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Youth - La Giovinezza

Giovedì 18 Giugno 2015 14:37
La Giovinezza di Sorrentino è la vecchiaia dello spettatore inconsapevole che si ritrova ad affrontare una simile visione. Dopo che tutto e il suo contrario è stato detto, che da Cannes l'Italia è tornata a mani vuote, ci siamo riproposti di darvi anche il nostro, un po' cinico, parere in merito.
 
Due anziani amici, Fred Ballinger (Michael Caine) e Mick Boyle (Harvey Keitel), si confrontano su le gioie e i dolori della vita. Fred rifiuta qualsiasi lavoro, da compositore di “Canzoni Semplici” per cui viene ricordato e autore di testi significativi, declina persino l’invito di Sua Maestà la Regina d'Inghilterra ad esibirsi in occasione del compleanno reale. Mick vuole girare il suo ultimo film, con la sua attrice feticcio (una Jane Fonda involgarita per l'occasione) ormai divenuta sorta di felliniana musa e il suo entourage composto da intraprendenti astrusi sceneggiatori, completando così il suo definitivo testamento stilistico. Ballinger, dal canto suo, pur tenendosi ben lontano dai divismi per i quali è conosciuto,  non può  esimersi dal fare ciò che fa da una vita e continua a dirigere qualsiasi rumore possa trovare nella quotidianità di una ormai poco dinamica esistenza. Stropicciando la carta di una Rossana ne produce il  suono come fossero note, dirige un coro di mucche nel pascolo adiacente al centro benessere che lo ospita, ogni cosa, anche la più insignificante, produce accordi modulati in sequenza. La sua giovane e bella figlia Lena (Rachel Weisz) piange la perdita del suo grande amore che la cornifica con una volgare pop star (una Paloma Faith burlona nei suoi stessi panni). Ma come se non bastasse nel variegato quadro sorrentiniano trova luogo anche il dramma familiare e l'approfondimento psicanalico, quando Fred viene accusato dalla figlia di essere stato irresponsabile, mai presente, sempre e solo concentrato sulla sua musica e il suo lavoro, rapito da passioni sessuali libertine a danno della sua angelicata madre che, solo alla fine si scoprirà essere rinchiusa in una clinica per malati mentali.  Boyle, senza pace, ironizzando sulla sua prostata, cerca un suo finale, ed è forse lo specchio del regista stesso, che ammantandosi di meriti del passato non trova una chiusura degna. Così il film nel film prosegue come ciò che ci scorre davanti, aprendo e chiudendo, richiudendo e riaprendo altri tremila quadri, dilatando nel tempo ogni singolo avvenimento, anche il meno importante, conferendogli un valore che si rispecchia in tutto e per tutto nella propria specifica superficialità. Una serie di immagini che vogliono essere colme di senso ma che un senso profondo non hanno, o forse sì, ed è proprio questo che Sorrentino vuole farci credere: ogni singolo istante è determinante a tal punto che non può essere negato all'occhio ingordo e passivo dello spettatore. Ma Sorrentino non è Federico Fellini, egli si perde in uno stile non più codificato secondo dei parametri personali ma volendo forzosamente abbracciare i gusti di tutti. Il pubblico a cui deve necessariamente piacere è vasto e deve avere anche l'illusione di credersi unico e fuori dal coro, quindi un pubblico borghese, o almeno che si ritiene tale, pseudointellettuale e molto molto radical chic. Questo a nostro avviso il più grande errore commesso dal regista, la cifra stilistica che meravigliosamente aveva caratterizzato le prime opere e i suoi interpreti viene a mancare a favore del cliché di uno spettacolo prolisso, molto noioso,  con ritmi sospesi e dilatati, senza mai un vero e proprio climax. Tutto si regge, per fortuna, su dei mostri sacri come Caine e Keitel, che sempre per fortuna niente hanno a che vedere con il “Mosè” Servillo degli ultimi anni, ma che bucano lo schermo entrandoci dentro con un solo battito di ciglia. Senza loro, il baratro. Una storia senza una vera storia, una regia senza un regista che preferisca se stesso alla sua ombra mediatica, un montaggio con un montatore sotto tavor quando non latitante. Un’orgia di musica classica, pop, corpi nudi e sgraziati a bagno, gente dipinta negli stereotipi naïf: una ragazza del centro massaggi con la faccia da puttana, una puttana con evidenti problemi psichici, una miss universo che oltre ad essere perfetta e “tanta” è pure intelligente (Madalina Ghenea, la Smutandissima nel film dei “ Soliti idioti”) e il cui lato b campeggia su tutte le locandine del film, un bravo attore giovane (Paul Dano) che aspira ad un ruolo potente (quello del Mein Furer Hitler!) perché viene solo ricordato per aver interpretato un Robot con un'altra faccia, il calciatore copia di Maradona e, per finire, la spiritualità orientale tanto cool negli ultimi anni trova spazio con il monaco buddista che cerca di levitare. Ossimori viventi nel tentativo di emulare un cinema che c'è stato e non c'è più, come già si era provato con La grande bellezza. Faticoso da digerire e di risata facile in alcune battute, altre tristemente involontarie, è una riflessione sullo scorrere del tempo che non si può controllare. La vita non finisce quando lo decidiamo noi, o a volte sì come ci viene mostrato, la salute viene data a chi  vuole farla finita  e la voglia di morie, oltre che allo spettatore disincantato, a chi al contrario non smette di provare emozioni anche superata la soglia degli 80 anni. Fischiato o amato arrivare al languido finale è estenuante. Ricco di pretese è godibile per chi cerca un tipo di intrattenimento realmente senza alcuna pretesa, e soprattutto, come qualcuno diceva, con un open bar ad ingresso sala.  
 
Chiara Nucera Francesca Tulli