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Intervista ad Andrea Bosca

Lunedì 26 Marzo 2012 18:38

Nel panorama cinematografico italiano non sono molti gli attori che affiancano un buon livello recitativo ad un'assidua presenza scenica, tra i pochi, sono ancora meno i giovani talenti. In questo gioco alle detrazioni spicca sicuramente Andrea Bosca. Classe 1980, astigiano di nascita e diplomatosi al Teatro Stabile di Torino, è uno dei nuovi volti che si sta affermando per i ruoli diversificati e le evidenti doti interpretative. Il suo curriculum si dimostra già abbastanza ricco, da questo emerge una grande versatilità nell'esser passato agilmente attraverso cinema, teatro e televisione. Collaborazioni con Lucini, Manfredonia, Martone, solo per citarne alcuni, parcecipazione da protagonista all'ultima edizione del festival triestino Maremetraggio, con una "prospettiva" a lui dedicata, esce in questi giorni nelle sale italiane con due attese produzioni Fandango: Gli Sfiorati di Matteo Rovere e Magnifica Presenza di Ferzan Ozpetek.

 

Abbiamo incontrato Andrea che ci ha concesso un'intervista dove ci parla di questi suoi ultimi lavori e dei suoi impegni.

Per quanto riguarda Gli Sfiorati, è Méte, protagonista di una vicenda dai contorni difficili. La storia è infatti quella di un incesto, vissuto attraverso le tinte chiare della commedia, un contrasto forte ma che non stona, rendendo tutto facilmente digeribile.

 

 

Come ti sei approcciato al personaggio di Méte e alla storia?

 

Innanzitutto si è trattato di una sfida emotiva nel cercare di dirigersi in un posto dove tutti noi vorremmo andare ma difficile da raccontare a parole. Il problema principale è che trattandosi di una trasposizione da un testo letterario, c'era da dover rendere delle emozioni impresse su carta attraverso delle immagini, rivivendole nella maniera più convincente possibile.

Mi sono trovato a dover raccontare un universo a me del tutto sconosciuto, come può essere quello dell'incesto, trovando un punto fermo in Matteo Rovere che ha dato ordine a al disordine, aiutandomi a trovare la leggerezza nell'approcciarmi alla tematica, rendendo questo viaggio una conquista. Quando ho incontrato delle difficoltà ho cercato di passarne attraverso, nonostante il personaggio sia sofferto e che non si possa parlare di un vero e proprio happy ending, come mostrano le scanzonate sequenze finali.

Questo mi ha messo a dura prova nell'approccio alla storia, ma alla fine siamo riusciti anche a ridere di un personaggio capace di meschinità e vigliaccheria.

 

                                                                     

 

 

La storia si conculde con una ritrovata apparente serenità familiare, sugellata da un coro su una canzone, quali riflessioni ti ha fatto maturare questo particolare finale?

 

Il personaggio di Méte è ricco di sfumature e, nonostante un'apparenza di superficialità, porta con sé un grande peso interiore, determinato dall'irrisolutezza e sfuggevolezza con cui conduce la sua vita. Non credo che avrebbe mai cantato con suo padre, con il quale il rapporto è sempre stato molto conflittuale, quella canzone se non fosse passato prima da un atto forte come può essere l'incesto. Qui l'incesto consumato con Belinda, non è solamente determinato da una spinta sessuale, ma ciò che è realmente inaccettabile è che sia frutto di una grande storia d'amore. Proprio per questo, dopo l'esteriorizzazione dei sentimenti e delle pulsioni represse per buona parte della storia, c'è la scena del salire in macchina e cantare con il padre: un passo molto importante e difficile..

 

 

Come pensi venga recepito dal pubblico questo film?

 

Credo che anche i ragazzi dai 12 anni in su, ormai siano aperti a ben altri contenuti rispetto alle generazioni di adolescenti di 20 anni fa. Proprio per questo credo che sia adesso molto più semplice raccontare anche queste cose. I ragazzi di oggi hanno accesso ad una quantità incredibile di contenuti ed è più facile raccontar loro le cose in un certo modo, affrontando la verità in maniera che non ti scappi di mano.

 

Cosa ci dici invece della tua esperienza con Ozpetek?

 

Ho avuto la possibilità di lavorare al fianco di attori enormi, i miei preferiti come Elio Germano o Margherita Buy, solo per citare alcuni di loro . Ozpetek è una persona stupenda, lavorare con lui è una bellissima esperienza. Lui riesce ad entrare nel cuore delle cose, carpendo l'animo delle persone e scavando a fondo nelle situazioni, questa è una qualità da rimarcare. Riesce a tirar fuori il meglio che tu possa dare, trova il nucleo, molti di noi perdono la centralità raccontando, recitando, lui la ritrova seguendo tutti. Lavorare con lui, al dilà di come verrà accolto il film, è una delle cose più belle che abbia mai fatto. Ti mette assolutamente a tuo agio facendoti arrivare dove vuole arrivare e prendendo da te tutto ciò che riesci a dare senza forzature, seguendo un percorso del tutto naturale.

Ad Ozpetek piace essere sorpreso, inventando sottigliezze interpretative con te, prende spunto da una qualsiasi sbavatura e la utilizza per costruire. Quello che lui sogna è sempre un po' di più di quello che tu puoi immaginare ma il risultato è decisamente soddisfacente, riuscendo a incontrare le sue aspettative.

 

E per quanto riguarda il tuo personaggio in Magnifica Presenza?

