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I fantasmi di San Berillo

Giovedì 27 Marzo 2014 22:07
Per Edoardo Morabito deve essere stata un’esperienza sorprendente rinvenire, tra i vicoli di San Berillo, quartiere popolare di Catania, le tracce di una storia sotterranea ma visibile che rimanda agli eventi recenti di una Sicilia sospesa tra mito e modernità; una storia di cui quei volti e quei corpi che aveva inizialmente indagato diventano testimoni – o narratori – indiretti, lasciando al quartiere, alle sue pietre e alle sue rovine, l’onore di divenire oggetto principale d’indagine.
Cuore artigiano e popolare della città, San Berillo, situato fra la stazione e il porto, è sempre stato un quartiere-ghetto in cui venivano confinate le marginalità socio-economiche (poveri, prostitute, transessuali, traffichini) entro l’usanza universale di mettere in quarantena gli esseri umani pericolosi di attentare al benessere e all’ordine della classe borghese. Un quartiere virale, malato, dunque, di cui rimane oggi soltanto un frammento – come a custodia di un passato ovunque dimenticato – sovrastato dalla moderna “via delle banche” che ha rimpiazzato il vecchio cuore popolare.
Immagine simbolo dei processi di modernizzazione del secondo dopoguerra, che sradicano un passato con le ruspe di un rinnovamento urbanistico che troppo spesso diventa scempio e annullamento della memoria (tanto da perdere, a tratti, la sua determinazione spazio-temporale per parlare di una storia comune ai tanti quartieri popolari della vecchia Europa), San Berillo è qualcosa di più di un pattern dei fenomeni di trasformazione urbanistica e di gentrificazione dello spazio urbano. San Berillo è il brandello di storia che ricorda l’indimenticabile spazio di concentrazione di tutte le case chiuse della città siciliana e, dopo il ‘58, quartiere a luci rosse fra i più noti del Mediterraneo, in cui si riversavano centinaia di prostitute da tutta Italia. Nel suo animo martoriato San Berillo porta ancora dentro di sé le cicatrici dell’essere stato vittima di due deportazioni: la prima, avvenuta appunto nel 1958, anno in cui la legge Merlin metteva fine alle case di tolleranza, quando il quartiere venne raso al suolo e i suoi trenta mila abitanti trasferiti forzatamente nella Nuova San Berillo; la seconda, nel 2000, quando un blitz delle forze armate mise fine alle attività erotiche del quartiere e gli abitanti furono di nuovo costretti ad abbandonare le loro case per disperdersi nei viali del lungomare.
È in questo rimpallo fra passato e presente, fra un solido bianco e nero e un colore scolorito, fra le immagini pornografiche pre-legge Merlin e i primi piani dei volti e dei corpi demodée delle superstiti, che si rintraccia l’anima di questo lungometraggio. 
Distante sia dal cinema d’autore che dalle regole linguistiche del documentario d’osservazione, “I fantasmi di San Berillo” poggia su di una struttura drammaturgica inusuale, frutto del desiderio dell’autore di dare vita ad un soggetto inanimato: “Non ho cercato di raccontare la storia di San Berillo con la linearità di una narrazione logica (perché ogni nostalgia è patetica e ogni presa di posizione un torto alla veridicità degli eventi), ma ho tentato di ascoltare le pietre, le insegne residue delle vecchie attività dismesse da decenni e ancora aggrappate ai cornicioni delle porte spesso murate; ho cercato le storie nei numeri civici senza alcuna corrispondenza, aggrappate a pareti rimaste in piedi solo per metà, seguendo i segni residui della vecchia città e lasciando che si intrecciassero fra loro, come fossero delle eco disperse fra i vicoli”.
La mente va a “Sicilia di sabbia” di Massimiliano Perrotta, al reportage giornalistico di Pasolini (“La lunga strada di sabbia” ) che lo informava, all’intervista ivi contenuta allo scrittore Domenico Trischitta che narrava lo sventramento del quartiere. Ma anche a “Le Città Invisibili” di Italo Calvino (i cui frammenti pervadono il testo filmico), alla poetica di Goliarda Sapienza, il cui fantasma percorre le strade del quartiere con la voce potente e dolente di Donatella Finocchiaro, a Vitaliano Brancati, cantore di avventure erotiche in una Sicilia censurata. Fantasmi di ieri che dialogano in uno scambio muto con i personaggi martoriati di oggi: le pochissime prostitute rimaste che attendono ancora gli sporadici avventori sull’uscio; quegli “esseri mezzo donna e mezzo uomo”, custodi di segreti inconfessabili; Franco, anziano siciliano che rimembra la giovinezza felice vissuta fra i bordelli del quartiere; Vincenzo, abbandonato da moglie e figli, rinchiuso dentro un’esistenza solitaria nel nuovo quartiere del centro storico; Orazio, che si aggira nostalgico tra i muri scrostati scorgendo in ogni pietra la forza del ricordo di un momento intenso che mai più tornerà (“Uno certe volte può sembrare nostalgico, patetico, ma quali cazzi? È la dolcezza della memoria, il sapore di certi ricordi che ti fanno venire veramente un nodo alla gola, ti riportano a quando da bambini scoprivamo i luoghi, la curiosità della vita”).
L’immaterialità del ricordo si scontra con la fotografia realistica di una ferita ancora aperta nel volto della città siciliana, con la materialità di quei giochi politici che hanno pianificato lo smantellamento della vita del quartiere e la correlata costruzione di un abitato per l’accoglienza dei “deportati di San Berillo”: l’ISTICA (Istituto Immobiliare di Catania) e il piano Brusa (dal nome dell’architetto che lo realizzò), appoggiati dalla DC e lautamente finanziati da Stato, Regione, Banca Vaticana, ed altri. Infine la recente riqualificazione dell’area prima affidata alla supervisione architettonica di Massimiliano Fuksas, poi sostituito da Mario Cucinella. Come se i nomi importanti potessero, in qualche modo, restituire il chiacchiericcio e la vitalità di uno spazio ormai perduto, vittima del bigottismo e del progresso, quando invece un altro mondo, un’altra architettura sociale, hanno sostituto le rovine di uno spazio che non c’è più, trasfigurato in una meta-città descritta dalle parole di Goliarda Sapienza: “Le vecchie cartoline non rappresentano questa città com’era, ma un’altra città che per caso aveva lo stesso nome di questa”
Miglior documentario al Torino Film Festival del 2013, “I Fantasmi di San Berillo” ci ricorda quanto è viva la memoria e quanto è forte quel cinéma du réel italiano consacrato da TIR e SACRO GRA.
 
Elisa Fiorucci