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Frank

Mercoledì 12 Novembre 2014 22:00 Pubblicato in Recensioni
Chi è Frank? La domanda, se la pongono tutti, prima o dopo aver visto il film dell’irlandese Lenny Abrahamson, con Michel Fassbender nel ruolo del titolo. Le  risposte sono molteplici, Frank è un uomo tra i “trenta e i cinquanta” che indossa sempre una maschera di cartapesta, con dipinto sopra un enorme faccione sorridente. Senza una spiegazione logica, egli deve sempre descrivere la sua reale espressione a parole, non separandosene mai  quando dorme, mangia o quando fa la doccia. Frank è una persona creativa, capace di far passare il malumore agli sconosciuti, ispirare il genio di molti, schiacciare involontariamente l’autostima di altri creativi, perché è unico. Frank è soprattutto il leader di un gruppo musicale sgangherato, gli Soronprfbs, nome impronunciabile persino per gli stessi componenti; così lo conosce Jon (Domhnall Gleeson) , il tastierista “pel di carota”, che in prima persona racconta agli spettatori cosa significa lavorare e vivere con Frank. Lo fa inizialmente attraverso un incosciente entusiasmo, racconta le sue emozioni come fossero scritte su un diario segreto giorno per giorno,  attraverso twitter (vediamo comparire i suoi “cinguettii” agli angoli dello schermo), ignaro di come e dove lo stia trascinando questa avventura fuori dal comune tra una baita isolata nei boschi e la convinzione di incidere un cd inascoltabile. Gli altri membri della band sono altrettanto incoscienti, tra loro c’è Clara (Maggie Gyllenhaal), una cantante lirica mancata, innamorata di Frank al punto da buttare la sua vita, dietro ad un sogno irrealizzabile. Clara è piena di contraddizioni, all’apparenza è tutto meno che romantica, irascibile folle, dura di cuore, fa di tutto per ostacolare il successo del povero Jon, invidiosa della sua prematura amicizia con il leader del gruppo. Frank non è solo un “mascherone”, in lui si cela un uomo complicato, insicuro, fragile e, allo stesso tempo, un invidiabile talento che trova i testi delle sue canzoni in tutto ciò che osserva, come un bambino, trae ispirazione persino da un pelino di lana fuori posto nella trama di una poltrona. Delizioso spaccato di realtà alienante, la pellicola è tutto meno che una commedia leggera, come può suggerire la locandina: è la storia di una vita fuori dal comune, con tutti i pro e i contro che questo può comportare, come se al mondo non ci fosse più  posto per l’originalità o per chi sceglie di apparire come meglio crede,vivendo una vita totalmente fuori dagli schemi della società. Ci si chiede ancora: Frank è un pesce fuor d’acqua o è il mondo che ancora non è pronto per lui? 
 
Francesca Tulli
 

Dracula Untold

Mercoledì 29 Ottobre 2014 21:56 Pubblicato in Recensioni
Dracula, basta questo nome ad invocare una figura ben distinta nell’immaginario collettivo. Prima del celebre film di Francis Ford Coppola, trasposizione del romanzo di Bram Stoker, erano pochi al cinema i Dracula fascinosi. Nel suo film Gary Oldman, con il cappello a cilindro e gli occhiali fumé, trasformò il conte da orrendo Nosferatu a sex symbol circondato di donne bellissime e capace di provare grandi amori. Non a caso il qui protagonista gallese Luke Evans (famoso ai più dopo aver interpretato Bard in “Lo Hobbit la Desolazione di Smaug” ) è bello, viene dal teatro, ha un nutrito successo tra le fan e, nota curiosa, ha davvero i canini appuntiti. Conosciuto da tutti come il vampiro più famoso nella storia dell’umanità, il principe Vald III di Valacchia è invece ricordato in Transilvania, come un eroe, infaustamente etichettato come un mostro dalla cultura generale. In questo esperimento di Gary Shore, un regista emergente alla prima esperienza, il protagonista è proprio questo, un paladino della giustizia, un padre di famiglia, un marito devoto, costretto dagli eventi a impalare i nemici sul campo di battaglia e a portare la maledizione che lo renderà celebre. Senza lato oscuro nel cuore, con una blanda sete di sangue, una super vista, super forza, super udito, il patto con un vampiro più oscuro (Charles Dance) lo rende invincibile, ma non convince lo spettatore. La pellicola è uno spreco di bravi attori, costumi mostruosamente dettagliati, set giganteschi, e sarebbe anche godibile se le battaglie non fossero ridicole quanto l’acconciatura moderna e improbabile dell’antagonista, il generale turco Mehmed (Dominic Cooper), che sembra uscita da una discoteca anni Novanta. La sceneggiatura è forse la pecca più grande di questo film, insensata, fastidiosa, retorica, certi espedienti sembrano immotivati ed altri sono prevedibili. La produzione è della Legendary Pictures, che lavora a tempo pieno con maestri del fantasy del calibro di Guillermo Del Toro. Si può perdonare la fiducia data ad un regista emergente, il coraggio di costruire un blockbuster all'ombra di colossal che, anche solo considerando gli investimenti delle major, dovrebbero essere perfetti (Diseny, Marvel ecc…), ma le buone intenzioni non bastano a salvare questo titolo dall’etichetta di “guilty pleasure”, ovvero di film gradevole e senza pretese da guardare in compagnia di amici, con  una scorta di pop corn. 
 
