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Take Five

Martedì 30 Settembre 2014 21:26
Napoli. Un ricettatore mette insieme una banda di rapinatori per il colpo milionario che potrebbe arricchirli per sempre.
Guido Lombardi entra in scena per la seconda volta: la platea è ancora calda dopo il grande successo, soprattutto di critica, ottenuto con Là-Bas, Educazione criminale nel 2011. Uno spaccato sociale inaspettatamente originale, un aspro racconto che non rinuncia alla poeticità e mai si rende patetico. Il Leone del Futuro conferitogli a Venezia sembrava aver già consacrato l'autore ad un cinema verità, onesto e drammatico, politicamente non troppo corretto.
Con Take Five però Lombardi cambia rotta e privilegia il gusto personale - scelta che si palesa non tanto nell'esito registico quanto in quello drammaturgico. Incoraggiato da un background da cinefilo autodidatta, Lombardi tenta un cocktail di generi: il noir ed il western sono gli ingredienti principali, con un tocco di sarcasmo a fare da collante.
Del noir eredita le atmosfere cupe, così come l'umore e l'umorismo, perché nera è la sorte dei protagonisti e indubbiamente lo è anche l'epilogo verso il quale tutto il film converge sin dal principio. 
Del western si ravvisa la composizione canonica perché i cinque protagonisti "irregolari", come li definisce il regista stesso, sono impegnati in un costante scontro frontale prima contro la legge in nome del dio denaro, poi contro il clan della camorra, infine l'uno contro l'altro.
Cinque sagome che si muovono al ritmo di un jazz d'impronta partenopea, cinque beat differenti, cinque solisti - da qui il titolo - che si scambiano di ruolo, alleandosi e poi annientandosi. Un ricettatore con il nipote appena affiliato, un idraulico indebitato a causa del vizio del gioco, un fotografo ex scassinatore in attesa di un trapianto di cuore, uno showman del panorama gangsta della vecchia generazione.
La cornice è la stessa dell'opera prima, la caotica e contraddittoria metropoli, ma con i toni, seppur amari, decisamente diversi della commedia pittoresca e divertita. Cambiano i protagonisti e gli occhi attraverso i quali Lombardi fa filtrare la sua narrazione: si assiste ad un'edulcorazione che passa da immigrati stranieri di una più cupa desolazione a degli outsider che vivono di espedienti.
L'avvenenza di Là-Bas sorgeva infatti dall'incontro della cultura africana con quella partenopea, dal suo colorarsi di termini dialettali ed usanze, compiendo un'educazione culturale ed insieme criminale, facendo sì che scaturisse da tutte le più forti contraddizioni il ritratto di un'esacerbata contaminazione.
Al contrario con Take Five, in linea col fil rouge della scuola napoletana, lo sguardo è fisso nella propria identità culturale e autocompiaciuto nel raccontarsi.
Emblematica è la scena del teschio, istantanea dal forte retrogusto popolare, nella quale i protagonisti si concedono un momento di pausa per carezzare un cranio abbandonato, con scetticismo ma sempre suggestionati dal potere della malasorte. 
O ancora la sequenza della cena dove attorno ad un tavolo, i cinque apostoli del crimine, si intrattengono con goliardici ricordi malavitosi. 
Come se nulla li legasse più della tragica ossessione della ricchezza, ogni membro della paranza - questo il nome dialettale della banda - non sogna altro che far soldi con "la fatica", cioè con "il lavoro", a prescindere però da quanto sia dignitoso o conforme alla legge. 
Un caveau illuminato come fosse la fonte della vita eterna e Sciomèn che sospira estasiato: "Finalmente sono a casa mia", quasi commuove.
Ma nonostante qualche momento di ilarità - due o tre, e neanche troppo riusciti - i nostri  Lupin senza arte né parte sono destinati al fallimento. Sono destinati all'anti-eroicità, anche nel crimine. Peggio ancora, sono destinati alla solitudine: si distruggeranno l'un l'altro con un disperato effetto domino. 
Fino ad arrivare alla sequenza finale, trionfo della componente western prevedibile, sovrabbondante di citazioni, decisamente troppo calcata.
 
Chiara Del Zanno

Ritratti Abusivi

Mercoledì 29 Ottobre 2014 20:53
Il villaggio Coppola, noto anche con il nome di Pinetamare, è una frazione di Castel Volturno in provincia di Caserta. L’enorme complesso abitativo venne costruito negli anni ’60 con l’obiettivo di valorizzare per fini turistici la bellissima area, a due passi dal mare. Parco Saraceno costituisce solo uno dei quartieri di Pinetamare; una ventina di palazzi in stato di abbandono da più di vent’anni, occupati abusivamente perlopiù da disoccupati e piccoli pregiudicati. 
 
Il regista Romano Montesarchio racconta la trasformazione di Parco Saraceno, da prodotto del boom economico e dello sfavillante sogno americano a città fantasma dimenticata dalle istituzioni, senza però soffermarsi troppo sui moventi sociali e politici che ne hanno decretato la degenerazione. 
Il suo approccio con gli abitanti di Parco Saraceno è distaccato; riprende sempre i personaggi con una certa distanza, evitando di soffermarsi sull'aspetto di illegalità che emerge a sprazzi dai vari racconti, privilegiando il lato umano della vicenda.
 
La denuncia, esclusa intenzionalmente dall’autore, lascia spazio agli sproloqui. A volte un po' troppo qualunquisti, degli abitanti del posto. D’altro canto, l’indagine puramente antropologica, su cui il regista sembra concentrarsi maggiormente, sfocia spesso e volentieri nel dilettantismo. 
A Montesarchio manca infatti quel “cine-occhio” in grado di documentare gli aspetti apparentemente marginali nella quotidianità dei protagonisti e di fruirli coerentemente. Anche quando ci prova, lo spettatore cade sempre di più in un vortice inesorabile di noia, noia fine a se stessa.  
In assenza di tutte queste intenzioni autorali, 
la telecamera non sta mai veramente dentro ciò che accade, come Montesarchio vorrebbe farci credere, ma diventa una cassa di risonanza per amplificare l’imperante narcisismo dei soggetti filmati. 
Quel “fattore umano” di cui parla il regista si riduce a una galleria frammentaria di personaggi estraniati dalla società comune, che si appropria abusivamente del mezzo di ripresa a proprio piacimento. 
Alcuni si atteggiano, altri si autocommiserano. 
Parlano con lo sguardo rivolto in camera, parlano troppo. 
È proprio questo uno dei veri problemi di Ritratti abusivi, si parla troppo e si mostra poco, sacrificando quello che dovrebbe essere il vero protagonista, ovvero l’ambientazione desolata e straniante di Parco Saraceno.  
Il film, con la sua verve omertosa e reazionaria, è un’offesa a quei movimenti che, negli ultimi anni, di lotte per arginare l’emergenza abitativa ne hanno intraprese sul serio. 
Eppure i primi minuti lasciano presagire un’opera promettente, con il montaggio contrappuntistico che sovrappone l’entusiastica voice over dei filmati di repertorio  alle immagini attuali degli edifici diroccati. 
Ma la luce dell’interesse tende a smorzarsi presto.
A produrre è Rai Cinema, in collaborazione con Figli del Bronx di Gaetano Di Vaio, produttore dalla lunga e vivace ex carriera criminale e interprete di Take Five (Guido Lombardi, 2013). 
Ritratti abusivi è stato presentato nel 2013 al Festival internazionale del Film di Roma (Prospettive Doc Italia), che di questi tempi non è proprio un sinonimo di qualità. 
 
Angelo Santini