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Jupiter's Moon

Giovedì 25 Maggio 2017 21:00
Jupiter’s moon è ambientato nei giorni nostri e tratta parecchi temi, forse troppi. Uno di questi è di caldissima attualità: il problema profughi. La terra promessa, in questo preciso caso, è l’Ungheria. I clandestini faticano non poco per varcare il confine. La maggior parte vengono scoperti e fucilati senza pietà. In questo clima di rappresaglia e di odio, Aryan (Zsombor Jéger), giovane siriano in cerca di salvezza, è sul punto di entrare illegalmente nel paese. Ma qualcosa va storto e durante un inseguimento viene ferito a morte. Di lì a poco si risveglia miracolosamente e scopre di poter levitare. Aryan viene portato in un campo profughi dove il Dottor Stern (Merab Ninidze), affascinato dalle sue doti mistiche e vedendo il lui la possibilità di fare parecchi soldi, lo aiuta a fuggire. La loro sarà una fuga colma di imprevisti. Laszlo (György Cserhalmi), il direttore del campo, gli starà perennemente alle costole, convinto di poterli acciuffare e sbatterli in gatta buia. Il Dottore, persona corrotta e pronta a tutto per soddisfare i propri interessi, sa a chi rivolgersi per guadagnare denaro con i miracoli del giovane siriano. La corruzione sporca e becera e la fede religiosa, che qui si confonde troppo con il fantastico, sono gli altri aspetti alla base del nuovo lavoro di Kornél Mundruczó. La sua Luna di Giove, che realisticamente si chiama Europa, è una terra promessa irrimediabilmente compromessa. 
 
Questa strana parabola fa parte del concorso ufficiale del Festival di Cannes 2017. Il suo autore, nel 2014, vinse il premio per il miglior film nella sezione Un Certain Regard, con White God – Sinfonia per Hagen. Una specie di favola dai risvolti inquietanti, che aveva come tema di fondo il maltrattamento e l’abbandono dei cani. Se 3 anni fa uscì dal Festival francese con il plauso di aver dato un’originale vetrina ai diversi, lo stesso non si può dire per il suo Jupiter’s moon: opera pesante, confusionaria e ricattatoria.
 
Mundruczó spinge lo spettatore a riflettere su qualcosa di profondo, ma solo lui trova la profondità. La sua bussola si spinge oltre i normali punti cardinali. Punta con eccessiva presunzione verso l’alto, in tutti i sensi. La mescolanza dei generi: oggettivo (aspra denuncia verso il suo popolo decomposto e marcio) e immaginario (uomo risorto come angelo che porta alla redenzione) non funziona. È lodevole la ricerca di una morale costruttiva, ma il suo modus operandi è accartocciato su se stesso e troppo ambizioso. 
Il regista pretende oltre la misura consentita, volendo dare alla religione o a chissà quale potere superiore, il compito di significare l’unica via d’uscita per il genere umano, ormai relegato a virus che infetta tutto quello che trova sulla sua strada (la sua Budapest è descritta come l’inferno in terra).
 
Ed è proprio da questa descrizione che si tirano fuori gli unici punti a favore della pellicola. Uno sguardo presente, pronto e scattante sulla contemporaneità della città. Il viaggio del medico (il vero protagonista) nelle strade della capitale ungherese è ben diretto. La camera da presa sta appiccicata ai personaggi, li insegue senza sosta. Dinamicità e soggettività ben mixate. Entra nella vita delle persone: ottima la carrellata dall’alto verso il basso di un appartamento. Qui la regia è estremamente esplicativa e curata. 
 
A conti fatti Jupiter’s moon si può ricordare solo per qualche buon spunto tecnico, che almeno delinea con realismo i contorni di un paese, che ascolta solo il richiamo dell’immoralità. Non c’è spazio per una redenzione vera e propria. Del resto, l’esagerata carne al fuoco è chiaramente gestita male. Parte si brucia e parte non si capisce bene com’è cotta.
 
David Siena