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Il Sud E' Niente

Sabato 07 Dicembre 2013 21:37
Grazia (Miriam Karlvist) ha 17 anni e vive a Reggio Calabria con il padre Cristiano (Vinicio Marchioni), modesto pescivendolo. Un velo di mistero nasconde il passato della loro famiglia: quando Grazia era piccola, suo fratello Pietro è sparito senza lasciare traccia. Cristiano le ha fatto prima credere che fosse emigrato in Germania, poi morto, e non ha più voluto affrontare l’argomento. Ora Grazia è un’adolescente, il suo corpo è cresciuto assumendo delle fattezze maschili, come per colmare l’assenza della figura di Pietro. Una sera, dopo un litigio con Cristiano, Grazia va in spiaggia. Entra in acqua e in fondo al mare le pare di scorgere suo fratello che riemerge in superficie. Nel frattempo Cristiano è assillato dalla malavita locale, che vuole prendersi casa e pescheria. 
 
Ritratto di vite spezzate in un sud immobile, in cui il silenzio omertoso è sia arma violenta che rassegnazione. La rassegnazione di Cristiano all’immobilità, ma anche quella di un paese che sembra aver perso la forza di ribellarsi. 
 “Il sud è niente e niente succede” dice la nonna della protagonista. 
 
Le verità celate da quel silenzio si nascondo nell’oblio di un mare profondo e purificatore, dal quale sul finale Grazia riemergerà donna. 
 
Fabio Mollo realizza un’opera prima acerba, inconsapevole delle proprie potenzialità, dominata da una stucchevole ricostruzione della finzione e da una scarna caratterizzazione degli ambienti. 
Dov’è questo sud? In qualche sporadica cadenza dialettale? 
I dialoghi e la recitazione sono scialbi, schematici, soprattutto, paradossalmente, nei momenti di maggiore pathos, dando al film un’impostazione impersonale da fiction televisiva. Non basta il talentuoso Marchioni per dare spessore alle vicende.
Molti dei temi collaterali al percorso di crescita di Grazia vengono inseriti per poi essere svogliatamente abbandonati a loro stessi, sospesi a mezz’aria nella narrazione. C’è la mafia, figura che aleggia senza mai essere veramente mostrata. O la religione, altra presenza ambigua, ridimensionata però ad un rosario che ciondola da uno specchietto retrovisore. C’è la voglia di scappare da un sud desolato e desolante, in cerca di un futuro migliore, a Torino. C’è Valentina Lodovini, il cui personaggio dovrebbe rappresentare il presente mancato di Cristiano, ma è tanto distante dalle vicende e insignificante che sembra infiltrato da un altro racconto.
A portare avanti la storia è l’alone di mistero che avvolge la scomparsa di Pietro. Alone di mistero che si risolve però senza particolari colpi di scena: Pietro è morto sul serio, come Cristiano non smette mai ripetere in 90 minuti di film. Questa (non) scoperta sarà una presa di coscienza per Grazia, che si sentirà libera di esser donna ritrovandosi con Carmelo, suo compagno di scuola, e riscoprendo la sua femminilità fino a quel momento celata al mondo in un suggestivo nudo integrale subacqueo. Una ricerca lunga tutta una pellicola dove un fratello scomparso diventa solo il pretesto per ritrovare se stessa fino a che il mare non le permetterà di cominciare a vivere. 
Molti ottimi spunti portati avanti però in modo pigro e approssimativo. Provaci ancora Fabio.  
 
Angelo Santini

I Milionari

Giovedì 11 Febbraio 2016 15:31

Alessandro Piva approda al Festival Internazionale del Film di Roma con I Milionari, presentato in concorso all’interno della rassegna Cinema Oggi.

