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La Buca

Venerdì 28 Novembre 2014 15:00 Pubblicato in Recensioni
Armando (Rocco Papaleo) è appena uscito di prigione dopo aver scontato 27 anni per omicidio e rapina a mano armata. Oscar (Sergio Castellitto) è un avvocato misantropo e truffaldino, che vive facendo la cresta sulle pensioni dei suoi assistiti finti invalidi. 
In un giorno di pioggia, le loro strade si incrociano nel bar gestito da Carmen (Valeria Bruni Tedeschi). Quando Armando racconta a Oscar di essersi preso la colpa per un crimine che non ha mai commesso, l’avvocato capisce subito di aver incontrato una gallina dalle uova d’oro; il suo piano, infatti, consiste nel far riaprire il caso di Armando, dimostrare la sua innocenza e fargli ottenere il massimo del risarcimento per gli anni passati in carcere, solo per pretendere da lui una cospicua percentuale. 
 
Il regista Daniele Ciprì, al secondo lungometraggio senza la collaborazione di Franco Maresco, mette in scena il suo personale omaggio alla Hollywood classica, fra gli sfondi artificiosi degli storici studi di Cinecittà. Quella Hollywood di cui ne aveva descritto l’altra faccia siciliana in Il ritorno di Cagliostro (Ciprì e Maresco, 2003).
“Mi sono sporcato le mani con il cinema che amo” dichiara Ciprì. I riferimenti al cinema americano, infatti, sono molteplici e apertamente dichiarati: dalle commedie di Billy Wilder a Orson Welles, “ma anche un po' di Woody Allen, senza lasciarsi mancare Chi ha incastrato Roger Rabbit, con una Valeria Bruni Tedeschi che ricorda la Dolores del famoso film animato”.
Papaleo e Castellitto ricalcano fin da subito i meccanismi della strana coppia Lemon-Mattauh; il primo è un inadeguato, timoroso di non essere mai all’altezza della situazione, mentre il secondo è il cinico programmatore di quello che dovrà fare la coppia. 
Ognuno dei due,a suo modo, rappresenta la figura del perdente, che si arrangia come può per conquistarsi un posto nel mondo, come gli sventurati fratelli La Marca de Il ritorno di Cagliostro. 
Armando, bollato come assassino e ripudiato dalla famiglia, non ha un lavoro né una casa dove stare e viene ospitato svogliatamente da Oscar. Da questa convivenza forzata e dal carattere contrapposto dei due nascono una girandola di trovate tipiche del buddy movie.
 
Mentre Franco Maresco (recentemente al cinema con Belluscone) è rimasto più o meno fedele allo stile che caratterizzò la loro collaborazione dai tempi della Cinico Tv, Ciprì si emancipa radicalmente da quella ricercatezza estetica, in favore di un’atmosfera più favolistica. Scompaiono i paesaggi desolati della loro Sicilia post-apocalittica e i “poveri cristi” grotteschi e blasfemi del cult Totò che vise due volte. Ma scompare anche la ferocia di È stato il figlio con Toni Servillo, primo lungometraggio di Ciprì senza la spalla Maresco. In poche parole, scompare quella voglia di scandalizzare, di Pasoliniana memoria, che ha sempre caratterizzato le opere più interessanti del regista palerminato. 
Quello rappresentato in La buca è sì un mondo grigio di nepotismo e prevaricazione, ma anche un luogo estemporaneo fatto di cameriere dagli occhi dolci e di burberi dal cuore d’oro, in cui la redenzione, in un modo o nell’altro, è qualcosa di possibile per tutti. 
Se Wilder incarnava nei personaggi femminili delle sue commedie le caratteristiche etniche, culturali e sociali dell’America di quegli anni, Ciprì usa l’innocenza e  il candore  di Carmen/Bruni Tedeschi per rappresentare proprio quella speranza di redenzione per entrambi i protagonisti, attraverso l’intramontabile figura della donna salvifica. Carmen, infatti, ha avuto un flirt con Oscar in passato, ma si sente attratta anche da Armando. 
Il racconto stesso e i suoi toni farseschi diventano un mezzo di evasione dal grigiore del mondo reale e dalla ferocia dilaniante tipica della precedente filmografia del regista.
 
La Buca non è certo un film condannabile, a parte per le grossolane animazioni nei titoli di testa. 
Ma un omaggio al cinema classico era veramente necessario? La domanda sorge quasi spontanea, proprio perché a realizzarlo è uno come Ciprì, che ha rotto gli schemi dell’imperante povertà linguistica del cinema italiano degli anni ‘90, proponendo film diametralmente opposti alla “norma”, sia per la messa in scena che per i concetti espressi. 
La deviazione di Ciprì denota la scomparsa degli stimoli che animavano le sue superbe capacità di sperimentazione, in favore di un revival nostalgico dell’ottimismo alla Frank Capra e, in parte, della scanzonatezza della commedia all’italiana. 
Tuttavia, fare un processo all’evoluzione mancata di Ciprì è del tutto sterile. I film che tende a omaggiare nella sua ultima opera, paradossalmente, rappresentano proprio quella stessa “norma”, che ha caratterizzato la storia del cinema, almeno fino all’avvento dello stile moderno, all’alba degli anni ’60, ma il regista, dal canto suo, ne arricchisce l’evocazione di preziosismi stilistici, tipici di un cinema cronologicamente posteriore: dai fluidi movimenti di steadycam ai frequenti cambi di fuoco.
 
