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Rompicapo a New York

Martedì 17 Giugno 2014 23:37 Pubblicato in Recensioni
L'ormai quarantenne Xavier Rousseau (Romain Duris) si è trasferito da Parigi a New York al seguito dell'ex moglie Wendy (Kelly Reilly) più che altro per seguire i due figli Tom e Mia. La sua vita, se possibile, è ulteriormente complicata dall'amica lesbica Isabelle (Cécile De France), che gli ha chiesto insieme alla compagna Ju (Sandrine Holt) di aiutarle ad avere un figlio. Nel frattempo per ottenere la carta verde Xavier decide di sposarsi in un matrimonio di comodo con la cinese Nancy (Li Jun Li), prodigandosi in mille modi presso l'ufficio immigrazione per convincerli che le sue nozze siano vere. Come se non bastasse, dalla Francia giunge anche Martine (Audrey Tautou), la sua ex fidanzata. Riuscirà il giovane scrittore a portare a termine il suo romanzo ed a far chiarezza nella sua come nelle altrui vite?...
A dodici anni dalla Barcellona de "L'appartamento spagnolo", passando per la San Pietroburgo di "Bambole russe", Xavier Rousseau e il suo alter-ego Romain Duris tornano sugli schermi alle dipendenze del regista Cédric Klapisch, insieme ad altre due “bambole” della compagnia, Cecile De France ed Audrey Tautou. Tralasciando il secondo capitolo, la pellicola del cineasta francese vuole essere una espansione e rielaborazione del film di quasi due lustri prima: come lì Xavier era straniero in terra di Spagna, con i cortocircuiti di un'esperienza quale l'Erasmus, stavolta lo è in quel delle lontane americhe, nientepopodimeno che a New York, con uno stuolo di complicazioni: un'ex-moglie, due figli legittimi insieme ad uno un po' meno ed altre tre donne, delle quali una sua novella sposa per necessità. La ricerca del proprio destino, mentre tenta di buttare giù il nuovo romanzo, viene raccontata da Klapisch col suo stile eclettico e variopinto, messo insieme come i pezzi di un rompicapo, cinese. Se la sua donna ideale sarebbe un mix di Wendy (l'ex-moglie), Isabelle (l'amica lesbica) e Martine (l'ex-fidanzata), come una di loro ha modo di affermare, così il film è un ritratto composito, tra numerosi flashback, e pieno di frizzanti suggestioni. E funzionerebbe pure, se fosse solo il primo film dell'autore francese o se il pubblico lo spettatore con questo. Klapisch invece tende a ripetere il suo modo di fare cinema, senza la benché minima innovazione, volendo così contrabbandare l'immaturità del protagonista, ma rischiando di tradire artisticamente la sua. Quello che vorrebbe letteralmente essere un gioco - il titolo originale, Casse-tête Chinois, si riferisce appunto ad un rompicapo cinese - sotto il peso di quasi due ore di durata finisce però per non reggere, peccando in vacuità e sfiorando l'esercizio di stile, carino ma inutile.
A Klapisch, che tra i primi due episodi nel 2004 ci aveva sorpreso col noir "Autoreverse", l'augurio di ritrovarlo con un prossimo film con idee più brillanti, meno maniera e maggiore coraggio.
 
Paolo Dallimonti
 

#FATTIFORTEFANFULLA

Martedì 17 Giugno 2014 19:58 Pubblicato in News
 
FuoriTraccia si unisce alla campagna di sensibilizzazione nei confronti della chiusura del Forte Fanfulla, storica realtà romana che ci ha ospitato e sostenuto. 
 
Diffondiamo il loro accorato comunicato sperando che voi, che ci seguite, possiate fare altrettanto.
 
Campagna di comunicazione in sostegno del circolo Arci Forte Fanfulla
dal 23 al 30 giugno 2014
 
Il circolo Arci Forte Fanfulla di Roma comunica che sospenderà la propria attività.
Questa decisione deriva da una crescente difficoltà economica causata dall'impossibilità a sostenere gli onerosi costi d'affitto. La storica associazione culturale, nata e radicatasi nel quartiere del Pigneto, è attiva dal 2007 e conta un corpo sociale di quasi 20.000 tesserati. Nel corso di questi anni abbiamo lavorato sul territorio attraverso lo sviluppo di attività aggregative realizzando più di 1000 iniziative annuali (concerti, presentazioni, mostre, proiezioni, spettacoli teatrali, corsi di lingua e servizi di assistenza sociale e fiscale). Abbiamo cercato di mettere in atto una politica fruibile e popolare che, con il tempo, ha contribuito a una riqualificazione del quartiere dal punto di vista sociale e culturale. Questo risultato è stato raggiunto grazie alla partecipazione e all'impegno di tutti i soci che hanno messo a disposizione le loro competenze professionali e artistiche e a tutti gli amici e i collettivi della scena indipendente, italiana e internazionale, che hanno contribuito a rendere quella del Fanfulla un'esperienza straordinaria. Rivendichiamo con orgoglio di aver portato avanti in questi anni un progetto culturale fondato sull'idea di impresa sociale, da noi considerato uno degli strumenti utili per l'auspicato rilancio delle politiche culturali nel nostro paese. Il Fanfulla è una casa comune della sinistra, uno spazio che con fierezza ha ospitato e supportato diversi rappresentanti delle realtà antagoniste romane ma anche del mondo politico e istituzionale, pur nella totale assenza di un riconoscimento e di un sostegno concreto da parte delle istituzioni. La nostra non è una resa ma una resistenza. Perciò invitiamo tutti a sostenere la campagna ‪#‎FATTIFORTEFANFULLA‬, che si svolgerà dal 23 al 30 giugno, una settimana ricca di iniziative all'insegna della musica, del teatro e della creatività.
Chiediamo a tutti di aiutarci a diffondere il più possibile questa comunicazione per organizzare insieme e condividere la nostra esperienza.
Il programma dettagliato delle iniziative verrà diffuso nei prossimi giorni.
Ringraziamo tutti dell'attenzione.
 
