì 27 Marzo 2014 21:57 Pubblicato in Recensioni
L’Ultima Frontiera è il primo documentario realizzato all’interno dei Centri di Identificazione ed Espulsione italiani. Con le testimonianze di chi è trattenuto là dentro, concedendosi ad interviste e ai racconti delle loro storie e della loro vita fino ad allora, fino a quando sono stati privati della loro identità e rinchiusi nei C.i.e..
Nei Centri di Identificazione ed Espulsione (C.i.e.), ci finiscono in linea generale i cosiddetti clandestini. I clandestini appena sbarcati dalla loro terra, o gli overstayers, rimasti oltre la scadenza del permesso di soggiorno. Molti hanno vissuto e costruito la loro vita in Italia, parlano la lingua e i dialetti della zona che li ospita, ma per la legge italiana non sono regolari.
I C.i.e., promettono un rimpatrio definitivo agli stranieri che non ottengono regolari permessi di soggiorno in Italia. I tempi di identificazione sono lunghissimi, o nella maggior parte dei casi infiniti, la permanenza può arrivare fino a diciotto mesi. Alcuni vengono rimpatriati, ma molti di loro non vengono riconosciuti dal consolato di provenienza, e come “cittadini di nessuno” sono rispediti in Italia e trattenuti nei C.i.e. . 
Il regista Alessio Genovese, ci mostra la questione vista da ambedue le parti: dal lato della legge e dal lato individuale. 
Ad introdurre al reportage, è una nave proveniente dalla Grecia, che approda al porto di Ancona. Le autorità portuali eseguono i regolari controlli di frontiera, ispezionando chiunque scenda sul molo: passeggeri, veicoli, ed eventuali nascondigli o doppifondi.
Nel dipartimento portuale, si spiegano i processi di controllo dei singoli soggetti visti nell’insieme, ribadendo il fatto che chi non ha i presupposti necessari per l’ingresso nello stato italiano, non può accedere liberamente, perché la legge italiana, inseguito all’accordo di Schengen non lo permette.
La prima visita è al C.i.e. di Ponte Galeria, a Roma. C’è silenzio, desolazione e attesa. Ma anche proteste e risse. Sono queste ultime, ad animare le giornate che sembrano non passare mai. Mani appese alle sbarre, di cortili paragonabili a quelli di un carcere, tra le mura crepate, si nota una svastica incisa e sulle pareti varie scritte tra cui tanti nomi. I loro nomi, dimenticati, e non pronunciati, perché là dentro sono solo dei numeri. Non ci sono camere ma dormitori multipli, alcuni con finestre in alto. Ognuno ha pochissimi effetti personali o nulla, aldilà di qualche indumento. 
Nel C.i.e. di Bari, i corridoi ricordano quelli di un grande ospedale. Su ogni porta di ferro c’è una minuscola finestrella di circa 20 centimetri, più simile ad una fessura, che a porte chiuse è il punto di comunicazione con l’esterno, ovvero con gli operanti del settore, c’è chi chiede l’accendino, chi il caffè, chi urla libertà. Hanno orari di uscita prestabiliti, c’è un sensore sonoro e luminoso, che permette di avvisare per un’urgenza o necessità di acqua e farmaci. 
C.i.e. di Milo, Trapani. I lamenti di un uomo steso a terra disperato, richiedono l’intervento di un infermiere. Qualcun’altro chiede di fare la barba, viene accompagnato in una stanza da un uomo che a parer suo ha una situazione più agiata rispetto agli altri, è nel C.i.e. da quattro mesi, si presta come volontario, fa da tramite tra i clandestini (come lui) e le forze dell’ordine, gli hanno appena prorogato altri 60 giorni di permanenza nel C.i.e., con la promessa che al termine otterrà il visto.
Nei C.i.e., hanno tutti le idee molto chiare. Le stesse. Idee sul sistema italiano e sulla vita dell’uomo. Cioè che a pagare è sempre la povera gente, favorendo l’arricchimento dei più ricchi. Una netta linea separa i ricchi dai poveri, i potenti dai deboli, che sono costretti a vivere in condizioni che violano i diritti umani.
La loro voce chiede la possibilità di rifarsi una vita, di trovare un lavoro onesto, e chiede solo un foglio, quel documento che li tiene in bilico. 
 
