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Visualizza articoli per tag: oscar wilde

Wilde Salome'

Mercoledì 11 Maggio 2016 23:10

Nel carcere della città di Reading
fu scavata una fossa di vergogna:
ora vi giace un uomo maledetto
divorato dai denti delle fiamme.
È avvolto in un sudario incandescente
nella tomba rimasta senza nome.
Lasciatelo giacere nel silenzio
fino al giorno che Cristo chiamerà
tutti i morti a raccolta. Non spargete
vane lacrime o inutili sospiri:
aveva ucciso la cosa che amava
e doveva pagare con la morte.
Eppure ogni uomo uccide ciò che ama.
Io vorrei che ciascuno m'ascoltasse:
alcuni uccidono adulando, ad altri
basta solo uno sguardo d'amarezza.
Il vile uccide mentre porge un bacio
e l'uomo coraggioso con la spada!

Oscar Wilde, La Ballata del Carcere di Reading 1898

 
Salomè è un'opera teatrale controversa di Oscar Wilde pubblicata nel 1891, in un unico atto e in lingua francesce, come emblema di contestazione alla società moralista che lo stava crocifiggendo.
Fu composta per l'attrice Sarah Bernhardt che nonostante le numerose prove si rifiutò di interpretare proprio a causa dello scandalo che coinvolse lo scrittore.
Wilde è un'icona, interprete di uno stile di vita e di un modo di essere che con coerenza portò avanti fino alle estreme conseguenze, complice la socratica volontà di affrontare il carcere dopo un tormentato processo, intentato dal padre del suo amante, che gli costò la vita.
Salomè, fisiologica evoluzione dark dello stile dell'autore, è così un grido di accusa dove ancora una volta Wilde esprime tutto il suo dolore e il tormento verso la società e un amore così difficile (nonostante vi sia un'immeritata dedica al giovane amante Bosie in una delle ultime versioni).
La vicenda propone un episodio presente nei vangeli di Marco e Matteo dove Salomè (il cui nome non viene mai citato nelle sacre scritture), giovane figliastra del folle e scellerato Re Erode, chiede al patrigno, invaghitosi di lei, di far decapitare il profeta Giovanni Battista, reo di averla rifiutata.
Questa tragica storia di lussuria, avidità e vendetta, risulta ai posteri talmente potente da generare numerose trasposizioni artistiche, inclusa un'opera di Richard Strauss, quella in 5 atti di Nick Cave, King Ink (1988), citazioni dagli Smashing Pumpkins agli U2 (questi ultimi inclusi nella colonna sonora) e diverse proposizioni cinematografiche.
In questa versione Al Pacino si muove su due binari paralleli, interrelandoli e sfasando in continuazione i piani, convergendo in una visione puramente metacinematografica, dove i mezzi artistici costantemente si incontrano, scontrano, delimitano e ricostruiscono l'uno con l'altro, fino a raggiungere il risultato che ci scorre davanti agli occhi.
Pacino afferma “Wilde Salomè è un esperimento, il mio tentativo di fondere l'opera teatrale e il cinema. I due linguaggi possono quasi stridere, essere in contrasto tra loro (…). Fare in modo che questo ibrido funzioni è stato il mio obiettivo: unire tutta la qualità fotografica del cinema a quell'essenza dell'acting che è propria del teatro.” 
Fondamentale è stata l'ispirazione al lavoro teatrale di Steve Berkoff che convince Pacino a portare in scena nel 2003 Salomè con l'aiuto di Marisa Tomei nei panni della protagonista, sostituita in questa moderna versione da una sconosciuta Jessica Chastain, un misto perfettamente crudele di eros e thanatos. I colori cupissimi e le musiche in scena rendono il tutto molto forte e inquietante, un impatto sorprendente che ci avvicina alla crudezza con cui Wilde la scrisse, del resto Pacino sembra essere ossessionato dall'eminente figura dell'autore allontanato dal mondo, egli ne veste i panni, mischiando scene di vita vissuta dal creatore a scene della sua personale ricerca di ricostruzione minuziosa, ad altre di finzione nella riproposizione on stage. Uno spettacolo che però non convince il pubblico teatrale e Pacino subirà le critiche dei giornalisti accorsi alla sua lettura. Il tentativo di portare a compimento questa morbosa curiosità tuttavia si dimostra decisamente apprezzabile sul finire che dopo anni, e dopo un passaggio al 68esimo Festival di Venezia con un Queer Lion, riesce a trovare una distribuzione italiana (Distribuzione Indipendente), arricchendosi nella versione nostrana di un doppiaggio affidato ad attori che spaziano da Lavia a Sassanelli.
Ripercorrere tutta l'odissea wildiana in poche immagini non è propriamente un compito semplice, come non lo è riuscire a cogliere la fierezza e il dolore che il letterato sopportò a testa alta contro lo sprezzo del mondo, ostinandosi a sfondare il muro di evidenza che rendeva il suo compagno non all'altezza dell'atto di amare. Il più grande dono che Wilde ci ha lasciato è stato sicuramente questa sua lotta anticonformista vissuta dalla parte di un reietto che fino alla fine ha portato avanti, ad ogni costo. Un esempio di assoluto amore e vita dedicata all'arte e di totale coerenza umana, dove i principi e i valori, che non tutti sono capaci di vivere, sono la stessa esistenza la quale, per chi come Wilde, diviene inscindibile dalla morte.
 
