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L'altra Heimat - Cronaca di un sogno

Giovedì 09 Aprile 2015 11:00
Edgar Reitz, fra i maggiori esponenti del Nuovo Cinema Tedesco, all’età di 82 anni mette in scene la genesi della saga epocale cominciata trent’anni fa.
Il primo Heimat, presentato a Venezia nel 1984, è composto da 11 capitoli, ognuno dei quali è praticamente un film a sé, per una durata complessiva di 924 minuti. Heimat 2 - Cronaca di una giovinezza conta 13 capitoli per 1532 minuti, il film più lungo della storia del cinema, mentre Heimat 3 – Cronaca di una svolta epocale si ferma ai 600. La trilogia, realizzata tra il 1979 e il 2006, è un monumentale affresco della Germania del Novecento, dalle macerie della Grande Guerra all’alba del nuovo millennio, visto attraverso le vicende private della famiglia Simon. L’altra Heimat – Cronaca di un sogno non è strettamente legato al ciclo, è un prequel autonomo e come tale può essere visto anche se non si conosce il resto dell’opera. 
 
Siamo nel 1843, sempre nell’immaginario villaggio di Schabbach, nell’Hunsrück, la regione dove Reitz è nato nel 1932. Qui ci vengono presentati gli antenati della famiglia Simon, artigiani sottoproletari, che, giorno dopo giorno, combattono contro la miseria e le ambizioni del figlio minore Jakob, illuminato dal sogno di abbandonare la piccola patria per fuggire in Sudamerica. Maldestro e vergognoso, Jakob passa le sue giornate immerso nei libri, a studiare lingue e idiomi degli indiani d’America. Come l’albatros di Baudelaire, è esule in terra fra gli scherni, che gli impediscono di volar via con le sue ali di gigante. Il ritorno dal fronte prussiano del fratello maggiore Gustav comprometterà gradualmente la sua smania di emancipazione.
 
La genesi della famiglia Simon è anche quella dello stesso termine “heimat”, che non ha un vero corrispettivo nelle lingue anglofone e neolatine, ma può essere tradotto con casa, patria, luogo natio. Privo del significato nazionalistico, ma con una forte connotazione melanconica, il concetto di heimat è comparso nella cultura tedesca proprio nel XIX secolo, in seguito all’esodo massiccio di popolazioni dalle aree rurali alle grandi città, con il dissolvimento dei piccoli stati in un unico nuovo stato tedesco a egemonia prussiana.
Quella raccontata da Reitz è la Germania rurale e arretrata, che sogna il nuovo mondo, “dove non c’è mai l’inverno”, ovvero, l’idillio a colori scolpito nel frammento di gemma che il taciturno Fürchtegott regala alla bella figlia Jettchen. Una Germania quindi completamente diversa da quella di oggi, florida e meta di immigrazione per eccellenza. 
 
Il tema, spiega Reitz, ospite dell'ultima edizione del Festival internazionale del film di Bari, "è naturalmente quello dell'immigrazione, il senso di dolore che c'è nel cuore delle persone che lasciano la propria terra. All'epoca eravamo un paese di emigranti, oggi siamo terra d'immigrazione".
 
Reitz rappresenta la quotidianità dei suoi protagonisti nel duro lavoro e negli affetti familiari, restituendo con realismo lo spirito e i crescenti mutamenti di un periodo storico che oggi sembra rimosso dalla memoria collettiva europea. 
Quando “eravamo noi a emigrare per cercare fortuna”, sopiti nel sogno e ancora incoscienti degli orrori che avrebbe riservato il secolo successivo.  
Il realismo della ricostruzione è quasi maniacale; le case di Schabbach sono state costruite di sana pianta, i costumi di Eshter Amuser tutti filati a mano e le fonti luminose sono state il più possibile restituite al naturale grazie all’uso delle riprese in digitale, che alternano un nitido bianco e nero e singoli elementi sporadicamente a colori (piante, fiamme, sole, sangue e denaro). 
Grande narrazione e forte impatto visivo firmati da un maestro del cinema tedesco. 
 
Angelo Santini