Ciò che ho fatto è stato un piccolo ruolo ma per approcciarmi a questo ho preso spunto dal desiderio e dall'amore che trasmette Ferzan nel dirigere i suoi attori e ho rivolto queste emozioni a quello che al momento doveva essere l'oggetto del mio desiderio, un attore come Elio Germano, che stimo molto, tentando di far questo senza inciampare.

 

Il 24 Febbraio 2012 hai debuttato ad Asti in "Come vivo acciaio" , liberamente tratto da "Una Questione Privata" di Beppe Fenoglio. È la tua seconda esperienza del progetto di laboratorio teatrale aperto a tutti che ti vede come regista e interprete con Elisa Galavagno. Da cosa nasce questa idea?

 

Nasce tutto dalla volontà di andare alla radice del nostro lavoro avendo attenzione alle persone, cercando di avvicinarci a loro, rendendoli partecipi. Noi siamo creatori, narratori di storie di mestiere ma il pubblico ha un ruolo fondamentale e soprattutto l'approcciarsi allo spettacolo che hanno le persone. In un momento di crisi del genere ho avuto fortuna, conciliando la mia passione con ciò che poteva diventare una passione anche per altri, con particolare attenzione al territorio in cui abbiamo dato vita al laboratorio.

Il progetto infatti si ricollega alla candidatura della Provincia di Asti a Patrimonio dell'Umanità UNESCO per arrivare a un coinvolgimento dei territori di Langhe, Roero e Monferrato . É stato un work in progres libero, fatto di tappe, aperto a chiunque abbia voluto prenderne parte, il tutto con la nostra supervisione. Il nostro intento è stato quello di educare la gente al bello, creando quel "fil rouge" tra popolazione e Territorio" .

 

Chiara Nucera

 

 

Gli Sfiorati

Sabato 25 Febbraio 2012 11:39

Méte (Andrea Bosca) è un trentenne irrisolto, esperto di grafologia, della quale ne ha fatto una professione, la sua crisi esistenziale inizierà quando il padre, che da molti anni ha una nuova famiglia spagnola, decide di ufficializzare il suo lungo sogno d'amore. Belinda (Miriam Giovannelli), è la bellissima e conturbante sorellastra che, giunta all'improvviso, provocherà in Méte inconfessabili fantasie. Con l'avvicinarsi della data delle nozze, il giovane si troverà a dover fare i conti con le proprie insicurezze, con un genitore assente per gran parte della sua vita e con una tempesta ormonale dagli incestuosi risvolti.

Una storia d'amore e di passione, repressa, somatizzata, interiorizzata, sconvolgente e allo stesso tempo talmente naturale da scendere giù come un bicchier d'acqua, è alla base del  romanzo omonimo di Sandro Veronesi, fotografia assai lucida degli anni ottanta, sullo sfondo di una Roma onnipresente. La trasposizione avviene ad opera di tre sceneggiatori Rovere, Piccolo e Paolucci (e del ghostwriter Procacci) che, lavorando ad un complesso riadattamento del testo letterario, smarriscono la direzione, riportando i fatti ai giorni nostri, sebbene alcuni personaggi risultino troppo cristallizzati nell'epoca degli yuppies incalliti. 
Partendo da un impianto drammatico, la pellicola si abbandona a sprazzi comici, stonature prive di fascino o motivazione, sulla scia dei pensieri di un protagonista avulso dalla realtà, privo di reali preoccupazioni se non quella fondamentalmente dilemmatica sul farsi o meno la caliente sorella. Comico, tragico, commedia amara? Tutto e niente, un universo in cui il bravissimo Andrea Bosca è una rivelazione interpretativa, capace di rendere a pieno un personaggio senza spessore alcuno, caricandolo di un significato e di un'intensità che lo rendono convincente, pur poggiando su un impianto narrativo nullo e su una sceneggiatura a tratti imbarazzante. 
La regia, molto simile allo stile del videoclip, si disperde in simbolismi reiterati, tutti intrisi di dejà-vu. Così abbiamo scontate consequenzialità nei riflessi di Méte su una parete specchiata o un viaggio in ascensore screziato di chiaroscuri alternati, una liberatoria scena finale in automobile, sotto una postmocciana pioggia, in cui la neo-famigliola appena riunita canta a squarciagola un'agghiacciante “Più bella cosa non c'è”.
Costantemente sul filo del ridicolo involontario, il film di Rovere assumerebbe un senso compiuto soltanto con un finale tragico, col sacrificio di uno dei personaggi principali e più inquieti, che invece gli autori, preferendo giocare la carta dello scandalo segreto ed intra-familiare e spingendo infine il pedale sulla commedia, si sono ben guardati dall'utilizzare, lasciando lo spettatore sgomento.
In tutto questo ci domandiamo chi siano gli “Sfiorati” e che senso abbia rintracciare in una categoria antropologica, con presunzione di scientificità, dei giovani ricchi, viziati e dissociati.  Se tutto ciò serve a dare motivazioni profonde dove non sussistono, Rovere compie un grande buco nell'acqua, sprecando i suoi bei protagonisti, vissuti bene dalla bravura del cast, ma che mancano di un corrispettivo che li incolli all'interno della storia, poiché una storia è proprio ciò che manca. Le atmosfere rarefatte, la bellezza eterea e allo stesso tempo carnale di Miriam Giovannelli, le tinte eccessivamente scure nei contrasti eccessivamente chiari dell'alternanza tra dentro e fuori, è tutto ciò che colpisce, il resto nemmeno ci prova a colpire, sfiorando, mai centrando, proprio come nel titolo.
 
 
Paolo Dallimonti e Chiara Nucera