Libero adattamento dell’omonimo romanzo-inchiesta di Luigi Alberto Cannavale e Giacomo Gensini, il film racconta l’ascesa criminale di un gruppo di giovani banditi napoletani nel quartiere di Secondigliano.
Piva cambia tutti i nomi dei personaggi, aggiunge dettagli e ne omette altri, ma cerca di mantenere la stessa tensione realistica del libro, con l’obiettivo di disegnare una mitologia criminale di Napoli. 
Così il protagonista Paolo di Lauro, in arte e al lavoro “Ciruzzo ‘o milionario”, diventa Marcello Cavani, soprannominato a sua volta “Alendelòne” e interpretato da un deludente Francesco Scianna (Vallanzasca – Gli angeli del male, Allacciate le cinture). 
Regista di culto nell’underground pugliese, Piva sbarca a Napoli, con un film dal budget più alto rispetto ai precedenti, in cui vuole sottolineare l’impossibile convivenza tra le velleità borghesi di Cavani e la sua sostanza criminale. 
Tutto scorre piatto. 
Le immagini sono una successione di inquadrature banali, senza spessore, degne della più generalista delle fiction Rai (manca solo Beppe Fiorello). 
Non era facile reggere il confronto con i camorra-movie degli ultimi anni; prima Gomorra di Matteo Garrone, vincitore del Gran Premio della giuria a Cannes e di 7 David di Donatello, poi l’omonima serie, uno dei migliori prodotti televisivi italiani degli ultimi vent’anni, senza dimenticare il sottovalutato Fortapasc di Marco Risi, sulla breve esistenza del giornalista Giancarlo Siani ucciso dalla camorra. 
Francesco Scianna si conferma uno degli attori peggiori della sua generazione;
la recitazione caricata  trasuda insicurezza e dilettantismo. 
Dopo il sopravvalutato Il sud è niente, Valentina Lodovini si trova di nuovo relegata a un personaggio femminile debole e scritto male. 
Eppure il soggetto di spunti stimolanti potrebbe offrirne; lo scambio fra i regali nuziali (le “buste” ) e le bomboniere nella facciata borghese ha le stesse dinamiche dello scambio danaro-hashish nel retroscena criminale. 
Ma Piva sembra come spaesato e la sua regia approssimativa; dopo quello che sembrava essere un nuovo punto di partenza con il noir romano Henry, il regista delude irrimediabilmente le aspettative dei suoi fan più affezionati. Si concentra sulle megalomani aspirazioni del protagonista, ma non riesce a codificare i rituali della malavita in immagini che suscitino un minimo di interesse in più rispetto al canonico campo e controcampo.
I mostri un po’ grotteschi di La Capa Gira, ritratto della microcriminalità barese dai risvolti amari, lasciano il posto a personaggi privi di spessore, dalle evoluzioni sciatte e prevedibili. Si ricicla la figura stereotipata del bandito dandy e carismatico, ormai superata da anni sia nel cinema che nella televisione di qualità, tratteggiando un profilo superficiale e reazionario della criminalità organizzata. 
In comune con il film di Gomorra c’è lo sceneggiatore Massimo Gaudioso, storico collaboratore di Garrone e certe situazioni sembrano la parodia involontariamente demenziale dell’omonima serie tv.
 
Angelo Santini

E' per il tuo bene

Venerdì 10 Luglio 2020 20:49

A distanza di tre anni Rolando Ravello torna dietro la macchina da presa per dirigere un’altra commedia sulla scia del suo precedente lavoro, La prima pietra, sempre a metà strada tra l’eccesso di vivacità e riflessione sull’accettazione del diverso. E’ per il tuo bene,  ora disponibile on demand su Amazon Prime, è il remake di una fortunata pellicola spagnola del 2017 intitolata Es por tu bien. Come nel film di Carlos Theròn, anche qui abbiamo a che fare con tre famiglie in piena crisi di nervi, travolte dalle scelte sentimentali delle proprie figlie, scelte a loro avviso piuttosto discutibili e spiazzanti. Annebbiati dal disappunto e dalla volontà di proteggere la vita delle ragazze, i tre padri, amici da sempre, decidono di escogitare insieme un improbabile e folle piano per allontanare le proprie figlie dai rispettivi partner. Precede l’uscita una bagarre scatenata da una locandina errata che ha mandato su tutte le furie vari movimenti femministi anche stranieri e ha fatto parlare del film su varie testate. Il manifesto riportava esclusivamente i nomi del cast maschile, rispettivamente quelli di Giallini, Salemme e Battiston, omettendo totalmente quelli invece del cast femminile, composto da Claudia Pandolfi, Isabella Ferrari e Valentina Lodovini. Una provocazione molto feroce in un momento di attivismi, che ha suscitato non poche polemiche, ognuna delle quali ferocissima nel boicottaggio di questo lavoro a tal punto che il distributore, Medusa, è intervenuto scusandosi pubblicamente per l'errore di stampa, assolutamente involontario e causato dalla fretta. Tornando invece ad un’analisi della pellicola di Ravello, la si potrebbe definire tiepidamente spiritoso, in virtù di quel respiro scanzonato che i tre protagonisti sono capaci di donargli. Ma se si mette da parte questo aspetto non resta altro che consuetudine, noiosissima e ripetitiva consuetudine. Ed è principalmente questo il tarlo che divora molte commedie italiane, quell’eccessiva attenzione rivolta al connubio tra il politicamente corretto e l’intemperanza di situazioni sopra le righe, nonché la riproposizione di quei temi masticati e rimasticati nel corso degli anni. Vediamo quindi riaffacciarsi alcuni topoi cinematografici che tanto piacciono alle storie italiane, tra cui l’incomprensione, la mancata accettazione del diverso e le onnipresenti crisi di nervi dei radical chic (con relative esplosioni litigiose e attacchi d’ira). Ma dovessimo rintracciare il peggior difetto probabilmente esso non figurerebbe nella riproposizione di storie già trattate, piuttosto in un’assenza di carattere e di imprevedibilità del lavoro. C’è troppa retorica nei personaggi, nelle loro storie e persino nei loro dialoghi ed è proprio questa ridondanza ad allontanare lo spettatore dall’empatia. Il risultato è un quadro eccessivo, mosso da un motore improbabile e poco convinto, che finisce per rendere poco salienti anche i saparietti più accattivanti. A questo punto ci si chiede se davvero il cinema italiano si stia rinnovando o se tenti solamente di ripercorrere vecchie strade, imbrigliando il tutto nella camicia di forza del politically correct.

Giada Farrace