Forte Fanfulla
Via Fanfulla da Lodi 5
00176
Roma

Se il mondo intorno crepa

Martedì 17 Giugno 2014 14:29 Pubblicato in Recensioni
In una città fantasma del vecchio west, “sospesa tra la polvere del deserto e i fantasmi del passato” si svolgono le vicende di due efferati fuorilegge, Black Burt (Stefano Jacurti), in arte e al lavoro “il Poeta”, e Butcher Joe (Simone Pieroni) alias “il Macellaio”. I banditi, in fuga verso il Messico, si imbattono in una serie di figure macchiettistiche, involontariamente grottesche e in situazioni prive di continuità drammaturgica. In un ingarbugliato (e un po’ noiosetto) sviluppo narrativo, vediamo come le atrocità compiute in passato dal Poeta/Black Burt lo inducano a ravvedersi. Indignato “dall’assenza di istituzioni” in quelle terre dimenticate pure da Dio, Black Burt fa un esame di coscienza e vende alle autorità locali il suo compare Butcher Joe in nome della legge e di un’improvvisa riscoperta civile, in un finale che puzza un po’ di moralismo spicciolo. 
I registi Stefano Jacurti ed Emiliano Ferrera non nascondono la loro passione morbosa per il cinema western. Nel 2007 realizzano Inferno bianco, western-horror innevato, girato sul Gran Sasso come immaginario Oregon; il film vince il primo premio ACEC al Tentacoli Film Festival, ricevendo, a quanto pare, una lettera di riconoscimento da Pupi Avanti. Durante la conferenza stampa di Se il mondo intorno crepa – If the world dies, Jacurti & Ferrera citano, tra i registi che li hanno maggiormente influenzati, John Ford, Sergio Leone, Sam Peckinpah, ma, guardando anche distrattamente la loro ultima fatica, i due autori/attori dimostrano di aver assorbito quell’estetica/etica western senza veramente capirci un tubo.
Infatti, l’impressione che si ha guardando il film è quella di un gruppo di bamboccioni un po’ cresciuti che giocano a fare i banditi del far west con le pistole di plastica. 
Il film emana dilettantismo da tutti i pori: recitazione scialba, musiche di sottofondo di Klaus Veri che appaiono dal nulla e spariscono nel nulla, un montaggio senza soluzione di continuità che compromette irreparabilmente lo scorrere della narrazione. I due autori realizzano infatti un omaggio approssimativo all’estetica western, curandosi poco dell’etica; i costumi, le unghie sporche e i denti marci dei banditi, il rumore artificioso degli spari, le sconfinate vallate abruzzesi in cui è girato il film (più a east che a west)creano una certa atmosfera, che però non riesce a fare i conti con la vera storia del western (spaghetti, dirty o crepuscolare che sia) e ne rimane solo una riproduzione meramente scimmiottata. Il prodotto finale somiglia piuttosto a uno di quegli sketch della Premiata Ditta, che non fanno ridere nessuno, ambientati nelle diverse epoche storiche (ce ne sarà stato sicuramente uno ambientato nel vecchio west!). 
Il tentativo è quello di una metafora universale del senso di vuoto morale generalizzato che caratterizza la società contemporanea, corrotta fino al midollo, ma il parallelismo risulta debole e a tratti qualunquista. 
Il film purtroppo è carente sia della lucida credibilità di un “prodotto serio e vendibile”, sia del consapevole e goliardico disimpegno di un b-movie. 
Quello che ne esce fuori è un lavoro trascurato e trascurabile, sia nella forma (riciclo approssimativo degli stereotipi di genere) che si decide di dare alla materia in questione, sia nella stessa materia a cui si decide di dare una forma.  
 
Angelo Santini

Bong Joon – ho: il suono di un regista totale.

Lunedì 09 Giugno 2014 11:46 Pubblicato in News
Un focus dedicato all'artefice di una delle variazioni più interessanti nella cinematografia asiatica degli ultimi anni: Bong Joon-ho. Un registro moderno, contemporaneamente lirico e disincantato, che merita di essere approfondito.
 