Francesca Savoia

In viaggio con Cecilia

Giovedì 27 Marzo 2014 21:50 Pubblicato in Recensioni
Inizialmente concepito come un lavoro biografico su Cecilia Mangini, prima donna a girare documentari nell’Italia del secondo dopoguerra, “Vaggio con Cecilia”, evitando di ripetere un già visto in “Non c’era nessuna signora a quel tavolo” di Barletti e Conte, ha poi virato verso la forma del documentario on the road che racconta la Puglia intrecciando lo sguardo di Cecilia con quello di un’altra regista pugliese, Mariangela Barbanente.
Un secondo spostamento diventa la cifra dell’intero lungometraggio. Quel viaggio riflessivo che doveva percorrere la regione per restituirne i cambiamenti politici, economici, culturali e sociali avvenuti nel tempo lungo di 50 anni (da quella realtà analiticamente raccontata da Cecilia nei suoi 40 cortometraggi a quella dell’estate 2012, momento in cui le due ritornano nella terra d’origine) ha subito, infatti, significativi cambiamenti in corso d’opera. Intrecciando persone e luoghi e lasciandoli parlare liberamente è emerso un ritratto del paese che, se da una parte si presenta in perfetta continuità storica rispetto a quello raccontato da Cecilia (con riferimento ai suoi temi centrali, quelli dell’industrializzazione meridionale, dei cambiamenti socio-culturali relativi per lo più alla nascita di una nuova classe operaia e al ruolo della donna), dall’altra si iscrive entro le regole della ristrutturazione neoliberale di cui il caso Ilva è l’emblema nazionale.
Durante le riprese esplode infatti in tutta la sua virulenza la questione Ilva di Taranto, con l’ordinanza della magistratura che porta all’arresto di Emilio Riva, patron della società, e al riconoscimento della soglia mortale dell’inquinamento prodotto dall’acciaieria. Il sequestro dell’Ilva, il successivo sciopero dei tre sindacati uniti, insieme agli altri eventi dell’estate 2012 hanno rappresentato, pertanto, il roadsign che ha indirizzato gli occhi delle registe, fugando ogni dubbio sul focus d’indagine principale di questo viaggio di ritorno alla terra natia. Tornare, con la telecamera e con la mente, laddove sono stati mossi i primi passi dell’industrializzazione del meridione (con l’Italsider a Taranto e la Monteshell a Brindisi) per rendere conto della trasformazione di quel piccolo miracolo economico in un disastro ambientale, detonatore di problematiche sociali e sanitarie e rivelatore di una serie di fatti correlati: dalla corruzione alle connivenze politiche, dallo sfruttamento dei lavoratori al ruolo di imprenditori-proprietari che lucrano sulla salute dei cittadini.
Oltre all’evidente attenzione al valore cinematografico del film - grazie anche al direttore della fotografia, Roberto Cimatti, e al suo occhio specializzato nell’immagine di paesaggio, che realizza una perfetta simbiosi fra la parola e l’ immagine, fra le incalzanti interviste e le lunghe visioni di Taranto e Brindisi e delle terre che lambiscono le due città – la forza del documentario mi sembra possa rintracciarsi negli appassionati scambi fra Cecilia e gli operai (gli stessi che lei aveva intervistato per il suo “Comizi d’amore 80”), i pescatori, i giovani senza aspettative né sogni, i parenti delle vittime dell’inquinamento prodotto dalle acciaierie. Ma anche nelle incursioni di campo reciproche fra Cecilia e Mariangela che, con sguardo diverso ma complementare, ribadiscono l’urgenza politica di analizzare il reale.  Se Cecilia ha indagato a fondo un’Italia divisa fra boom economico e contraddizioni sociali (avvalendosi dell’aiuto del marito regista Lino del Fra e del gruppo antropologico di Ernesto de Martino) Mariangela ha dato corpo e voce a migranti e braccianti agricole, marginalizzati e invisibilizzati entro il paesaggio postindustriale che fa loro da sfondo (“Sole”, “Ferrhotel”).  Il dialogo fra le due opera un confronto doppio, fra due epoche e due persone che distano più di 40 anni le une dalle altre, annodandosi intorno al grande quesito sul prezzo dell’industrializzazione e sui costi sociali del passaggio alla modernità. L’’inserzione di frammenti dei film della Mangini (da “Essere donne” a “Tommaso”, da “Brindisi 65” a “Monteshell” fino al già citato “Comizi d’amore 80”)  ben incastonati nel racconto, è l’elemento più funzionale a rendere il confronto fra la Puglia – e l’Italia – del secondo dopoguerra e quella attuale, disillusa dalle speranze del riscatto del Mezzogiorno, incapace di proiettarsi nel futuro, impantanata nella corruzione politica, in un mix nefasto di ignoranza e indifferenza, vittima di un fatalismo ignavo che fa dire a Cecilia: “Bisogna imparare a dire di no. Bisogna imparare ad esprimere il dissenso, ad essere francamente contrari a tutto quello che ci succede … e non stancarsi di dirlo”.
Presentato in anteprima al Festival dei popoli lo scorso novembre, “In viaggio con Cecilia” gira ora nelle sale italiane. Nella misura in cui le registe concepiscono il documentario come testardo attaccamento a quell’impegno politico che ci obbliga ad incidere nella realtà, noi spettatori abbiamo la possibilità di riprendere in mano tale diritto/dovere osservando e analizzando quella realtà che giunge fino a noi attraverso l’intermediazione della macchina da presa.
 
Elisa Fiorucci