Un approccio personale al cinema classico, da Lubitsch a Dino Risi. Godibile, ma non all’altezza del Ciprì che abbiamo imparato ad apprezzare. 
 
Angelo Santini
 

Altman

Lunedì 24 Novembre 2014 17:00 Pubblicato in Recensioni
Altmaniano. "Giocare il colpo grosso" (Sally Kellerman); "Aspettarsi l'inaspettato" (Robin Williams); "Decidere le proprie regole" (James Caan); "Quanto siamo vulnerabili" (Julianne Moore"). Altmaniano, soprattutto, secondo Keith Carradine è la capacità di "far vedere agli americani chi siamo". E in questa ordinaria carrellata di definizioni, utilizzate a mo' di dissolvenze per legare i vari capitoli della carriera di Robert Altman, di fronte alla risposta di Carradine c'è da alzare le mani  e fermarsi un momento a riflettere.
Tra una buona dose di leziosa retorica - che brav'uomo Bob, che gran padre di famiglia anche se non c'era mai - ed un pizzico di autocompiacimento da parte dello stesso protagonista nelle interviste, il documentario riesce a creare un curioso spunto di riflessione: perché non ci sono dei Fellini o dei Bergman americani? C'è da chiedersi quanta verità nasconda una domanda come questa e quanto si possa essere oggettivi nel rispondersi. 
Mann ricostruisce la storia di Altman uomo ed artista lasciando l'originalità fuori dalla lista dei buoni propositi ed adagiandosi su un'elencazione semplicistica. Sfrutta infatti una coralità fittizia che si accontenta di dar voce a qualche familiare e raggruppare un po' della buona Hollywood davanti ad un fondale nero, nel commosso ma incerto tentativo di definire un aggettivo: altmaniano. Quella che avrebbe potuto essere una ricerca trainata da un coraggioso punto di vista, è più vicina ad un progetto che non riesce a scavare sotto la superificie del luogo comune; un omaggio troppo enciclopedico alla memoria di Altman, che gira attorno alla tanto agognata definizione di "altmaniano" senza mai afferrarla davvero eccetto, forse inconsapevolmente, che nello sguardo dello stesso Altman malizioso ed allusivo, a tratti saccente, indubbiamente sarcastico e provocatorio. 
Difficile dire se sia stato Altman a "fare il culo ad Hollywood" (Bruce Willis) o se siano stati gli studios a farlo uscire a testa bassa dell'eterno scontro - a conti fatti, tralasciando la prevedibile pacca sulla spalla dell'Oscar alla carriera. A giudicare dal materiale presentato nel documentario, il distacco sfacciato degli anni in fiore cede il passo, negli anni della vecchiaia, ad un alone di tristezza. Altman si butta nel teatro, sconfigge un micro ictus, perde peso per guadagnare salute, ritrova se stesso in un progetto di tv sperimentale; ma l'ombra di amarezza con cui afferma che non avrebbe potuto far nulla per gli studios se non cambiarli, e che loro non lo hanno voluto, ha il peso della delusione di chi ha accusato il colpo. Nel fare il culo ad  Hollywood e alla sua coerente avidità, Altman si è dimostrato fantasioso ma poco costante, mosso da una rabbia instancabile e dalla comprensibile esigenza di trovare un posto, mentre Hollywood gli impediva l'accesso sia alla setta del blockbuster che a quella del cinema d'autore. 
Emblematico è il racconto sullo screening di M*A*S*H col produttore della Fox convinto da due belle ragazze europee a non tagliare le scene del film, nell'ottica di un Paese e di un sistema produttivo che molte volte è mosso dalla casualità e da circostanze fortuite, più che da uno sguardo lungimirante. Quella che diventerà la "migliore commedia bellica americana dall'avvento del sonoro" segnando la storia del war movie, deve molto non alla Hollywood pioniera, ma ad un Altman pionere. Un pioniere che ha arricchito il cinema americano senza mai davvero arricchirsi grazie ad esso, che si è fatto strada come un virus autoimmune, attaccando dall'interno, alimentandosi dei deficit del proprio habitat, ridicolizzandone i grandi principi in maniera troppo intelligente per essere ingenua come tenta di farci credere lui stesso: "se è ripugnante, vuol dire che lo è ciò che vedo".
 