 
Ancora pochi film alle spalle per poter essere avvicinato ai prolifici mostri sacri del cinema orientale, ma basterebbero i due minuti iniziali di "Memories Of Murder" per spiegarne il motivo per cui Bong Joon-ho è già uno dei registi più talentuosi del panorama mondiale. Un investigatore, alle prese con il rinvenimento di un cadavere, diventa l'oggetto dello scimmiottare di un bambino irriverente che ne imita i gesti e ripete le parole.  Una commistione che sfocia nel grottesco senza snaturare la plausibilità della situazione descritta, e questa è solo una delle tante cifre esemplari di un registro profondamente innovativo. La credibilità e il realismo restano il collante dell'intreccio narrativo anche quando, appunto, sfociano nella comicità e il nonsense tipicamente orientale, congelandoli con leggerezza all'interno della funzionalità della storia e diventandone fattore fondamentale. D'altronde, se così si mescolano generi e sottogeneri, allo stesso modo le atmosfere e i punti di vista dei film di Bong variano improvvisamente, come l'umore e le situazioni della vita quotidiana, in un continuo in cui è ben chiara la morale espressa da Kurosawa in Rashomon. Seguendo lo stesso metro si possono interpretare i personaggi della triste realtà popolare abbandonata a se stessa, che affollano la periferia e le campagne di piccole realtà urbane. Sono gli antieroi senza veri centri di gravità, problematici ed emarginati, succubi di un'ingenuità e un'immaturità ancora infantile. In questo quadro è concepibile tutto un arcobaleno di sensazioni contrastanti, che coinvolgono la morale comune fino a distorcerla in situazioni in cui drammaticità, commozione ma anche ironia e umorismo risultano amplificati. 
 
 
I caratteri narrati sono figli dell'incapacità sistemica di un apparato statale farraginoso, dagli accenti comici e talvolta kafkiani, che lascia al proprio destino questi pariah della società sudcoreana fatalmente coinvolti in eventi macabri e misteriosi: un omicidio occasionale, un killer seriale, un famelico anfibio frutto di mutazioni genetiche. La violenza è sempre un fatto enorme nelle realtà sonnacchiose della Corea del Sud, dove tutti o quasi sono rassegnati alla consapevolezza di una vita sprecata, ma anche questo fardello di fronte al pericolo diventa un valore da difendere. Eppure è solo quando certi fatti non riescono a passare sotto silenzio che assumono un'importanza spaventosa, trasformandosi nel megafono della propaganda statale. L'informazione cavalca le notizie, la polizia le deforma, la magistratura cerca di gettare acqua sulla graticola dove s'adagia quella che ormai è solo lo specchio di una verità mistificata a priori, anche dallo stesso mezzo narrativo che confonde e irretisce lo spettatore come un incantatore di serpenti. Bong scherza con il potere logoro e inefficiente delle sezioni provinciali, che con movenze pachidermiche brancolano impotenti nell'oscurità degli eventi, e parallelamente mostra la miseria di una società proiettata verso la globalizzazione ad occhi bendati. 
 
Sul piano tecnico, la stessa regia sembra risentire della confusione in cui fluttuano tutti, dell'incertezza frenetica di trovare una risposta, per poi ritornare a farsi riflessiva in improvvisi momenti di bonaccia, dove l'ironia si mescola al dolore e alla dolcezza. Ma al realismo grottesco, Bong preferisce non associare anche il realismo tecnico, come ad esempio la cinematografia nordeuropea di 20 anni fa ( Dogma 95 ), e non rinuncia in maniera anacronistica ai vantaggi dell'era digitale. Il suo stile di montaggio e di ripresa sono assimilabili a quello occidentale, e anche per questo l'uso della camera a mano non è una costante ma assume una funzionalità specifica all'interno di ogni pellicola, distaccandosi dalla tecnica di altri grandi registi coreani. L'alternarsi di emozionanti primi piani,

scene fisse perfettamente calibrate e piani sequenza dal virtuosismo eccezionale e mai invadente, riesce a dare la sensazione di girar
e intorno ad una storia, di poter ridere o piangere, inorridire o stupirsi restando immersi in una lunghissima apnea. Ma questa cornice cesellata con la noncuranza studiata di un pittogramma tibetano è solo il mezzo con cui affrontare una storia mai banale, in cui tutti gli attori, anche i minori, gareggiano nel riscrivere in maniera alternativa quelli che sono dei ruoli essenzialmente classici. Basti citare prove interpretative come quelle di Kim Hye-ja in "Mother", di Bar Doo-na in "Barking Dogs Never Bite", o di Kang-ho Song in "The Host" e "Memories Of Murder", ormai diventato l'attore feticcio del regista, tanto da accompagnarlo anche nell'unico passo falso della sua cinematografia, il recentissimo Snowpiercer, che abbiamo già recensito  su Fuoritraccia.
 
E non è casuale che il senso di perfezione tecnica e recitativa rimanga scolpito in memoria per giorni, anche perchè i meccanismi delle storie di Bong si rivelano ingranaggi sparsi di una bomba ad orologeria, che a volte esplode, a volte no, altre volte si trova il modo di dimenticarsene. 
 
Pollo Scatenato