Chiara Nucera

The Happy Prince

Giovedì 22 Febbraio 2018 13:31
E’ parecchi anni che Rupert Everett ha in mente di girare un film su Oscar Wilde. Addirittura si mormora che abbia blindato Colin Firth per il personaggio di Reggie Turner, ancora prima dell’Oscar e della fama, che ha investito il protagonista del Discorso del Re. Quindi ci si aspettava un’opera riuscita o comunque che facesse buona luce sugli ultimi giorni di vita dell’immenso artista irlandese. Purtroppo la scrittura e la regia di Everett, che interpreta lui stesso Wilde, è confusa. Visione ridondante e a tratti un po’ stucchevole. La sua non dimestichezza con la camera da presa si nota fin troppo. Il mix viaggio mentale e presente (i due strati narrativi del film) imprigionano nuovamente lo scrittore, come nella pellicola stessa, in un loop oscuro e sinceramente non edificante. I raccordi registici non sono il suo forte. Per carità, raccontare la depressione comporta già di per sé l’immersione in un contesto greve, ma l’eccessivo uso di ricami sconfortanti, non rendono grazia all’indiscussa purezza d’animo del drammaturgo, scomparso nel 1900.
 
The Happy Prince ci immerge, come appena accennato, nel periodo finale della vita di Oscar Wilde. Lasso di tempo contrassegnato dall’esito negativo del processo a suo carico per “gross public indecency”. Con questo termine veniva identificato il procedimento penale contro l’omosessualità. Condannato a 2 anni di carcere, Wilde ne esce a pezzi. Tutto il successo avuto in passato viene spazzato via in un lampo. Il suo teatro bandito e soltanto dei frammenti del suo genio lo aiutano a barcamenarsi tra pochi intimi. A Parigi, dove si è trasferito dopo la prigionia, riesce ad allietare le giornate e gli animi di due poverelli con delle fiabe. La moglie Costance (Emily Watson) non ne vuole più sapere e la strada che lo porta ancora una volta verso Lord Alfred Douglas (Colin Morgan), suo storico pupillo, si rivela sbagliata e non costruttiva. Tra le vie della capitale francese barcolla schiacciato da un’inaspettata povertà. Si ritrova seduto sotto la pioggia, fuori da un bar, sperduto e senza l’ombra di un soldo per pagare il conto (evento realmente accaduto). Rincasa in un albergo da quattro soldi, con il buio nel cuore, dove lo aspettano i suoi spettri e una imminente dipartita. Gli affetti di una vita gli sono vicini: Reggie Turner e Robert Ross (Edwin Thomas). Il primo grande amico, il secondo amante, entrambe lo spronano a reagire, ma Wilde è convinto che la forza della sua scrittura e l’amore legato ad essa lo possano salvare. Ma l’autodistruzione prende il sopravvento e si perde irreparabilmente in se stesso.
 
Everett non racconta con adeguata dimestichezza il personaggio Wilde. Riesce in qualche scena, quella della stazione è ben strutturata, a far intravedere l’uomo, finalmente raccontando nel profondo. Si blocca subito dopo: tante micro situazioni disconnesse tra di loro (narrazione zoppicante), della sua memoria, non creano il fil rouge adeguato. Lo spettatore deve sforzarsi a connettere le immagini, cosa alla quale dovrebbe pensare il regista. Non crea omogeneità. Il grado di nobiltà di Wilde e la sua lotta morale contro l’ingiustizia si intravedono solo in lontananza.
 
Tecnicamente troviamo qualche buon risultato. La fotografia è allineata ai colori e alle luci dell’epoca. Il punto più alto è la vista sul golfo di Napoli, resa calda e poetica. I costumi sono curati. Tutti i protagonisti indossano abiti di pregevole sartoria, che rendono grazia alla borghesia di fine ottocento.
 
The Happy Prince, dopo anni di rinvii dovuti alla scarsità di fondi, ha visto la luce grazie alla tenacia e alla passione verso Oscar Wilde di Rupert Everett. Il regista ha avuto l’ardire di sviscerare una parte dell’esistenza del poeta, poco nota al grande pubblico. Questa infelice parabola meritava qualcosa di più. Un tono più irriverente ed impetuoso, in linea con il carattere del saggista. Nella visione (annebbiata) del regista britannico, Wilde muore sì per amore, ma non ne si sente il trasporto. Anche i personaggi di contorno risultano poco incisivi e non rafforzano la causa.
 
David Siena