Chiara Del Zanno
 

Non uscirai vivo da questo mondo

Lunedì 24 Novembre 2014 16:45 Pubblicato in Recensioni
Non uscirai vivo da questo mondo è il titolo di un cortometraggio diretto da Riccardo Papa e prodotto da Grapevine Studio nell’ambito dell'ultimo 48 Hour Film Project di Roma, un festival internazionale che mette alla prova la creatività di filmaker ormai da 14 edizioni. Secondo il bando si richiedevano infatti quarantotto ore di tempo per la realizzazione ex-novo di un corto, comprensivo di tutti i suoi step: sceneggiatura, riprese, regia, montaggio, costumi, colonna sonora, effetti, post-produzione e titoli. A garanzia di una costruzione inedita, si richiedeva la presenza di un personaggio da inserire obbligatoriamente nel plot (Carlo Maria o Carla Maria Fontana, archeologo/a), di un oggetto (una pennellessa) e di una frase (“A regime permanente la portata è costante”, primo principio di idrodinamica). Inoltre, per ogni team partecipante sarebbe stato sorteggiato un preciso genere cinematografico da interpretare.
Il lavoro del gruppo Grapevine ha raccolto la sfida aggiudicandosi i premi per i migliori costumi e per il miglior uso del genere, nonché una nomination per la miglior regia. 
Un western post-tecnologico ambientato nella periferia capitolina ha interpretato un eroe delle praterie nello scenario apocalittico del quartiere Centocelle. Il film rilegge in un gusto postmoderno gli oggetti archetipici dello spaghetti western, come cappi, orologi da taschino, sombreri, stellette, pistole, pianoforti e specchi. La desolazione metropolitana si impadronisce dei riconoscibili stilemi di scrittura registica del genere cinematografico, come i primissimi piani dei protagonisti, i campi lunghissimi, le angolazioni eccentriche, i colori caldi e le scazzottate. Il riferimento non si limita ad una mera citazione formale: si percepisce la tensione interiore della sfida e la forza emotiva della fatalità. Il Bildungsroman del picaro nella sua crociata personale contro il cattivo apre il western ad una lettura cosmopolita e futuribile, in un’epoca di disperata povertà, in cui ci sarà ancora spazio per la violenza, ma gli archeologi si preoccuperanno della benzina (chiamata “acqua-carbone”).
Le figure femminili coraggiose e combattive, così come il picaro, il cattivo e l’arlecchino (qui eccentrico nerd), icone del genere, abitano in modo inedito i paesaggi suburbani, evocando un contrasto con l’orizzontalità del vecchio West attraverso il tema di una ricerca verticale, rappresentata dal petrolio, e dall’ascesa dagli inferi, visualizzata nei gironi di cemento e graffiti dell’underground capitolino. 
Il personaggio interpretato con grinta da Francesco Castiglione, eroe maledetto e giustiziere, scuote lo spettatore con la stessa forza di un novello Franco Nero suburbano.
Estremamente raffinata anche la ricerca sui costumi, come confermato dal premio ad Ilaria Carannante: gli occhiali steampunk e la chioma cotonata dello sceriffo, così come le vesti stracciate dell’archeologa, sono efficaci simboli di un futuro malato e di una coscienza storica nichilista. 
La coinvolgente colonna sonora originale, tra cori morriconiani, armoniche e slide guitar, più che un semplice omaggio ai grandi maestri del genere, ne evoca gli echi e lo spirito. Lo stesso spirito che dall’amara vendetta sotto il torrido sole di Django si fonde alle atmosfere distopiche di George Miller. Come se Corbucci avesse incontrato Mad Max!
 
Rossella Catanese

Il RIFF sbarca in Russia

Mercoledì 12 Novembre 2014 22:23 Pubblicato in News
Russia-Italia Film Festival (RIFF), arriva nelle principali città russe per offrire al pubblico dell’Europa dell’Est un ricco carnet di cortometraggi, documentari e cinema d’autore nell’anno del turismo Italo-Russo. I film in lingua originale, proiettati dall’11 al 23 Novembre al Cinema Fakel di Mosca e dal 2 al 14 Dicembre al cinema Rodina di San Pietroburgo saranno tanto pellicole premiate a festival nazionali fra i quali lo stesso Rome Independent Film Festival, che film russi dedicati all’Italia.
 
 
25 spettacoli, 30 proiezioni, 10 città russe coinvolte nella rete del festival, una monosala dedicata all’essai come il Fakel e un grande spazio pluripremiato per la promozione della cultura cinematografica russa come il Rodina, numerosi i dibattiti e incontri alla presenza di registi e autori che daranno vita anche a lezioni tematiche.
 
Fra i film presenti in rassegna: “Ristabanna” di Gianni Cardillo e Daniele De Plano, ultimo film con Ben Gazzara, “The Stalker” di Giorgio Amato, presentato al RIFF Awards 2014. Presenti inoltre alcuni interessantissimi documentari come “l’Italia è in crisi” e “Questa è la nostra vita”, nonché la straordinaria raccolta “fiabesca” “Le fantasie italiane”.
L’evento è stato organizzato con il patrocinio dell’Istituto Italiano di Cultura, dell’Agenzia ICE, della Camera di Commercio Italiana, dell’ENIT (Agenzia Nazionale per il Turismo), del club ITAM e della rete statale “MosKino” e “Rodina”, nonché in collaborazione col la piattaforma dedicata al cinema indie Romefilmmarket.com e si configura per la sua natura peculiarmente innovativa soprattutto nella presentazione di pellicole italiane distribuite affatto o poco sia in Italia che in Russia.
 
Per tutte le info http://www.riff-russia.ru/