Francesca Tulli
 

Tutto puo' cambiare

Mercoledì 29 Ottobre 2014 21:19 Pubblicato in Recensioni
Andare a vedere il nuovo film di John Carney senza sentirsi ancora reduci di Once è impensabile.
Questo implica tutta una serie di aspettative che non hanno a che vedere solo con il coraggioso esperimento che Carney ci aveva proposto anni fa o con l'oscar alla colonna sonora per Falling Slowly.
L'aspettativa è legata piuttosto alla consapevolezza che nel 2006 l'autore si affacciava con una curiosa, delicata poetica sui generis.
Once infatti non è un film con uno straordinario soundtrack, è piuttosto un soundtrack accompagnato da uno straordinario film. 
Ed è rassicurante poter affermare che non si è trattato di un caso a sé, perché Begin again replica e  rafforza la maniera dell'autore.
Carney non riesce a vendere l'anima al diavolo neppure scendendo a compromessi: il salto (di qualità, questo è fuori discussione) da un cast di principianti ad un cast nazional-popolare che va da Keira Knightley a Mark Ruffalo fino al leader dei Maroon 5, è un cambiamento che ha incoraggiato i fanatici del cinema indipendente ad arricciare il naso.
Eppure chi si aspettava un caso di prostituzione autoriale rimarrà deluso, perché il regista non cede alle lusinghe di storyline scontate o triangoli amorosi e trova piuttosto il giusto equilibrio tra qualità e consenso.
 
Ruffalo conferma la sua naturale predisposizione alla commedia romantica e riesce a sfumare al massimo un personaggio tutto alcol e mentine, che rischiava di essere monocromatico. Specialmente a lui la sceneggiatura riserva alcune battute degne di nota, ed è proabilmente questa comicità intelligente la sorpresa più inaspettata del film.
La rockstar dei Maroon 5, che si presentava come la più peccaminosa tra le scelte del regista e rischiava di minare la credibilità del cast, dimostra di essere tutt'altro che fuori posto. Probabilmente "Lost stars" non sarebbe la stessa canzone senza i falsetti di Levine - che emancipandosi dal pop sembrano trovare una dimensione più dignitosa.
Soprattutto nessun'altra avrebbe potuto interpretare Greta. Delluc parlava di immagini che superano la soglia del film, di una bellezza propria del soggetto che quando viene colta dalla macchina da presa restituisce "la verità naturale" delle cose, e per una ragione inafferrabile la Kinghtley, ripresa da una camera a mano in una scena d'interni, è in grado di restituire perfino l'odore del divano di pelle su cui è distesa. Gran parte del fascino oscuro di questa pellicola dipende da una fitta tessitura di frasi non dette, sguardi sospesi e aspettative deluse. Carney rinuncia ad ogni complicazione drammaturgica e privilegia la delicatezza e gli attimi-evento, spostando il tutto su un piano sensoriale. Quando Greta respira a pieni polmoni e osserva che "questo momento è una perla" ci si sente quasi chiamati in causa. Perché sfidando i confini dello schermo, il sorriso sfacciato della Knightley è una promessa d'intimità violata, di scene che sembrerà di spiare dal buco della serratura. Non è un caso che si avverta una continuità ideale con un film della portata di Last night (Massy Tadjedin, 2010) per le atmosfere domestiche, per la cura dei dettagli, per i legami raccontati senza eccessi.
New York è messa a tacere e cambia ritmo in base a quello della playlist che i protagonisti ascoltano passeggiando tra le sue vie. Grazie al progetto di incidere un album in presa diretta girando per la città, le atmosfere della Mela vengono finalmente catturate senza esaltazione o stereotipi.
L'esigenza di Carney era innanzitutto quella di raccontare cosa succede ad una coppia di musicisti con un progetto comune quando solo uno dei due inizia ad avere successo e si allontana dall'altro. Da lì in poi, la sfida più grande che il regista-sceneggiatore vince anche stavolta: rendere un rapporto che non sia né amicizia né amore, ma la famosa perla, immune da ogni definizione obbligata.
Quello di Carney, musicista di nascita e regista d'adozione, è un progetto musicale che trova nel cinema il suo compimento più autentico.
Sceneggiato come fosse orchestrato, Begin Again inizia in punta di piedi con la timidezza di un motivetto per poi eccedere in un trionfo d'archi. 
Con una scrittura singolare Carney sostituisce la strofa al dialogo: attraverso il soundtack i suoi personaggi comunicano, si confessano, si perdono e si ritrovano, consacrando quindi una nuova formula del film cantato.
Carney supera il musical e strizza l'occhio al videoclip, operando un grandioso montaggio audiovisivo in chiave poetica. 
 
Chiara Del Zanno

Ritratti Abusivi

Mercoledì 29 Ottobre 2014 20:53 Pubblicato in Recensioni
Il villaggio Coppola, noto anche con il nome di Pinetamare, è una frazione di Castel Volturno in provincia di Caserta. L’enorme complesso abitativo venne costruito negli anni ’60 con l’obiettivo di valorizzare per fini turistici la bellissima area, a due passi dal mare. Parco Saraceno costituisce solo uno dei quartieri di Pinetamare; una ventina di palazzi in stato di abbandono da più di vent’anni, occupati abusivamente perlopiù da disoccupati e piccoli pregiudicati. 
 
Il regista Romano Montesarchio racconta la trasformazione di Parco Saraceno, da prodotto del boom economico e dello sfavillante sogno americano a città fantasma dimenticata dalle istituzioni, senza però soffermarsi troppo sui moventi sociali e politici che ne hanno decretato la degenerazione. 
Il suo approccio con gli abitanti di Parco Saraceno è distaccato; riprende sempre i personaggi con una certa distanza, evitando di soffermarsi sull'aspetto di illegalità che emerge a sprazzi dai vari racconti, privilegiando il lato umano della vicenda.
 
La denuncia, esclusa intenzionalmente dall’autore, lascia spazio agli sproloqui. A volte un po' troppo qualunquisti, degli abitanti del posto. D’altro canto, l’indagine puramente antropologica, su cui il regista sembra concentrarsi maggiormente, sfocia spesso e volentieri nel dilettantismo. 
A Montesarchio manca infatti quel “cine-occhio” in grado di documentare gli aspetti apparentemente marginali nella quotidianità dei protagonisti e di fruirli coerentemente. Anche quando ci prova, lo spettatore cade sempre di più in un vortice inesorabile di noia, noia fine a se stessa.  
In assenza di tutte queste intenzioni autorali, 
la telecamera non sta mai veramente dentro ciò che accade, come Montesarchio vorrebbe farci credere, ma diventa una cassa di risonanza per amplificare l’imperante narcisismo dei soggetti filmati. 
Quel “fattore umano” di cui parla il regista si riduce a una galleria frammentaria di personaggi estraniati dalla società comune, che si appropria abusivamente del mezzo di ripresa a proprio piacimento. 
Alcuni si atteggiano, altri si autocommiserano. 
Parlano con lo sguardo rivolto in camera, parlano troppo. 
È proprio questo uno dei veri problemi di Ritratti abusivi, si parla troppo e si mostra poco, sacrificando quello che dovrebbe essere il vero protagonista, ovvero l’ambientazione desolata e straniante di Parco Saraceno.  
Il film, con la sua verve omertosa e reazionaria, è un’offesa a quei movimenti che, negli ultimi anni, di lotte per arginare l’emergenza abitativa ne hanno intraprese sul serio. 
Eppure i primi minuti lasciano presagire un’opera promettente, con il montaggio contrappuntistico che sovrappone l’entusiastica voice over dei filmati di repertorio  alle immagini attuali degli edifici diroccati. 
Ma la luce dell’interesse tende a smorzarsi presto.
A produrre è Rai Cinema, in collaborazione con Figli del Bronx di Gaetano Di Vaio, produttore dalla lunga e vivace ex carriera criminale e interprete di Take Five (Guido Lombardi, 2013). 
Ritratti abusivi è stato presentato nel 2013 al Festival internazionale del Film di Roma (Prospettive Doc Italia), che di questi tempi non è proprio un sinonimo di qualità. 
 
Angelo Santini